Avalanche, veux-tu mâemporter dans ta chute?
BAUDELAIRE
101.
Pianta di serra. Si parla spesso di precoci e di tardivi, quasi sempre con un segreto augurio di morte per i primi; ma il discorso non regge. Chi matura presto, vive nellâanticipazione. La sua esperienza è aprioristica, una sensibilitĂ che è presentimento, e saggia in immagini e parole ciò che solo piĂş tardi sarĂ corrisposto in cose ed uomini. Questa anticipazione, saziata per cosĂ dire in se stessa, allontana dal mondo esterno e presta facilmente al rapporto con questâultimo un carattere nevrotico e infantile. Se il prematuro è qualcosa di piĂş che il possessore di alcune abilitĂ , è costretto in seguito a mettersi alla pari con se stesso: un obbligo volentieri presentato dai normali come un dovere morale. Egli deve conquistare faticosamente, al rapporto con gli oggetti, lo spazio che è stato occupato dalla sua rappresentazione: e deve apprendere perfino a soffrire. Il contatto col non-io, che, nei cosiddetti tardivi, non è mai disturbato dallâinterno, diventa un bisogno per il precoce. La direzione narcisistica degli impulsi, documentata dal predominio dellâimmaginazione nella sua esperienza, ritarda direttamente la sua maturazione. Solo piĂş tardi egli sperimenterĂ , con brutale violenza, situazioni, angosce, passioni, che erano state infinitamente piĂş miti nellâanticipazione; ed esse si trasformano, nel conflitto col suo narcisismo, in fattori di consunzione morbosa. Egli soccombe allâinfantile, che aveva dominato un tempo quasi senza sforzo, e che ora reclama il suo prezzo; diventa immaturo, e maturi diventano gli altri, che sono stati, in ogni periodo, ciò che si aspettava che fossero, e a cui ora sembra imperdonabile ciò che colpisce lâex precoce fuori di ogni proporzione. Egli viene assalito dalla passione; dopo essersi troppo a lungo cullato nella sicurezza della sua autarchia, smania invano, lĂ dove un tempo costruiva ponti sullâaria. Non a caso la grafia dei precoci rivela tratti infantili. Il precoce è uno scandalo dellâordine naturale, e la maligna salute gode del pericolo che lo minaccia, come la societĂ diffida di lui, in quanto vede in lui la negazione visibile dellâequazione di successo e sforzo. Nella sua economia interiore si compie, inconsapevole ma spietato, il castigo che gli è stato sempre augurato dagli altri. Il premio che gli era stato offerto con fallace benevolenza, viene ritirato. Anche nel destino psicologico câè unâistanza che provvede a che tutto venga ricambiato. La legge individuale è una crittografia dello scambio di equivalenti.
102.
Chi va piano va sano e va lontano. Correre per la strada ha lâespressione del terrore. Ă giĂ lo stramazzare della vittima, prefigurato nel suo tentativo di sfuggire alla caduta. Il portamento del capo, che vorrebbe restare a galla, è quello di chi affoga, il volto tirato arieggia a una smorfia di dolore. Deve guardare diritto davanti a sĂŠ, senza voltarsi, se non vuole rischiare di incespicare, come se avesse alle spalle lâinseguitore la cui vista impietrisce. Una volta si fuggiva a gambe levate di fronte ai pericoli che erano troppo terribili perchĂŠ si potesse pensare di farvi fronte, e senza saperlo ne testimonia ancora chi corre dietro allâautobus che si allontana. La disciplina della circolazione non ha piĂş bisogno di tener conto delle belve feroci, ma non si può dire che essa abbia pacificato la corsa. Questa estrania, e cioè ci costringe a guardare con altri occhi, il camminare borghese. Si rende visibile la veritĂ che la sicurezza è superficiale e apparente, e che si tratta pur sempre, in fin dei conti, di sfuggire alle potenze scatenate della vita, quandâanche non siano che i veicoli. Il fatto che il corpo sia abituato a camminare come alla sua andatura normale risale al buon tempo antico. Era il modo borghese di cambiare di posto: demitologizzazione fisica, per cosĂ dire, libera dalla costrizione dellâincedere ieratico, del pellegrinaggio nomade, della fuga affannosa. La dignitĂ umana insisteva sul diritto a camminare, un ritmo che non viene estorto al corpo dal comando o dal terrore. Passeggiare, andare a zonzo, flâner, erano un passatempo dellâindividuo privato, unâereditĂ del passeggio feudale nel secolo decimonono. Insieme allâepoca liberale si estingue anche lâabitudine a camminare, anche dove non si va in automobile. Il movimento giovanile1, che ha sperimentato in anticipo queste tendenze dando prova di un masochismo infallibile, ha dichiarato guerra alle gite domenicali in compagnia dei genitori e le ha sostituite con marce forzate volontarie, che ha battezzato col nome medievale di ÂŤFahrtÂť2, senza sapere che, per questo, sarebbe stato disponibile, di lĂ a poco, il modello Ford. Forse nel culto delle velocitĂ tecniche, come nello sport, si nasconde il bisogno di padroneggiare lo spavento della corsa, allontanandola, per cosĂ dire, dal proprio corpo e lasciandola insieme sovranamente indietro: il trionfo del contachilometri che sale placa ritualmente lâangoscia del perseguitato. Ma allorchĂŠ si grida a qualcuno ÂŤcorri!Âť, dal bambino che deve salire al primo piano a prendere il borsellino che la mamma ha dimenticato, fino al prigioniero a cui la scorta intima di fuggire per avere il pretesto di assassinarlo, si rende percettibile la violenza arcaica che, per tutto il resto del tempo, guida silenziosamente ogni passo.
103.
Il ragazzo della landa3. Ciò che temiamo piĂş di ogni altra cosa, senza un reale motivo, apparentemente ossessionati da idee fisse, ha la proterva tendenza ad accadere realmente. La domanda che non vorremmo udire a nessun costo, ce la porrĂ un individuo dâanimo meschino in tono di perfido e amichevole interessamento; la persona da cui vorremmo, piĂş che da ogni altra, tener lontana lâamata, lâinviterĂ , anche da tremila miglia di distanza, grazie a benevole raccomandazioni, e darĂ origine a quel tipo di conoscenze da cui incombe il pericolo. Resta a vedere fino a che punto siamo noi stessi a provocare questi orrori; se, per esempio, un silenzio troppo ansioso non mette quella domanda sulla lingua del maligno; se non si provoca il fatale contatto pregando lâintermediario, con sciocca e distruttiva fiducia, di non voler fare da intermediario. La psicologia sa che chi si dipinge il male, in qualche modo lo vuole. Ma come accade che il male gli viene incontro con tanto zelo? Alla fantasia paranoide corrisponde qualcosa nella realtĂ che essa deforma. Il latente sadismo di tutti indovina infallibilmente la latente debolezza di tutti. E la fantasia di persecuzione si attacca: dovunque si manifesti, ci sono spettatori irresistibilmente spinti ad imitarla. Ciò accade tanto piĂş facilmente, quando si contribuisce a darle ragione facendo ciò che lâaltro teme. ÂŤUn pazzo fa molti pazziÂť: lâabissale solitudine della follia ha una tendenza alla collettivizzazione, che chiama lâincubo in vita. Questo meccanismo patologico concorda col meccanismo sociale oggi determinante, per cui gli uomini socializzati e ridotti, dalla socializzazione, in disperato isolamento, sono assetati di convivenza, e confluiscono in gelidi mucchi. cosĂ la follia diventa epidemica: le sètte stravaganti crescono con lo stesso ritmo delle grandi organizzazioni. Ă il ritmo della distruzione totale. La realizzazione delle fantasie di persecuzione dipende dalla loro affinitĂ con lâessenza sanguinosa. La violenza su cui si basa la civiltĂ significa persecuzione di tutti ad opera di tutti, e il malato di persecuzione si reca pregiudizio solo in quanto attribuisce al prossimo ciò che è opera del tutto, nel disperato tentativo di rendere lâincommensurabilitĂ commensurabile. Egli si brucia, perchĂŠ vorrebbe afferrare immediatamente, per cosĂ dire con le mani, la follia oggettiva a cui somiglia, mentre lâassurdo consiste proprio nella perfetta mediazione. Egli cade vittima della conservazione del complesso di accecamento. Anche la piĂş falsa e insensata rappresentazione di avvenimenti, la proiezione piĂş folle, contiene lo sforzo inconsapevole della coscienza di conoscere la legge mortale mercè la quale si perpetua la vita della societĂ . Lâaberrazione non è, in realtĂ , che il cortocircuito dellâadattamento: la follia manifesta dellâuno chiama erroneamente nellâaltro la follia del tutto col suo vero nome, e il paranoico è la caricatura della vera vita, in quanto sceglie di adeguarsi personalmente alla falsa. Ma come nel cortocircuito sprizzano le scintille, cosĂ follia e follia comunicano fulmineamente nella veritĂ . I punti di contatto sono le conferme lampanti delle fantasie di persecuzione: conferme che dĂ nno apparentemente ragione al malato, e lo sprofondano tanto piĂş nel suo abisso. La superficie dellâesistenza si richiude subito, e gli dimostra che le cose non vanno poi cosĂ male e che egli è pazzo. Egli anticipa soggettivamente lo stato in cui la follia oggettiva e lâimpotenza del singolo trapassano immediatamente lâuna nellâaltra: il fascismo, come dittatura di malati di persecuzione, realizza tutti i terrori delle vittime. Ecco perchĂŠ si può decidere solo post factum se un sospetto eccessivo sia paranoico o adeguato alla realtĂ , la fievole eco privata della furia imperversante della storia. La psicologia non arriva fino allâorrore.
104.
Golden Gate. Allâamante offeso e messo da parte balena dâimprovviso una veritĂ , cruda e abbagliante, come quando acuti dolori illuminano lâinterno del corpo. Egli riconosce che nellâintimo dellâamore accecato â che non ne sa nulla e nulla potrebbe saperne â vive lâesigenza della liberazione da ogni accecamento. Egli ha subĂto un torto; e di qui deduce lâesigenza del diritto, che â nello stesso tempo â è costretto a respingere, poichĂŠ ciò che desidera non può nascere che dalla libertĂ . In tale angustia il respinto diventa uomo. Come lâamore tradisce â senza possibilitĂ di riscatto â lâuniversale per il particolare, in cui solo torna onore al primo, cosĂ lâuniversale â come autonomia del prossimo â gli si rivolta mortalmente contro. Proprio il diniego, in cui si è affermato lâuniversale, appare allâindividuo come esclusione dallâuniversale; chi ha perso lâamore, si sa abbandonato da tutti, e per questo sprezza ogni conforto. NellâassurditĂ del rifiuto egli comincia a rendersi conto della non-veritĂ di ogni realizzazione puramente individuale. Ma con questo egli si ridesta alla paradossale coscienza dellâuniversale: dellâinalienabile e incontestabile diritto dellâuomo, di essere amato da colei che ama. Con la sua richiesta di esaudimento, che non è fondata su nessun titolo e su nessuna pretesa, egli fa appello ad unâistanza sconosciuta, che gli promette â per pura grazia â ciò che insieme gli spetta e non gli spetta. Il segreto della giustizia nellâamore è il superamento del diritto, a cui lâamore allude col suo muto gesto. ÂŤSempre sciocco, ingannato, soverchiato, â cosĂ, sempre, devâessere lâamoreÂť4.
105.
Solo un quarto dâora. Notte insonne: si può definire con una formula: ore tormentose, trascinate senza la prospettiva di una fine o dellâalba, nel vano sforzo di dimenticare la vuota durata. Ma ad incutere spavento sono le notti insonni in cui il tempo si contrae e scorre infruttuosamente fra le dita. Uno spegne la luce nella speranza di lunghe ore di riposo, che gli possano recare qualche conforto. Ma mentre non può calmare i suoi pensieri, va sprecato per lui il tesoro prezioso della notte, e prima di essere in grado di non vedere piĂş nulla sotto le palpebre accese, sa che è ormai troppo tardi, e che presto il mattino lo farĂ destare di soprassalto. Può darsi che, per il condannato a morte, lâultimo spazio di tempo che gli rimane passi cosĂ, inarrestabile e inutilizzato. Ma ciò che si rivela in questa contrazione delle ore è esattamente lâopposto del tempo realizzato. Mentre in questo la forza dellâesperienza spezza lâincantesimo della durata e concentra nel presente il passato e il futuro, nella notte insonne e affannosa la durata genera un orrore intollerabile. La vita umana si riduce a un istante non giĂ perchĂŠ sopprima e conservi in sĂŠ la durata, ma perchĂŠ cade in balĂa del nulla, e si ridesta alla coscienza della sua vanitĂ di fronte alla cattiva infinitĂ del tempo stesso. Nel ticchettio fragoroso dellâorologio si percepisce, per cosĂ dire, lo scherno degli anni luce per la breve durata della nostra esistenza. Le ore che sono svanite come secondi prima ancora che il senso interno le abbia afferrate e fatte sue, e che lo travolgono con sĂŠ nella loro caduta precipitosa, gli dicono che anchâesso, come ogni memoria, è votato allâoblio nella notte cosmica. Oggi gli uomini sono costretti, che lo vogliano o meno, a prenderne atto. Nello stato di perfetta impotenza in cui si trova, lo spazio di tempo che gli è stato lasciato da vivere appare allâindividuo come una breve dilazione prima dellâesecuzione della sentenza. Egli non si aspetta piĂş di poter vivere la propria vita fino in fondo, secondo la misura delle sue forze. La prospettiva della morte violenta e della tortura, che è presente ad ognuno, si prolunga nellâangoscia di chi sa che i giorni sono contati, e che la lunghezza della propria vita è soggetta a leggi statistiche; che la possibilitĂ di invecchiare è diventata, per cosĂ dire, un privilegio sleale, che deve essere carpito astutamente alla media degli uomini. Forse la quota di vita che la societĂ mette a disposizione dei suoi membri, riservandosi di revocarla in qualsiasi momento, è giĂ esaurita. Il corpo registra questa angoscia nella fuga delle ore. Il tempo vola.
106.
Tutti i fiorellini5. Il detto di Jean Paul, che i ricordi sono lâunico possesso che nessuno ci può togliere, appartiene allâarmamentario dellâimpotente conforto sentimentale, che vorrebbe far credere al soggetto che il suo ripiegamento nellâinterioritĂ , la sua rinuncia, è precisamente la realizzazione da cui desiste. Con la costituzione di un archivio di se stesso, il soggetto sequestra il proprio patrimonio di esperienze e lo trasforma in una proprietĂ , e cioè di nuovo in qualcosa di affatto esteriore al soggetto. La trascorsa vita interiore diventa una specie di mobilio, come â viceversa â ogni pezzo dâartigianato è stato concepito fin dallâinizio come un ricordo ligneo. Nulla di piĂş caduco dellâintĂŠrieur in cui lâanima sistema la raccolta dei suoi memorabilia e delle sue curiositĂ . I ricordi non si lasciano conservare in cassetti e in scomparti, ma in essi il passato sâintreccia indissolubilmente al presente. Nessuno può disporne con la libertĂ e con lâarbitrio il cui elogio gonfia le pagine di Jean Paul. Proprio quando diventano oggettivi e dominabili, quando il soggetto li ritiene definitivamente in suo possesso, i ricordi sbiadiscono come delicati tappeti esposti alla cruda luce del sole. Ma quando, protetti dallâoblio, conservano la loro forza, sono in pericolo come ogni altra cosa vivente. La concezione di Bergson e di Proust â tutta rivolta contro la reificazione â secondo la quale il presente, lâimmediatezza, si costituisce solo mediatamente attraverso la memoria, attraverso lâinterazione di ora ed allora, ha quindi, oltre al suo aspetto salutare, anche un aspetto infernale. Come ogni esperienza anteriore è reale solo in quanto è sottratta dal ricordo involontario allâimmobilitĂ cadaverica del suo isolamento, cosĂ nessun ricordo è garantito, autonomo, indifferente verso il futuro di chi lo coltiva; nessun passato è garantito dalla maledizione del presente empirico solo perchĂŠ viene accolto nella rappresentazione. Il piĂş bel ricordo che ci resta di un altro può essere revocato, e in quel che ha di piĂş sostanziale, dallâesperienza successiva. Chi, dopo aver amato, tradisce lâamore, non rovina solo lâimmagine del passato, ma il passato stesso. Con irresistibile evidenza penetra nel ricordo un gesto involontario al momento del risveglio, un tono di voce assente, unâimpercettibile ipocrisia del piacere, e fa giĂ della vicinanza di un tempo lâestraneitĂ in cui si è trasformata oggi. La disperazione ha lâaccento dellâirrevocabile, non perchĂŠ le cose non potrebbero andare meglio domani, ma perchĂŠ trascina con sĂŠ il passato nel suo abisso. Ecco perchĂŠ è sciocco e sentimentale voler conservare intatto dalla torbida fiumana del presente qualcosa del passato. A cui non resta altra speranza che quella di emergere ancora una volt...