Dante
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Dante

Storia avventurosa della Divina commedia dalla selva oscura alla realtà aumentata

Alberto Casadei

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Storia avventurosa della Divina commedia dalla selva oscura alla realtà aumentata

Alberto Casadei

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La biografia di Dante Alighieri e la gestazione delle sue grandi opere, nella loro verità storica finalmente a disposizione di studenti, ricercatori e lettori. Sono tre, in questo libro, le grandi aree di studio di Alberto Casadei, luminare in materia: le prime grandi opere, come la Vita Nova e il De vulgari eloquentia, un grande corpo centrale, interamente dedicato a tutte le vicende che hanno consentito al sommo poeta di creare La Divina Commedia e, infine, una coda imperdibile su tutte le influenze che Dante ha generato nel corso nei secoli nelle arte di tutto il mondo: Dante nella musica, nella cultura, nel disegno, e perfino nei videogiochi. Un'opera ambiziosa da parte di uno dei maggiori dantisti contemporanei, che tenta di asciugare tutto il romanzesco della vita di uno degli artisti più amati della storia dell'umanità.

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Información

Editorial
Il Saggiatore
Año
2020
ISBN
9788865768549
Categoría
Literatur
Categoría
Literaturkritik

1. L’amore e i versi nuovi

(1265-1292)
Dante, gli Alighieri e Firenze dal 1265 alla fine del Duecento
Durante degli Alighieri (più frequentemente indicati nei documenti come Alagheri o anche Aldighieri) nasce a Firenze sotto la costellazione dei Gemelli, in un giorno non meglio precisato tra il maggio e il giugno del 1265. Com’è ovvio, sono stati tanti i tentativi di fissare con esattezza quel giorno, ma nessuno è arrivato a conclusioni sicure: si pensa al 29 maggio o al 13 giugno, però si tratta di ipotesi, come capita molto spesso nella ricostruzione della biografia di un poeta tanto noto per la sua opera quanto sconosciuto per moltissimi aspetti della sua vita. I dati sicuri sono poche decine, e spesso non sono interpretabili in maniera univoca. Inutile quindi accanirsi oltre il ragionevole nel cercare di seguire tutte le sue mosse, quando comunque ci interessano soprattutto le sue grandi opere, ovviamente il più possibile da inserire nel loro contesto storico, ma poi da leggere e ammirare per le loro caratteristiche e il loro valore artistico: e su questi aspetti cercheremo qui di concentrarci.
Di sicuro, tutti sanno che Firenze era, nel periodo giovanile di Dante (fu sempre chiamato con questo diminutivo), una città in cui dominavano famiglie legate all’ambito dei guelfi, in genere (ma con tante variabili) vicine al potere ecclesiastico, mentre i ghibellini erano sostenitori dell’Impero: ma questi ultimi erano stati cacciati definitivamente, dopo anni di scontri violenti, nel 1267. Da quell’anno, la città si era evoluta principalmente nel settore del commercio, e aveva sviluppato al suo interno dinamiche sociali che non era facile tenere sotto controllo. Come in altri centri della Toscana, si erano presto formati due schieramenti diversi nel campo guelfo, quello più legato alla tradizione nobiliare di antica data (i neri), e quello composto da famiglie arrivate ad arricchirsi appunto con i commerci, quindi ascese di grado sociale in tempi piuttosto recenti (i bianchi).
Gli Alighieri non erano una famiglia di alta nobiltà, ovvero magnatizia. I magnati erano altri, i Donati per esempio, la cui stirpe risaliva almeno all’xi secolo, e dominava nello schieramento dei guelfi neri specialmente con il potente e spregiudicato Corso, nato intorno al 1250, già implicato in dissidi politici nel 1286, poi considerato da molti uno degli artefici della vittoria di Campaldino, non lontano da Arezzo, nel 1289, quando i guelfi riuscirono a sconfiggere l’ultimo forte esercito dei ghibellini toscani. A quella battaglia partecipò anche Dante, sebbene poco ci dica di quell’evento: ma l’esperienza diretta di un combattimento lasciò varie tracce nelle sue opere.
Grosso modo nell’ultimo decennio del secolo, gruppi di ricchi commercianti o di personaggi legati alle Arti maggiori, ossia alle corporazioni del lavoro più importanti come quella dei Giudici e Notai, si erano affidati alla guida dei Cerchi, la famiglia di maggior spicco tra i guelfi bianchi, favorevoli a una più ampia apertura nel governo della città. Il loro principale esponente era Vieri (diminutivo da Oliviero), diventato cavaliere nel 1267 per meriti antighibellini, di indole piuttosto moderata ma anch’egli valoroso a Campaldino. L’unità che si riscontrò in quell’occasione tra i fiorentini divenne presto un ricordo.
Infatti nell’ultimo decennio del Duecento i contrasti fra i Cerchi e i Donati, confinanti nel sestiere di Porta San Pier Maggiore, a pochi passi dall’odierna piazza della Signoria, crebbero incessantemente. Alla rivalità legata alla potenza delle due famiglie se ne aggiunse un’altra, del tutto personale, fra il benamato ma timoroso Vieri de’ Cerchi e l’odiato ma intraprendente Corso Donati, sprezzante nei confronti del rivale che chiamava l’«asino di Porta». E poi, in un quadro che sarebbe molto complesso sintetizzare, si coglievano le lotte determinate dagli interessi economici di una parte o dell’altra, e connesse alla ingerenza politica di forze che non erano circoscritte ai singoli comuni toscani, come quella del papa teocratico e assolutista Bonifacio viii (al potere dalla fine del 1294), interessato a espandere i suoi domini. A Firenze si arrivò a decreti contro i magnati, come quelli emanati nel 1293 con l’avallo del potente uomo politico, vicino alla parte popolare, Giano della Bella, e a un progressivo inasprimento delle misure contro i capi più facinorosi, con spinte e controspinte, sino al fatidico 1300, anno cui arriveremo tra poco.
Ma in un contesto così esasperato, cosa potevano fare le famiglie di ceto medio-alto, di piccola nobiltà e di non ampio patrimonio, sempre soggette ai rivolgimenti politici, magari per un’alleanza sbagliata? Almeno gli Alighieri si divisero su vari fronti. Ci fu chi si spostò decisamente verso il commercio, alleandosi quindi con gli esponenti delle Arti economicamente più attive, come fece Bello con i suoi figli, in diverse occasioni accusati di malversazioni e addirittura coinvolti in risse ed episodi violenti: così capitò a Geri, assassinato dopo il 1280 forse da un membro della famiglia Sacchetti e non vendicato dagli Alighieri (se ne parla nel canto 29 dell’Inferno, dove peraltro Geri del Bello risulta condannato come seminatore di discordie). Oppure ci si dette al prestito, non senza sospetti di usura, pratica molto frequente all’epoca: in questo settore, presidiato da Bellincione, fratello di Bello, operò così il padre di Dante, ossia Alighiero ii, mai nominato dal figlio e del quale si sa abbastanza poco. Di sicuro ebbe due mogli, dalla prima delle quali, Bella (Gabriella degli Abati?), nacque il poeta: di lei non parla mai direttamente, tuttavia sono tante le sue pagine in cui vengono descritti i gesti di affetto tra madre e figlio. Siamo poi a conoscenza di una sorella, Gaetana o Tana, che si pensa maggiore di qualche anno e comunque interamente consanguinea di Dante, al contrario di quanto ritenuto in passato, quando li si considerava figli di madri diverse. Dopo la morte di Bella, forse nei primi anni settanta, Alighiero si sposò con un’altra donna abbiente, Lapa di Chiarissimo Cialuffi, dalla quale ebbe di sicuro Francesco, fratello acquisito di Dante e spesso con lui coinvolto in attività finanziarie. Nel complesso, alla morte di Alighiero, avvenuta prima del 1283 se non del 1277, la famiglia era in discrete benché sempre altalenanti condizioni economiche e questo consentì a Dante di dedicarsi prima agli studi, sia pure non in maniera sistematica, cioè seguendo per intero un curriculum universitario. Infatti, sebbene siano pressoché sicure le sue frequentazioni a Bologna negli anni ottanta (per non parlare di un suo soggiorno a Parigi, invece quasi certamente immaginario), Dante non completò un percorso di studi secondo quanto richiesto all’epoca, ma poté frequentare lezioni aperte al pubblico, probabilmente presso le scuole degli ordini religiosi a Firenze, forse anche in altre città, senza comunque conseguire un titolo. Ma nell’ultimo decennio del secolo si avvicinò anche alle attività politiche, soprattutto a partire dai suoi trent’anni (1295), in qualità di rappresentante dell’Arte dei Medici e Speziali.
Perché Dante entra nell’Arte dei Medici e Speziali?
Qui possiamo cominciare a interpretare i pochi dati storici conosciuti per domandarci, come spesso è stato fatto: perché proprio quell’Arte? In che modo Dante, semmai legato per tradizioni familiari alle attività dei cambiatori o ad alcune del commercio, poteva essere considerato un medico (gli speziali erano i farmacisti ovvero i venditori di vari tipi di spezie)? Prima di tutto, bisogna ricordare che la medicina era all’epoca strettamente legata alle conoscenze filosofiche, specie di matrice aristotelica, e che tanti dottori in questa materia erano pure commentatori di testi greci o latini, a partire da quelli di Ippocrate e Galeno, riletti sulla base delle competenze moderne, come quelle elaborate e trasmesse nei centri universitari di Salerno o di Bologna. Per esercitare la professione occorreva un preciso riconoscimento di tipo universitario, ma per iscriversi all’Arte potevano essere sufficienti buone competenze nell’ambito appunto filosofico e fisiologico: quelle competenze che Dante dimostra di avere già nelle sue prime poesie e nella Vita nova, completata con buona probabilità intorno al 1292-1293, e poi nel Convivio e in tanti passi del suo poema, dove descriverà con esattezza i sintomi di molte malattie, i processi della generazione, i legami fra influssi astrali e complessione fisica, e vari altri temi attinenti all’ambito medico secondo i canoni del Due-Trecento.
Dante aveva già cominciato a rifiutare una concezione per così dire «materialistica» della vita, come si evince perfettamente sin dalle sue prime prove letterarie, e non si trovava in sintonia con commercianti e banchieri. Un’altra Arte maggiore cui forse avrebbe potuto rivolgersi, quella dei Giudici e Notai, che di frequente erano buoni letterati se non poeti in proprio, era molto selettiva e vincolante riguardo agli studi specifici: Dante acquisì col tempo buone competenze di diritto, ma non ottenne mai un titolo accademico. L’adesione al gruppo dei Medici quindi poté avvenire sulla base del possesso di precisi requisiti (se ne adducono anche altri, meno probabili), e comunque della propensione del giovane Alighieri ad approfondire questioni filosofiche, con le relative ricadute nell’ambito della medicina e delle scienze.
Ma dove esattamente può aver studiato Dante? Si diceva di Firenze, dove forse si è recato, soprattutto a partire dal 1292, presso lo studium dei domenicani di Santa Maria Novella o quello dei francescani di Santa Croce, entrambi dotati di biblioteche, peraltro non facilmente accessibili per un laico. Oppure può aver frequentato il più grande centro universitario italiano di quell’epoca, Bologna, ricca di insegnamenti collegati agli studi giuridici in senso ampio (cioè anche filosofici, retorici ecc.), cui comunque bisognava dedicarsi con costanza (Dante potrebbe averlo fatto, all’incirca tra il 1285 e il 1287, ma non ci sono sicurezze)? Sono questioni su cui si discute e che non possono essere risolte in mancanza di documenti coevi, ma che possono essere affrontate decifrando le tracce della sua formazione rimaste impresse nei suoi testi. Di sicuro la vocazione del giovane Alighieri fu quella di acquisire un sapere elevato, forte in tutte le discipline del Trivio (grammatica, retorica, dialettica ovvero filosofia) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica), le sette arti liberali che solo i dotti maneggiavano abilmente. La sua formazione poté essere all’inizio non sistematica ma venne approfondita a più riprese, con l’intento di raggiungere competenze solide da impiegare nella vita pubblica, ma poi inevitabilmente assorbite anche dalla scrittura poetica.
Vita reale e opere letterarie
Occorre ora un altro sforzo interpretativo, imposto dal fatto che fra vita reale e opere letterarie, alla fine del Duecento, i rapporti erano molto diversi da quelli attuali. Delle vicende quotidiane, della famiglia in cui è vissuto, Dante non ci dice niente in modo diretto. E nemmeno della moglie, Gemma Donati, sua coetanea e appartenente – seppure in un ramo non elevatissimo (era figlia di Manetto, cavaliere piuttosto abbiente ma poco prestigioso) – alla famiglia magnatizia capofila dei neri, e quindi parente di Corso, promessa a Dante già nel 1277 e poi sua sposa all’incirca dal 1291-1292 (qualcuno ipotizza dal 1285, ma è poco verosimile). I due ebbero almeno tre figli, dei quali però non conosciamo le date di nascita: Iacopo e Pietro sono i più noti, fra l’altro come commentatori del poema del padre; poi c’è Antonia, monaca clarissa nel convento di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna, col nome di Beatrice. Solo da poco è stato confermato che esisteva un altro figlio probabilmente legittimo, Giovanni, il quale si trovava a Lucca per una compravendita nell’ottobre del 1308, e poi risulta presente come testimone a un atto rogato a Pagnolle, poco lontano da Firenze, nel maggio del 1314. Sarebbe lui il più anziano, ma in effetti dopo quell’anno non se ne hanno altre notizie e quindi dovremmo ipotizzare che sia morto in giovane età, oppure che si sia allontanato dalla famiglia per motivi sconosciuti.
Se dovessimo comunque mettere insieme le varie tessere, non sapremmo bene come disporle: quando esattamente sono nati questi figli nel corso dell’ultimo decennio del Duecento, qual è stata la loro esistenza e quella della madre dopo l’esilio del padre, perché Giovanni scompare senza lasciare tracce? Di tutte queste vicende, che ora considereremmo fondamentali in una biografia, Dante non dice niente nelle sue opere. Si potrebbe forse pensare che non amava i suoi, eppure Iacopo e Pietro scriveranno parole di esaltazione del padre, e Antonia prenderà, dopo i voti, il nome della sua amata ispiratrice. Di certo, invece, i codici culturali e comportamentali differivano di parecchio rispetto a quanto consideriamo adesso consueto se non normale.
Per esempio, come da tradizione lirica già provenzale, la donna esaltata in poesia non poteva coincidere con la moglie reale: s’insegue una figura irraggiungibile, magari una signora di elevatissimo rango, oppure lontana o addirittura sco...

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