Hinduismo
eBook - ePub

Hinduismo

Giovanni Filoramo, Carlo Della Casa, Stefano Piano, Mario Piantelli

  1. 382 páginas
  2. Italian
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  4. Disponible en iOS y Android
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Hinduismo

Giovanni Filoramo, Carlo Della Casa, Stefano Piano, Mario Piantelli

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Un'opera ricca e accurata, con saggi di alcuni fra i migliori specialisti italiani. Giuliano Boccali, "Il Sole 24 Ore" Una aggiornata visione d'insieme di una grande realtà religiosa destinata a recitare una parte importante anche nell'attuale confronto interculturale. Questo volume abbraccia la lunga parabola storica dello hinduismo, la ricca complessità di miti e rappresentazioni, le scuole filosofiche, le pratiche ascetiche, le forme devozionali che conservano ancor oggi, per l'immaginario occidentale, un fascino misterioso e intramontabile.

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Información

Año
2018
ISBN
9788858134016

Lo hindūismo I.
Testi e dottrine
di Mario Piantelli

1. Premessa

L’impiego della categoria di «hindūismo» è soggetto a numerose cautele; quest’etichetta di comodo, infatti, anziché individuare una religione più o meno organica e organizzata del tipo di quelle che ci sono familiari in Occidente, ricopre – alquanto imperfettamente – un universo estremamente composito e discontinuo. Ogni definizione restrittiva che ne venga fornita rischia di privilegiare indebitamente un certo ordine di idee – e di correlativi fenomeni – lasciando in ombra altri aspetti non meno significativi. D’altra parte, ove la si voglia rigorosamente fedele al territorio che intende descrivere, la mappa del preteso oggetto-«hindūismo» rischierà di presentarsi troppo dettagliata per essere ancora leggibile. In effetti i confini dell’oggetto in discorso sfumano insensibilmente in quelli della intera serie delle culture e società che si sono divise nei millenni il vasto subcontinente indiano: la storia di queste è spesso tutt’uno con la storia «religiosa», ammesso e non concesso che abbia senso parlare di «religione» a proposito dell’orizzonte spirituale dell’India. Tentiamo qui di presentare alcune coordinate caratterizzanti siffatto orizzonte, così da permettere al lettore di coglierne in qualche misura la peculiarità.
La domanda che dobbiamo anzitutto porci è: dove risiede nella visione indiana l’autorità?
Manca qui una Chiesa codificatrice di precetti e di verità di fede, che convalidi il corpus biblico fissandone il canone e dettandone l’interpretazione; manca un apparato legalista quale l’Islām ha elaborato nella sua storia, appoggiato al Corano e alle catene di trasmissione dei detti del Profeta e al tempo stesso garante della loro autenticità.
La tradizione antichissima dei Veda è via via pervenuta ad ogni generazione senza giovarsi di tali supporti istituzionali, affidata alla memoria degli «dèi in terra» (i bhūdeva), come sono volentieri detti i brāhmani. Costoro rappresentano il proseguimento di un’antichissima figura indoeuropea di detentore del sapere sacro rigorosamente orale, figura che si è spenta a Roma già con la trasformazione dello ius non scriptum nel testo delle XII Tavole ed è venuta meno da ultimo, al momento della redazione scritta dei Nemed, nell’estrema propaggine irlandese del mondo celtico, l’Irlanda.
Essendo venuta alquanto tardivamente, l’edizione commentata del corpus vedico (è questo il Vedārthaprakāśa – «Luce sul significato dei Veda» – curato nella seconda metà del secolo XIV da una commissione di dotti sotto la presidenza dei fratelli brāhmani Mādhava e Sāyaa, ministri dei re Bukka I e Harihara di Vijayanagara; già prima, sotto il regno di Parāntaka I Maduraikonda Coa [907-954], si era avuta la redazione di un commento del Ṛgveda, la Ṛgarthadīpikā – «Illuminatrice del significato delle Ṛc» – ad opera del dotto Vekaamādhava) non ha reso superfluo il ruolo dei brāhmani, consolidato nei millenni.
Correlativamente alla trasmissione del patrimonio vedico ancestrale, loro retaggio in quanto discendenti dai gotra facenti capo agli antichi veggenti, gli «uomini del Brahman» hanno praticato da tempo immemorabile – e in modo sempre più esclusivo – i rituali ad esso connessi. Qui i brāhmani stanno talora al di sopra dello stesso re: al momento dell’intronizzazione lo presentano al popolo con la formula: «Oh re, ecco il tuo popolo; oh popolo, ecco il tuo re! I brāhmani non hanno re» – e infatti il loro re è, tradizionalmente, il Dio Soma... Accanto a tale funzione, essi hanno per tempo appreso a distinguersi in ogni sorta di professione intellettuale, cominciando da quelle di più alto profilo (elaborazione e insegnamento di testi sacrali – anche anti-vedici! – poetico/retorici, scientifici, tecnici, ecc.) giù giù fino alla magia spicciola e all’arbitrato delle piccole controversie nella vita di villaggio.
La figura del brāhmano che i trattati e l’epica ci fanno conoscere contrasta in modo significativo con i quadretti realistici – spesso resi con toni addirittura picareschi – affidati al teatro e alla letteratura narrativa. Da una parte troviamo personaggi ieratici, che ad uno stile di vita semplice e puro accompagnano un’istintiva mitezza e un profondo rispetto della verità, tutti assorti nelle occupazioni cultuali e culturali e non alieni dai semplici diletti della vita in seno alla natura, condotta in ridenti eremi silvestri lontani dalla confusione e dall’impurità del mondo urbano; dall’altra ci sono descritti esseri vili, altezzosi, sovente ignoranti e superstiziosi, talora decisamente minus habentes, rapaci e voraci. Tipicamente, vien riservato loro il ruolo buffonesco del parassita (il vidūṣaka, lett. «corrotto/corruttore», un termine designante anche gli omosessuali passivi), una maschera comica che sembra ripresa da modelli della Nuova Commedia Attica introdotti dai greci della Battriana, insieme ad altre convenzioni come l’uso del sipario (la yavanikā, lett. «ionica»).
Non mancano tracce di polemiche tra brāhmani, segnatamente da parte degli ambienti tradizionalisti dell’India nord-occidentale, nei confronti dei loro più rilassati confratelli risiedenti nella piana gangetica orientale, specialmente bengalesi, considerati impuri e soltanto dei «sedicenti brāhmani» (brāhmaṇabruva). Il biasimo nei confronti di un loro congenere, altamente peccaminoso sulle labbra di qualcuno di condizione inferiore, è in effetti frequente da parte degli stessi appartenenti al mondo brāhmanico. Siffatte tensioni sono spie della policentricità di esso, che è lungi dal costituire un sistema gerarchico chiuso e compatto.
La normativa di matrice brāhmanica, in larga parte intesa a delineare un disegno ideale degli ordinamenti che dovrebbero reggere la società piuttosto che a redigere codici effettivamente applicati – come ci rivela il confronto con le iscrizioni a contenuto giuridico sopravvissute e, ancora una volta, con teatro e narrativa –, sottolinea adeguatamente il ruolo prestigioso di questi specialisti del Sacro, promulgando un’impressionante serie di trattamenti preferenziali destinati ad onorarli. L’«ottimo tra i due volte nati» (lo dvijottama, come è altresì chiamato il brāhmano) è il solo destinatario perfetto del dono, in forma anzitutto di cibo, poi di bestiame bovino, terre e oro: si ricordi che il suo potere abbrucia i demeriti connessi all’accettazione di tali beni, mentre tutti gli altri membri della società indiana devono accollarseli o ricambiare il dono con qualcosa di valore adeguato. Le terre di proprietà dei brāhmani, che possono comprendere interi villaggi, non devono corrispondere gli abituali tributi al re o alle altre figure istituzionali, ma direttamente ai loro proprietarii, i quali, beninteso, vanno esentati da ogni tassazione. In materia p...

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