La moda contemporanea
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La moda contemporanea

II. Arte e stile dagli anni Sessanta alle ultime tendenze

Fabriano Fabbri

  1. 824 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La moda contemporanea

II. Arte e stile dagli anni Sessanta alle ultime tendenze

Fabriano Fabbri

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Folle e spregiudicata, libera, nera o colorata, strappata, povera, o limpida e regale, la moda contemporanea è ammirata da molti e indifferente a pochi, ma sia i sostenitori piú entusiasti sia i detrattori piú sprezzanti non sono in genere disposti a riconoscere la forza di un'arte dalla prepotente intensità di ricerca e dagli indubbi toni di sperimentazione. Questo libro, analizzando un enorme numero di protagonisti, di collezioni e di poetiche e grazie a un ricchissimo apparato di immagini, racconta la storia della moda come una battaglia di stili, fra i designer devoti alla materia pulsante o alla purezza della geometria, e gli stilisti appassionati della storia, del passato, della memoria. Uno scontro che si consuma tra le due fazioni opposte dei frugali e dei citazionisti: i primi, oscuri e taglienti, immersi nella densità del presente, i secondi instancabili custodi del tempo e del museo. Accostandosi alla moda da una prospettiva del tutto originale, Fabbri esamina i cosmocorpi di Cardin, le acrobazie di Lagerfeld e Saint Laurent, le bombe tessili di Yamamoto, i barocchismi di Versace, la teatralità di Moschino e Gaultier, le forme dissolte di Lang, il non-finito di Marras, le creature robotiche di Ghesquière e i funambolismi di Michele, per finire con lo streetwear di Gvasalia e Abloh. Combinando inoltre musica, filosofia, letteratura e arte contemporanea, l'autore aziona una macchina narrativa dove le scorribande di Mary Quant incrociano le canzoni dei Beatles, gli abiti di Valentino lambiscono il pensiero di Derrida, le invenzioni di Raf Simons accolgono le parole dei Joy Division e le allucinazioni di McQueen stringono i brani dei Radiohead.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
ISBN
9788858437230
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale
Capitolo quarto

La presenza del passato

Albini e il postmoderno.

Dal caos della Moda povera le forme sono uscite malconce, strappate, illividite. Traumatizzati dalla furia obliosa della natura e dai tagli a vivo, i vestiti dei nati «attorno al 1950» si chiudono nella rassicurazione delle morfologie conosciute, quelle del museo e della storia. Chiedono conforto alla memoria, scavano nel tempo, a ricordare: letteralmente, a «riportare al cuore» (da recordare, composto da re, «di nuovo», e cordare, da cor-cordis, genitivo di «cuore»). In inglese e francese, to learn by heart e apprendre par cœur significano proprio «imparare a memoria», accostare il fissaggio mnesico alla sfera delle sensazioni emotive, allacciarle alla nostalgia dei momenti trascorsi, delle epoche personali e collettive.
Supper’s Ready è una suite musicale composta in sette atti, pezzo dominante e gran finale dell’album Foxtrot, 1972, sempre dei Genesis. È l’epopea di due amanti che, traslocati in un’altra dimensione, viaggiano nello spazio e nel tempo per ritrovarsi nella battaglia biblica tra le forze del Bene e le forze del Male. Una lotta scombinata, comica, rivisitata, piena di ingegnosi calembour. Nel quarto atto, How Dare I Be So Beautiful?, gli amanti assistono a un revival mitologico fra i piú gettonati di sempre, «Guardiamo ammirati mentre Narciso si trasforma in fiore»1: impersonato da un Peter Gabriel impareggiabile, la tastiera in assolvenza di Tony Banks accompagna la scena di un giovane che si specchia in uno stagno e annega dentro la sua immagine. «A flower?», si chiede Gabriel-Narciso. Ha l’aria parecchio stupita e porta in testa The Flower, un’enorme maschera arancione fatta a corolla. Il Fiore è comunque solo uno tra i travestitismi gabrieliani: per lo stesso album, il frontman dei Genesis indossa il costume di Watcher of the Skies – Guardiano dei Cieli – e The Fox – La Volpe; l’anno prima, in Nursery Cryme, si era inventato The Old Man, nelle vesti di Henry, a cui l’amichetta aveva staccato la testa giocando a cricket e che torna in vita nei panni di un vecchio laido in un pezzo musicale entrato nella leggenda del rock, The Musical Box: un’altra suite di oltre dieci minuti con atmosfere da favola e spartito classicheggiante, agli antipodi dalla Fender in fuoco di Jimi Hendrix ed equivalente sonoro degli abiti sibaritici del citazionismo. In Ikhnaton and Itsacon and Their Band of Merry Men, atto secondo di Supper’s Ready, il generale Ikhnaton – nome di un vero faraone egizio – fa comunella con Itsacon, faraone molto meno probabile visto che, nella sua abilità a giocare con le parole, Gabriel elimina gli apostrofi e gli spazi interlessicali di «it’s a con»: «è un imbroglione», un pacco, una taroccata. Al suono di un fischio la scena cambia del tutto, «All change!», notifica Phil Collins, al tempo batterista del gruppo. È l’ordine di un testacoda, il comando dei colpi di dado, l’intimazione alla tigre affinché performi il suo balzo per alimentare il baccano della ripetizione differente e della «disseminazione». Tra i proseliti del progressive rock, genere che riscrive musica medievale, rinascimentale, barocca e rococò, oltre ai Genesis – nome retrofilico come pochi altri – ci sono gli omologhi di Versace, di Moschino, di Ferretti, di Gaultier, ossia i King Crimson con gli organi liturgici di In the Court of the Crimson King, 1969; poi gli Yes, gli Emerson Lake & Palmer, i Jethro Tull con un Lp emblematicamente denominato Living in the Past, 1972. Nello stesso anno esce l’album capolavoro di David Bowie, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, dove il Duca Bianco si traveste con i colori sgargianti dei costumi inventati da Kansai Yamamoto. In un distinguibile ritorno di pittoricismo alla Wölfflin, nasce l’era del glam, ovvero del pop + performance, rilanciata dai Velvet Underground di Lou Reed, poi dal rock a lustrini dei Queen con tanto di rapsodie bohémienne, poi ancora dalla pacchianeria a glitter di Elton John, degli Abba, dei Kiss, lordata per spregio dal Punk dei Sex Pistols e Johnny Rotten – «il marcio». Poco oltre, la febbre del sabato sera contagia le danze sincrone di uno sbruffoncello newyorkese, Tony Manero - John Travolta, sulle piastrelle retroilluminate delle discoteche anni Settanta, mentre le voci dei Bee Gees intonano il falsetto di Night Fever o Staying alive; gli fa da sponda la disco dance di Donna Summer e I feel Love, sulle note strobofoniche di Giorgio Moroder, assieme ai KC and the Sunshine Band di That’s the Way (I like it) o Get Down Tonight. Alessandro Michele stravedrà per quei look, perché sono un trionfo di Kitsch, di mossettine e frasari preconfezionati, di riedizione di miti e di passato ripercorso a ritroso in citazioni molto familiari all’arte del vestire e preposte al compito di razziare ogni oggetto culturale dal magazzino della storia. E soprattutto, è un’apologia della mascherata, del costume, una glorificazione del finto, del trucco e del manierismo, poi del cliché, della «maestà superlativa delle forme artificiali» da trattare con gioco e ironia in base alle leggi del «postmoderno». Musical e relativi film come Jesus Christ Superstar, 1973, e The Rocky Horror Picture Show, del 1975, ne costituiscono testimonianze da paradigma.
103. Walter Albini, 1972.
103. Walter Albini, 1972.
Finalmente, dopo averlo incontrato pagine addietro, è arrivato il momento di affrontare un concetto applicato piú volte ai protagonisti della moda contemporanea, sia nella veste di sostantivo sia nella forma aggettivale, il postmoderno – giustappunto. Naturalmente non si tratta di una proroga imputabile a disattenzione o dimenticanza. Senza la minima intenzione di aprire un fascicolo d’indagine riguardo a un tema su cui si sono misurati gli intellettuali piú accreditati del Novecento, le ragioni che consigliano di circoscrivere solo adesso i contorni principali del postmoderno risiedono in una specie di legittimità cronologica, legata a sua volta a un’ampia gittata di riflessioni provenienti da ogni ambito epistemologico, dalla filosofia, dall’arte, molto dalla letteratura, moltissimo dall’architettura, ancora piú dalla musica, tutte affiorate in un giro di anni raggruppabile grossomodo negli anni Settanta, dall’inizio alla fine, per poi invadere il decennio successivo2. È proprio questa la forbice di tempo in cui viene a configurarsi sempre piú la necessità di fornire la sistemazione teorica relativa a un complesso di fenomeni dediti alla ripresa di elementi culturali attinti da ogni dove, in alternanza o coesistenza tra ambiti molto diversi tra di loro, dall’«alto» o dal «basso», dai saperi nobili, aulici, a quelli trash, camp, spesso affiancati, sovrapposti, felicemente raccozzati, riuniti in ammassi dove spezzoni di film convivono con stralci letterari, o fumettistici, o frammenti di Bach abbracciano chitarre elettriche usate in arpeggio, dove gli archivi del passato stringono per mano serie tv, fatti di cronaca e fatterelli di vita quotidiana. Quasi sempre con un trattamento «Itsacon» che dissolve ogni pretesa di veridicità storica. Nell’accezione che si è oramai imposta da tempo, il linguaggio del postmoderno si riferisce quindi a una serie di pratiche che prevedono il riciclo e la ricombinazione di forme progettuali già date, generalmente codificate dalla tradizione. Diffusosi in ogni ambito dell’estetica contemporanea, il termine risulta ancora piú incisivo in ambito architettonico, dove il senso del «post» si distingue da un «moderno» inteso come la prosecuzione distorta del Movimento Moderno e del clima del Bauhaus, nelle aberrazioni scriteriate delle periferie-dormitorio delle grandi città. Di fronte a una tale proliferazione di progetti senz’anima e senza memoria, gli architetti di stampo postmoderno tolgono il veto pronunciato a suo tempo da Loos e ripristinano il piacere dell’ornamento, della decorazione, degli schemi costruttivi sedimentati nella storia, fino a ravvisare, per il nuovo corso dei tempi, una poderosa «presenza del passato»3. Tuttavia, forti di questo rapido excursus di discipline, come non accorgersi che, in moda, il revivalismo è una costante ciclica, quasi matematicamente associabile all’avvicendamento pari-dispari delle rotazioni generazionali? Come non osservare che, da Fortuny in poi, l’implosione «alla de Chirico» è uno dei tratti ricorrenti delle sfilate internazionali? Tutte le poetiche della citazione, peraltro ampiamente indagate dai nati «attorno al 1930», si erano già espresse sulle modalità operative del remake, e lo stesso era avvenuto con Pucci, con Balmain, con Schiaparelli e Rochas prima di loro. Se in moda il postmoderno non è dunque una novità assoluta, bisogna però ammettere che tra gli anni Settanta e Ottanta la compresenza degli arcaismi e dei prodotti della contemporaneità si segnala da piú orizzonti e con maggiore spinta, frutto di una meditazione programmatica, matura al punto da appianare ogni distinzione tra i generi disciplinari. Del resto, c’è una convergenza piú o meno unanime nel collegare il catasto di informazioni conservate grazie alla tecnologia elettronica e il remissaggio attuato da chi vi accede4. In sostanza, in letteratura come in arte come in moda, con l’avvio ufficiale del postmoderno scatta l’autorizzazione spontanea ad avvalersi di ogni meme culturale, ad agitarlo in cortocircuiti continui, protratti tra virgolette, con semaforo verde perfino alla dozzinalità delle «buone cose di cattivo gusto». E cosí, da Moschino a Lacroix, il busto di Napoleone o dell’Alfieri, gli acquerelli un po’ scialbi e le scatole senza confetti dell’amica di nonna Speranza descritti nei famosi versi di Guido Gozzano, sfilano per passerelle e imperano in campagne pubblicitarie in un perpetuo «All change!» e in plateali falsificazioni. Travestitismo, teatralità e overstatement diventano uno schema normativo, cadenze di espressione obbligatorie per restare al passo coi tempi.
Tra gli stilisti che entrano nei panni di qualcun altro, come gesto estetico di cambiamento identitario o di gioco in maschera, talvolta attraverso l’assunzione di uno pseudonimo, la storia della moda ha annoverato Krizia, Lagerfeld e, molto in piccolo, Louis alias Marc Bohan, ma il mondo fashion si è dimenticato troppo in fretta di un altro personaggio favoloso, vero artista da cineteca nella sua maniera di avviare un nuovo corso per l’arte del vestire5. Per il grande pubblico di oggi, il nome di Walter Albini (1941) è poco piú di un «sentito dire» che non fa giustizia alle sue intuizioni, eppure il ruolo di Albini appare stupefacente a partire dall’anglofonizzazione del nome, Walter e non piú Gualtiero, come appunto Lagerfeld-Labelfeld; e vista l’effervescenza dello stilista, è ben difficile pensare che si tratti di un semplice vezzo acustico e battesimale, ma piuttosto di un cambio ideologico atto a transennare un diverso spazio di teatralità, una zona franca dove tutto può avvenire, vedi la «quinta dimensione» di Schiaparelli-Schiap. Detto diversamente, la mutazione Gualtiero-Walter corrisponde a uno sdoppiamento che consente di scorrere dalla persona al personaggio, di duplicarsi in un ludico alter ego; slegato dalle incombenze della realtà ordinaria, il clone, idealmente, può salire a bordo della DeLorean ed esibire tutte le sue facoltà di time traveler, di rievocatore di epoche trascorse e di attualità come vuole l’accezione piú stringente di «postmoderno», anche se, senza mai esagerare nelle sue scorribande, Albini non ha fatto segreto della sua appassionata preferenza per gli anni Venti e Trenta: «Mi piace il periodo che va dal 1925 al 1935 perché credo sia stato il decennio in cui tutti gli aspetti dell’esistenza umana sono stati rivoluzionati. Basta pensare al taglio di capelli alla maschietta, alle gonne che si sono accorciate, e all’eliminazione dei corsetti. O a Francis Scott Fitzgerald e a Zelda, alle prime Garbo e Dietrich, al Bauhaus e all’Art Déco»6. Malgrado una vita stroncata a soli quarantadue anni, nelle tante collezioni realizzate a sua firma o nelle moltissime disegnate per altri brand, Albini ha rifatto, riscritto, riveduto, riattualizzato l’immaginario degli anni ruggenti e quello dei «telefoni bianchi» – dal colore degli apparecchi che comparivano nei film italiani dell’epoca. Di per sé, un arretramento temporale cosí a ridosso del secondo Novecento non sembrerebbe del tutto in linea con i dettami del citazionismo, che infatti impongono una retromarcia parecchio piú inclusiva e rapsodica nei suoi «balzi di tigre»; a correggere il tiro, lo stesso Albini ha sfruttato stilemi legati ai costumi greco-romani, o all’Ottocento dei Preraffaelliti, ma queste operazioni le ha condotte en passant, in via sporadica se non rara, diversamente da quanto accadeva negli stessi anni con Lagerfeld o da quanto accadrà poco oltre con Versace, entrambi molto piú risoluti nella loro erranza cronologica. Non c’è verso, insomma, lo stilista ha deciso e si è ritagliato il suo angolo temporale, ha bloccato le annate del calendario nella sua nicchia d’elezione; altrove, infatti, Albini rinforza la passione per gli anni dell’Art Déco e riverisce con religioso rispetto la madrina del Minimalismo: «È stato un momento cruciale per la moda, le arti decorative, la letteratura ...

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