IV. Sangue e suolo
1. Di nuovo a casa
Nel corso della guerra molti combattenti vivono con angoscia le vicende che ritengono accadano lontano dal fronte. Fondato o infondato che sia, il sospetto di un sostegno non sufficiente, o peggio ancora di un vero e proprio tradimento, si fa strada, e dopo Caporetto per molti diventa una vera e propria ossessione. E anche dopo Vittorio Veneto, dopo l’eccitazione per la vittoria, sono in molti a vivere il ritorno con un senso di disorientamento o di vera e propria esacerbata incomprensione per tutti quegli individui e gruppi che non hanno aderito totalmente ai valori del patriottismo bellico. Molti reduci non capiscono. Non si sentono adeguatamente apprezzati. Hanno l’impressione che le loro sofferenze e il sacrificio di moltissimi dei loro compagni morti in guerra non siano adeguatamente rispettate. Si sentono il fiore della nazione. Ma hanno la sensazione che la nazione non sia con coloro.
Questo è ciò che pensa Carlo Ciseri – un giovane reduce fiorentino di buona famiglia – quando nell’ottobre del 1919 a Milano assiste a una manifestazione di protesta:
Non avrei mai creduto di trovare così poca riconoscenza dopo i disagi e i pericoli di 4 anni di guerra. Quale febbre terribile è la politica – i partiti – Quanta delusione! La grande famiglia italiana che tutta unita intervenne al momento propizio nella grande guerra, oggi è disgregata, divisa orribilmente e orribilmente malata, febbricitante di una febbre pericolosa: l’anarchia.
Persino le donne (non gliela perdono) quelle stesse donne che qualche mese fa ci battevano le mani al nostro ritorno oggi vengono in piazza cantando bandiera rossa.
Il suo disorientamento è massimo: e trova conforto solo in una doppia immagine familiare:
Nella forma più solenne: giuro che non mi occuperò più di politica, che non apparterrò a nessun partito. Il mio unico partito politico, la mia unica grande idea saranno la famiglia: mio Padre, mia Madre, i miei fratelli, un giorno i miei figli. L’unico mio dovere che adempierò senza limite sarà quello di mantenermi un buon figlio di questa terra nella quale sono nato, cresciuto, istruito e che sento di amare tanto da averla chiamata mia unica Patria per elezione spontanea. Mia Madre Patria.
Il giuramento fatto a se stesso lo rispetta solo in parte. Se mantiene fede alle sue convinzioni patriottiche, così appassionatamente declamate, non si tiene lontano dalla politica, come aveva promesso a se stesso: perché trova nei Fasci di combattimento di Mussolini il movimento che gli è congeniale, quello nel quale vede la possibilità di una vera rinascita nazionale:
[Mussolini] non ha torto, ho visto da tempo in quest’uomo un qualcosa di eccezionale. Ora mi dà una speranza, una buona speranza che quest’uomo si sia messo a capo di un movimento reazionario costituendo dei Fasci di Combattimento come lui li chiama.
Questo movimento potrà essere il principio di un ritorno al ben pensare; il principio di una nuova epoca migliore di questa.
Mi ero prefisso di non parlare più di politica, ma come si fa a non gioire quando si vede rischiararsi l’orizzonte?
Non troppo diversi sono i sentimenti di Mario Piazzesi, giovane squadrista fiorentino, anche lui di estrazione medio-borghese. Al momento della conclusione della guerra ha appena sedici anni; ne ha diciassette quando suo padre torna a Firenze dal fronte, nella primavera del 1919. Mario è orgoglioso di suo padre; ma è preoccupato perché lo vede triste, disorientato, incapace di ambientarsi. Mario non ne capisce il perché. Ma poi, dopo poco tempo, la nebbia si dissolve durante una cena che si tiene a casa del suo amico Carlo, nel luglio del 1919:
Attorno alla lunga tavola, suo padre colonnello, un maggiore di artiglieria, un tenente colonnello degli Alpini ferito e decorato, un maggiore[,] il suo aiutante maggiore in prima, l’avvocato X capitano degli arditi più volte decorato al valore, il dottore di casa, mio padre, e le persone delle nostre famiglie.
I grandi parlano di guerra, parlano di pace, ed i discorsi si intrecciano sulla situazione che prevale nel paese. Ma tristi sono i commenti di questa gente che ha fatto duramente la guerra.
L’ex capitano degli Arditi è il più esasperato:
Ci hanno sciolti così, nell’ombra, senza un canto, senza un fiore, senza una strada colma di tricolori come avevamo tanto sognato quando eravamo piantati nella melma della trincea, senza una parola che valesse a darci atto di quel poco o di quel molto che avevamo fatto.
E tutto questo per non provocare! Per non provocare il risentimento dei neutralisti, dei giolittiani scornati nel «parecchio», i risentimenti di tutti quanti gli imboscati, grossi e piccoli, che ora sono seccati di dover cedere il posto a quelli che avevano rischiata la pelle per loro.
A quelle parole i ragazzi cominciano a capire, anche se è come se crollasse un mondo e un altro nuovo dovesse essere cercato:
Carlo ed io ci sentiamo come schiacciati. I nostri sogni, le nostre fantasie il nostro concetto di patria, roseo, sdolcinato, l’Italia mitica con la corona di torri sulla fronte, i fasci di armi, il leone ai piedi, le stelle dei Savoia sprizzanti raggi lucenti come quelli dei cherubini del Beato Angelico, tutto questo mondo è travolto definitivamente dalla cruda requisitoria.
Tutto è travolto almeno fino al momento in cui Mario non trova nelle squadre «antibolsceviche», e poi in Mussolini e nei Fasci di combattimento, la risposta al suo turbamento. Ma non sono tanto i Fasci radicali della prima ora ad attrarlo: da quelli sembra arrivino solo «un mucchio di sproloqui». Sono piuttosto i Fasci nazional-patriottici, i Fasci che si propongono all’opinione pubblica come i violenti restauratori dell’ordine con le loro squadre, i Fasci che si propongono come gli unici veri interpreti della nazione combattente, contro l’anti-nazione dei traditori della patria, quelli che gli restituiscono un orizzonte di senso.
È un senso nel quale violenza selvaggia e religiosità della nazione si mescolano quasi inestricabilmente. E Mario Piazzesi non manca di osservarlo in una densa pagina del suo Diario dedicata al rituale del Milite Ignoto:
5 novembre | | Firenze - Il Milite Ignoto |
La salma del Milite Ignoto è stata sepolta sull’altare della Patria e la parte migliore della Nazione ha seguito con commosso ricordo il convoglio che ha attraversato l’Italia. Milioni di uomini di donne di vecchi di ragazzi attesero per ore e ore il passaggio del treno sacro. I più in ginocchio, pregando, campane a stormo nelle città e nei piccoli borghi, bandiere gagliardetti al vento, corone, fiori, intensa la commozione in tutti.
Forse l’Italia sta per riprendere il controllo di se stessa dopo gli anni della negazione? Forse il paese ora avverte come se una linfa nuova corra nelle sue vene? «Certo che dal baratro nel quale era precipitata, pochi uomini e pochi ragazzi avevano cominciato a risalire l’aspra erta, a combattere e molte volte a morire».
Ha ragione il Popolo d’Italia quando scrive:
«Chi ha assistito allo spettacolo di moltitudini enormi che si incolonnavano attorno a un simbolo, non può non essere interamente convinto che l’atmosfera della nazione italiana è radicalmente cambiata. Al fascismo spetta il merito di questa superba rinascita nazionale», ed ha ragione. È il fascismo che ha prodotto il miracolo. Riprova maggiore che le misure energiche servono veramente per ammorbidire anche le più dure cervici (Popolo d’Italia, 5 novembre).
Il commento finale, in stile brutalmente squadrista, serve a ricordare la centralità della violenza, del resto celebrata ed enfatizzata ampiamente nella retorica fascista. Ma accanto a questo fondamentale aspetto dell’azione fascista sta anche una retorica politica che rilancia i valori di nazione e di patria come segni identitari profondi del movimento e poi del partito fascista: a questa sono sensibili moltissimi di coloro che – in una forma o in un’altra – si avvicinano a quel movimento.
2. La nazione di Mussolini
Ma qual è la nazione del fascismo? E di quale patria parlano Mussolini e i suoi? Di una comunità descritta con tratti integralmente nuovi? O di una figura che aderisce armonicamente alla morfologia che ha preso forma nei cento anni precedenti? Ascoltiamo Mussolini: la centralità della sua figura nel movimento e nel sistema di potere fascista dà alle sue parole un peso assolutamente prominente.
La definizione più netta di cosa sia la nazione italiana la si incontra nel programma elaborato dopo la costituzione del Partito nazionale fascista, avvenuta nel corso del Terzo congresso nazionale fascista, tenutosi tra il 7 e il 10 novembre 1921:
La nazione non è la semplice somma degli individui viventi, né lo strumento dei partiti pei loro fini, ma un organismo comprendente la serie indefinita delle generazioni di cui i singoli sono elementi transeunti; è la sintesi suprema di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe.
Lo Stato è incarnazione giuridica della nazione. Gli istituti politici sono forme efficaci in quanto i valori nazionali vi trovino espressione e tutela.
I valori autonomi dell’individuo e quelli comuni a più individui, espressioni di persone collettive organizzate (famiglie, comuni, corporazioni, ecc.) vanno promossi, sviluppati e difesi sempre nell’ambito della nazione a cui sono subordinati.
Nel presentare la nazione come un organismo dato dalla serie indefinita delle generazioni, Mussolini e gli altri membri della commissione incaricata della stesura di questo testo impiegano la concezione genealogico-parentale della comunità nazionale che appartiene ab origine al discorso nazional-patriottico italiano. La comunità nazionale è una comunità di discendenza in possesso di un proprio territorio e perfettamente distinta da altri gruppi etnici, come Mussolini spiega già nel 1920 in un passo nel quale si possono cogliere anche chiari echi della retorica mazziniana:
Fra tutte le nazioni del mondo l’Italia è quella che è più «nettamente» individuata, da tutti i punti di vista. I suoi connotati sono categorici. Il grande mare la divide da tre lati dal mondo, e al nord c’è l’alto bastione delle Alpi che la divide dal Continente. All’interno, i gruppi «allogeni» sono piccolissimi e sono stati assimilati. Anche «annettendo» tutta la Dalmazia, anche portando – come si deve portare – il nostro confine alle Alpi Giulie, la massa di allogeni che sarà inclusa è infinitamente minore – in assoluto e in relativo – alle masse di «allogeni» inglobate in tutti gli altri Stati europei.
L’identità etnica e territoriale risale indietro nel tempo, ed ha una sua specifica spiritualità, come Mussolini stesso cerca di spiegare un anno più tardi a Napoli, alla vigilia della «marcia su ...