Le Saint-Siège, les eglises et l'Europe. / La Santa Sede, le chiese e l'europa.
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Le Saint-Siège, les eglises et l'Europe. / La Santa Sede, le chiese e l'europa.

Études en l'honneur de Jean-Dominique Durand / Studi in onore di Jean-Dominique Durand

Philippe Chenaux, Christian Sorrel

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Études en l'honneur de Jean-Dominique Durand / Studi in onore di Jean-Dominique Durand

Philippe Chenaux, Christian Sorrel

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Historien, chrétien, citoyen engagé… Les visages publicsde Jean-Dominique Durand sont divers et, si ce volumed’hommage concerne d’abord sa profession d’historien,le lecteur ne peut pas oublier les autres dimensions del’homme qui se joignent pour dessiner sa personnalitéet porter son itinéraire, sans confusion des objets, maisaussi sans dissociation, en tension féconde. L’Italie, lapapauté, la démocratie chrétienne, l’Europe, ses penseurset ses cultures, le catholicisme français, et surtout sonpôle lyonnais, doté d’une forte identité sociale, les lignesdirectrices de son oeuvre sont fermes, qui n’empêchentpas un renouvellement incessant, débouchant sur unbilan impressionnant. De cette fécondité scientifiquetémoignent les nombreux chercheurs (près de cinquante)qui ont participé à ce volume d’hommage.
Jean-Dominique Durand est Professeur émérite d’Histoire contemporaine àl’Université Jean Moulin – Lyon 3. Il y a fondé à Lyon l’Institut d’Histoire duChristianisme, qu’il a dirigé de 1989 à 1999. Il a enseigné dans des Universitésétrangères, notamment à Rome, à la LUMSA et à l’Université pontificale duLatran. Il a été Conseiller culturel de l’Ambassade de France près le Saint-Siège,et Directeur de l’Institut culturel français de Rome de 1998 à 2002. Il est membrede divers comités scientifiques ou comités de rédaction en France et à l’étranger. Storico, cristiano, cittadino impegnato… I volti pubblici di Jean-Dominique Durandsono molteplici, e se questo volume vuole rendere omaggio in primo luogoalla sua professione di storico, il lettore non può tuttavia dimenticare gli altriaspetti dell’uomo che delineano ulteriormente la sua personalità e che contribuisconoa tracciarne l’itinerario umano e professionale, senza confusioni nécontraddizioni, sempre in tensione feconda. L’Italia, il papato, la DemocraziaCristiana, l’Europa, i suoi pensatori e le sue culture, il cattolicesimo francese
e soprattutto il suo polo lionese, dotato di una forte identità sociale: le lineedirettrici dell’opera di Durand sono solide e al tempo stesso arricchite da unrinnovamento incessante, che porta ad un bilancio impressionante.
Jean-Dominique Durand è Professore Emerito di Storia contemporanea all’Université Jean Moulin-Lyon 3. Ha fondato a Lione l’Istituto di Storia del Cristianesimo,che ha diretto dal 1989 al 1999. Ha insegnato presso numerose università stranierefra cui spiccano, a Roma, la LUMSA e la Pontificia Università Lateranense.Ha ricoperto il ruolo di Consigliere culturale dell’Ambasciata di Francia pressola Santa Sede, e di Direttore dell’Istituto Culturale Francese di Roma dal 1998 al2002. È membro di diversi comitati scientifici e di redazione in Francia e all’estero. En couverture: Gino Severini, Les deux colombes, 1926, Tempera sur carton, 59,5x66,5 cm.Maquette pour un motif décoratif de l’église de Semsales. Cercle d’études Jacques et RaïssaMaritain

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XI. Il mondo cattolico milanese tra pace e guerra (1914-1915), Alfredo Canavero*

* Università degli Studi di Milano.









Quando si studiano il pensiero e gli atteggiamenti dei cattolici relativamente a un determinato argomento, è necessario distinguere e precisare. Si deve tener conto del pensiero ufficiale della Santa Sede, di quello dei vescovi, che non sempre segue fedelmente il primo, del clero, dell’associazionismo cattolico e del popolo di Dio, dei battezzati più o meno impegnati nella vita politica e sociale del paese. Ciò è necessario anche per indagare l’atteggiamento dei cattolici milanesi di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale. Milano è un centro importante per il cattolicesimo, anche se i cattolici milanesi hanno avuto spesso posizioni che non sono sempre state coincidenti con quelle ufficiali. Si direbbe che ci sia un “rito ambrosiano” anche nell’impegno politico e sociale.
Alla vigilia della guerra il quadro del mondo cattolico milanese era composito, vario, articolato. A Milano agiva Filippo Meda, uno dei più autorevoli “cattolici deputati”, e vi si pubblicava il quotidiano «L’Italia», erede dei due storici giornali dell’intransigentismo e del transigentismo («L’Osservatore Cattolico» e «La Lega Lombarda»), e formalmente diretto da Paolo Mattei Gentili (ma de facto da Meda) e parte, dal 1912, del trust giornalistico del conte Grosoli. Ma a Milano vi era anche «Vita e Pensiero», la rivista di Agostino Gemelli, futuro fondatore dell’Università Cattolica, e poi anche gli aderenti all’Unione Popolare, l’organizzazione dei cattolici erede dell’Opera dei Congressi. Vi era un arcivescovo, il cardinal Ferrari, che nonostante le ricorrenti accuse di modernismo avanzate da Pio X, godeva di un prestigio notevole di fronte ai suoi confratelli lombardi e ne influenzava il pensiero. C’era poi un clero impegnato socialmente, e tante iniziative guidate da laici o da ecclesiastici, in campo culturale, sociale o assistenziale, coordinate dalla Direzione Diocesana.
Alla notizia dell’attentato di Sarajevo la reazione dei cattolici milanesi fu di orrore per il delitto e pietà per Francesco Giuseppe, di cui si ricordavano tutti i lutti familiari, dal suicidio del figlio Rodolfo all’assassinio della moglie [1] . Per tre giorni l’assassinio di Sarajevo occupa la prima pagina de «L’Italia», ma poi altri problemi sono ritenuti più importanti: l’ostruzionismo socialista alla Camera e i provvedimenti del governo per i ferrovieri paiono di maggior momento e conquistano la ribalta. D’altra parte il contenzioso austro-serbo originato dall’attentato sembra destinato a finire in nulla, come tante altre crisi verificatisi dagli anni Settanta dell’Ottocento in avanti. Più che ai commenti, il giornale cattolico si affida ad ampi riassunti della stampa nazionale e soprattutto estera. Ernesto Vercesi da Vienna, Domenico Russo da Parigi e Giuseppe Sacconi da Berlino offrono un quadro abbastanza informato di cosa avviene nelle capitali estere. L’opinione pubblica cattolica segue la vicenda senza appassionarsi particolarmente, e solo al momento dell’ultimatum austriaco alla Serbia mostra qualche preoccupazione [2] , che cerca però di esorcizzare illudendosi subito dopo di cogliere lievi miglioramenti nel panorama internazionale [3] . Anche al momento della dichiarazione di guerra, «L’Italia» scrive che le speranze di una soluzione pacifica della crisi non sono tutte perdute [4] .
Solo a guerra scoppiata ci si comincia a interrogare sul ruolo dell’Italia: Carlo Augusto Fratta polemizza coi socialisti che vogliono insorgere contro la guerra, ma anche con Bissolati che manifesta simpatie francofile e conclude che l’Italia, in caso di attacco della Russia alla Germania, avrebbe dovuto tener fede agli accordi presi con la Triplice Alleanza e scendere in campo a fianco di Vienna. «Se i cosacchi passano la frontiera, il caso obbligante dell’alleanza si presenta» [5] .
Filippo Meda sposa invece subito la causa della neutralità: «Alla guerra – scrive il 2 agosto – un paese non si conduce se non quando lo esigano o l’ interesse nazionale o il dovere internazionale». Entrambe queste due condizioni non sussistono. Certo la Serbia si è dimostrata un paese di assassini, ma a punirla bastano l’Austria-Ungheria. La conclusione è netta: «Sembra a noi che la neutralità a questo punto del conflitto sia non solo giustificata ma doverosa» [6] . Tuttavia quella di Meda non era una dichiarazione di neutralità assoluta, ma relativa, contingente. Non si escludeva, in altre parole, un futuro intervento, ma solo se le circostanze avessero obbligato l’Italia a un tale passo . La sera stessa, parlando a Cerro Maggiore, Meda ribadiva il concetto: «Incalcolabile danno sarebbe per noi la guerra: ma danno ancora maggiore […] la nostra svalutazione come Potenza europea» [7] .
Mentre Pio X indice preghiere per la pace [8] , Meda, da buon realista, si chiede quale atteggiamento avrebbe assunto l’Inghilterra [9] . Se Londra scende in campo a fianco dell’Intesa, l’Italia non può uscire dalla neutralità. L’amicizia con la Gran Bretagna, fin dal tempo della “clausola Mancini”, è un punto fermo. Fratta, dal canto suo, insiste sull’inopportunità «della tattica assenteista», giudica che il governo, che ha dichiarato la neutralità il 2 agosto, non ha fatto bene i suoi conti e non ha ponderato tutte le conseguenze. «La neutralità ad ogni costo lascerà isolati ed indifesi i nostri interessi» [10] . Ma quando entra in guerra la Gran Bretagna, anche Fratta diviene più cauto e invita alla prudenza di fronte a tutti coloro che invocano la discesa in campo [11] .
Dall’alto della sua autorevolezza Meda ritorna sul problema della neutralità in un discorso al Consiglio provinciale di Milano, di cui è presidente. Di fronte alle critiche di coloro che lamentavano la violazione degli accordi con l’Austria e la Germania, Meda sottolinea che l’Italia aveva «felicemente» scelto la neutralità «senza mancare alla lealtà dei nostri patti internazionali», e invoca la concordia nazionale riscuotendo perfino l’assenso dei socialisti al suo discorso neutralista [12] .
«L’Italia» ammette apertamente lo stato d’incertezza dominante sull’atteggiamento da prendere, loda il governo che ha proibito ogni manifestazione, polemizza con i radicali per il tono antitedesco dei loro giornali e con i socialisti per la loro francofilia. Gli italiani dovevano solo prepararsi ad andare dove sarebbe servito «per la salvezza della patria». «Ad est? Ad ovest? Chi fa oggi questione di punti cardinali non è buon italiano» [13] .
La morte di Pio X, il 20 agosto, sposta l’attenzione dell’opinione cattolica sul conclave che si sarebbe svolto a breve. «L’Italia» respinge le voci che circolavano sulla successiva entrata in guerra dell’Italia non appena fosse terminato il conclave, che anzi, si diceva, «accresce importanza e quindi saldezza alla neutralità» [14] . Meda, scherzando sulla compattezza dell’«internazionale rosso porpora» dei cardinali riuniti a Roma (contrapposta allo sfaldamento dell’Internazionale socialista ai primi venti di guerra) si lasciava andare alla profezia: quando l’Europa, «estenuata» dalla guerra, avrebbe voluto tornare alla civiltà, «dovrà pure volgersi all’uomo bianco del Vaticano, e ascoltarne la parola di salute» [15] . E quando l’appena eletto Benedetto XV, l’8 settembre 1914, con l’esortazione Ubi primum in beati [16] , invita a pregare perché Dio «depon...

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