Dedico questo saggio a don Luis Alves Carneiro
Al centro di questo saggio, ascrivibile al vasto ambito della history of ideas, sta il palesamento del trattato linguistico di Dante nella filosofia del linguaggio di Vincenzo Gioberti e, all’interno di questa, la familiarità con la teoria delle segnature, che – a mio giudizio – sottende la riflessione dell’Abate torinese sul rapporto polare tra fede e ragione. Nella prima parte, ricorrendo alle fonti da lui utilizzate per costruire la sua teorica del linguaggio, mostrerò la relazione genetica con Dante (non escludendo l’ipotesi piuttosto remota di una dipendenza dalla voce «Adamo» del Lessico Suda, oggetto di rinnovata attenzione nel corso dell’Ottocento[1]). Anche Gioberti, convinto che «Adamo poté nominare i sensibili coi loro propri nomi, come dice il Genesi, deducendoli dagl’intelligibili, cioè dalle radici»[2], si è inserito nella vexata quaestio della nominatio animalium, giunta verticalmente stratificata fino agli albori del terzo millennio[3] (non lasciando, via via, indifferente neanche l’àmbito artistico[4]). Egli, figlio del suo tempo, considerò d’interesse scientifico la problematica archeologica della linguistica, ma l’attrasse nel suo sistema ideale orbitante attorno alla palingenesi della formola creationis. Adamo, egli afferma, ricevendo «a un tratto nella mente una successione di segni vocali», potette combinare «le idee espresse da questi segni [...] ciascuna di esse col suo segno appropriato» per dare il nome ad ogni creatura. Noteremo che la pointe è sul segno vocale che contiene in nuce l’atomica essenza degli elementi: è questa l’archeologia linguistica di Gioberti. Nella seconda parte tratterò del signum-sphragis della Rivelazione originaria avvenuta nel Paradiso Terrestre e della connessa teoria delle segnature. Le ampie citazioni che seguono, evidenziano l’oscillazione tra convenzione e rivelazione, arbitrarietà e ispirazione, e, al “guardar fiso” dello studioso, mostrano la filigrana di una cripto citazione dantesca e con essa la sinopia di un cammino intellettuale.
Prima di oltrepassare la soglia ed entrare in medias res, desidero dare loquela ai testi che hanno reso acuta la mia curiosità.
«L’ infusione sovrannaturale del linguaggio fu accompagnata necessariamente dall’inspirazione di un ordine intero d’idee, e perciò come i vocaboli importano i concetti, e un corpo di lingua è essenzialmente un sistema di scienza, la filologia primitiva fu una specie di enciclopedia sovrumanamente inspirata. Infatti, secondo il vincolo misterioso dell’idea colla parola [...] la comparsa di questi due fenomeni è simultanea, tanto che, se il segno è sovrannaturalmente dato, come accade nel nostro caso, il concetto che gli corrisponde dee avere la stessa origine. Se Adamo creato adulto e perfetto (giacché non sarebbe potuto vivere bambino), e dotato della favella nel primo istante della creazione, ricevette a un tratto nella mente una successione di segni vocali, le idee espresse da questi segni dovettero rampollare simultaneamente nello spirito di quello, ciascuna di esse col suo segno appropriato; quindi furono inspirate a rigor di termini, e non acquistate col lento lavoro delle facoltà intellettive. Non se ne dee già riferire, che tutta la sapienza del primo uomo sia stata infusa: la tecnologia trovata da lui nel fatto degli animali prova il contrario: ed è probabile, che succedesse il medesimo rispetto a tutti gli ordini della natura. Adamo poté nominare i sensibili coi loro propri nomi, come dice il Genesi, deducendoli dagl’intelligibili, cioè dalle radici; ma gl’intelligibili, e specialmente il verbo (cioè l’espressione dell’Ente), destituiti d’immagine sensibile, non sarebbero stati concetti da lui senza l’aiuto della parola»[5].
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«Mosè nel definire il carattere della lingua divina e primitiva accenna la proprietà, come sua propria eccellenza. I nomi, dice, imposti da Adamo agli animali erano i loro proprii nomi. Non dice Adamo parlava elegante, ornato, eloquente; ma dice parlava proprio. Ciò è parlar bene, come dicono i Latini. La lingua primitiva fu la più propria, perché divina. E la proprietà è la dote più divina e eccellente della lingua. Il Verbo creatore è il parlante che parla con più proprietà. Qual è la sua parola esterna? È il mondo»[6].
I.
Bastino i succitati eloquenti excerpta della prima e della ultima opera della produzione giobertiana – ovvero la Teorica del sovrannaturale e la Protologia – ad introdurci nell’intricato e affascinante tema della lingua protologica parlata dal Nomoteta, Adamo, protoparens totius generis humani, creato dalla mano e dal soffio divini[7]. Una lingua calco del dixit pronunciato da Dio ex nihilo durante l’esamerone logocosmico, narrato dai redattori del libro della Genesi. Adamo, dopo essere stato posto in Eden dal Creatore, per mezzo di un “atto di parola”, denominò gli animali propriamente, deducendo, isomorficamente, dalla loro stessa natura il giusto nome – come si fa con «i derivativi dalle radici»[8]. Secondo Gioberti ciò fu possibile in virtù della omologia espressa dall’idioma pre-babelico, puro e assoluto, capace di legare insieme verba, res e signa. A Dio, Signore e Creatore, che appare nel primo capitolo genesiaco come Nomenclator conferente alle cose lo status ontologico, corrisponde, al capitolo undecimo, Adamo, sua immagine somigliante, che, ricevuto il potere di assegnare i nomi alle cose – nominatio rerum –, ordina secondo proporzione e proprietà la realtà di cui egli era stato creato sovrano. Leggiamo, infatti, nel libro sacro: «formatis igitur, Dominus Deus, de humo cunctis animantibus terrae et universis volatilibus caeli, adduxit ea ad Adam, ut videret quid vocaret ea: omne enim quod vocavit Adam animae viventis, ipsum est nomen eius. Appellavitque Adam numinibus suis cuncta animantia, et universa volatilia caeli, et omnes bestias terrae» (Gn 11, 19-20). L’Urgeschichte biblica mostrerebbe la characteristica ontologica della locutio edenica, quale lingua “propria” della creatio coeli et terrae divina, della nominatio rerum adamitica e del dialogo tra il Creatore e il protoplasto. In ambiente cristiano, Girolamo[9], Agostino[10], Isidoro di Siviglia[11], Beda il Venerabile[12], riflettendo su questo passo biblico, sollevarono la domanda sulla qualità della lingua di Adamo e ritennero l’ebraico essere l’idioma primigenio donato da Dio all’uomo[13] – fondamento ontologico del reale, lingua perfetta[14], capace di esprimere le cose divine[15]. La Torah, monumenta dell’unica parola rivelata da Dio, perciò, è stata, per lungo tempo, considerata il tabernacolo della lingua protologica.
La tradizione teologica ebraica riteneva che Dio con la sua voce plasmò il cielo, la terra, le acque e ogni essere animato ed inanimato; sul Sinai con la sua voce scrisse le tavole di pietra della Torah, scolpendo in ebraico i dieci comandamenti. La lingua ebraica, sopravvissuta alla divisione babelica grazie alla provvidenziale e avveduta tesaurizzazione[16] di Heber (da qui il nome Ebrei)[17], dall’età medievale fino alla soglia della modernità, è stata ritenuta la più perfetta di tutte le altre lingue, il sacratum ydioma. Essa conserverebbe, meglio di qualsiasi altra, le reliquie della Ursprache infusa da Dio al Protoplasto[18] (lo testimonierebbero le strutture fonologica, sintattica, stilistica e prosodica), potendo divenire, nell’era cristiana, la lingua gratiae del «novissimus Adam» (1 Cor. 25, 45), Gesù Cristo.
Dante affronta questo problema nei cap. IV-VII del libro I di De vulgari eloquentia[19] e – con relativa retractatio – nei versi 124-138 del canto XXVI del Paradiso, passando da una visione teologico-sacrale della storia del linguaggio ad una prospettiva evoluzionistica[20]. Le fonti dantesche (grosso modo comuni a Gioberti) consistono nelle analisi dei commentatori patristici e scolastici di Genesi I e XI e dei principali nodi teorici implicati: creazione ex nihilo tramite la Parola divina; locutio di Dio; impositio nominum adamitica; confusio linguarum babelica[21]. Dopo aver chiarito in D.v.e. I, 2 la ragione del mutismo (in-fans) degli angeli – esseri riflettenti, e perciò comunicanti, la Luce che eternamente circuiscono[22] – e degli animali propriamente afasici, nel capitolo successivo afferma: «oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere» (D.v.e. I, 3, 2); intendendo, sulla scia della traditio cristiana del De interpretatione di Aristotele (1, 16a), la parola quale “segno” sensibile e razionale. Non sarà, tuttavia, fuori luogo – assodata la mediazione scolastica[23] – domandarsi cosa intenda Dante precipuamente per signum e se ci sia una relazione con i “segni vocali” riferiti da Gioberti. A quest’ultima questione cercherò di dare risposta nel corso di questo saggio, per quanto riguarda la prima, con una certa sicurezza, si può ritenere che l’Alighieri interpreti signum quale medium sensuale[24], suono vocale capace di significare e, dunque, portatore di significati razionabili trasmissibili da un uomo ad un altro. La significatio, ab origine, cioè quando avvenne la nominatio rerum, esprimeva l’edenica omologia tra forma quae dat esse rei e forma locutionis, distrutta a causa della rovina di Babele. Alcuni Dantisti, a più riprese, hanno sottolineato che l’espressione forma locutionis di D.v.e. I, 6, 4-7 sia da riferirsi all’uso tecnico del termine forma[25]. Esclusi quelli che hanno ritenuto l’espressione indizio del dono divino di una lingua attuata e compiuta, mi fermo a considerare due ipotesi di lettura assai pertinenti ai nostri testi giobertiani di partenza. A) Maria Corti ha ritenuto che Dante abbia voluto emettere un «messaggio più sottile», perciò interpreta la forma locutionis, concrea...