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Studium - Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini
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Scienza, filosofia, teologia: una partizione e una correlazione da migliorare, e intanto un organico profilo della ragione umana, della sua apertura alla scoperta e al mistero, nonché al dubbio e alla certezza. Pensare è avere il coraggio di accompagnarsi alla fiducia nell'intrascendibile. Verrà un giorno, dice a se stesso chi pensa, quando potrò fare il passo dall'evidenza del non sapere alla speranza di varcare il confine dell'ignoto. E così riconoscermi nel progresso di un'evidenza che intanto sussiste e ha la prerogativa di assumere il volto della promessa, ancor prima quello della speranza.
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Information
Le maschere di Francesca e il fantasma di Didone (1)
di Claudia Villa
Per il ciclo delle Letture Classensi 2016, dedicato al mito e intitolato “Sognare il Parnaso. Dante e il ritorno delle Muse”, la seconda conferenza è stata intitolata al ricordo di Thomas Ricklin, il dantista tedesco e storico della filosofia recentemente scomparso, alla vigilia della sua lettura classense, prevista per l’8 ottobre. In questa occasione si è proposta anche una lezione, consacrata al tema del mito femminile di Didone, ricorrente nell’opera di Dante, come termine di confronto del “folle amore”, il “fol amor” della lirica provenzale. L’immagine dell’eroina virgiliana, fondatrice di Cartagine, sembra infatti profondamente incardinata nell’immaginario dantesco, evocata nei momenti di maggiore coinvolgimento, quasi alter ego di una condizione emotiva intensamente condivisa.
1. Rime CIII
Il personaggio di Didone appare, nel parallelo con una passione disperata, nella canzone Così del mio parlar voglio esser aspro (Rime CIII), dove Dante esplora il tema dell’amante di dura pietra e il sentimento di vendetta:
«Così del mio parlar voglio esser aspro
Com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda»,
già sperimentato da Didone, quando, nel quarto libro dell’Eneide, paragona Enea alle pietraie del Caucaso:
v. 365 «Nec tibi diva parens, generis nec Dardanus auctor,
perfide,sed duris genuit te cautibus horrens
Caucasus...»
Dante, mantenendo la stessa sostanza fonica di perfide, avverte il lettore, citando il precedente virgiliano dell’amore perverso:
v. 40 «Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
la debole mia vita, esto perverso,
che disteso a riverso
mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco»
e dichiara il suo modello:
v. 35 «È m’ha percosso in terra e stammi sopra
con quella spada ond’elli ancise Dido».
Quindi si identifica in Didone quando proclama una voluttà di vendetta, ampiamente denunciata dalla regina nel finale del IV libro, dove la sua maledizione coinvolge, con Enea, i destini futuri della stessa Cartagine:
v. 83 «chè bell’onor s’acquista in far vendetta»
1. Inferno V
Dante ripercorre e analizza più vistosamente i sentimenti della regina attraverso lo schermo di Francesca, nel canto V dell’Inferno, risolvendo parzialmente, attraverso la maschera di una nobildonna ravennate, quanto già aveva arrischiato, in prima persona, nella canzone. Anche Francesca riconosce, con la pietà di Dante, la qualità feroce del suo amore:
v. 93 «poi c’hai pietà del nostro mal perverso».
Lì, in un coinvolgimento di pietà, martiri e sospiri (legati in rima) Dante cita pure se stesso, Rime LXVII, 3:
«È m’incresca di me si duramente
ch’altrettanto di doglia
mi reca la pietà quanto’l martiro
lasso, però che dolorosamente
sento contra mia voglia
raccoglier l’aire del sezza’ sospiro».
Così appare più chiaro l’insistito richiamo alla passione di Didone proposto nel canto infernale, che appare dominato dal personaggio di Francesca, il primo dannato con il quale Dante direttamente colloquia.
Enumerando i lussuriosi, dopo aver avvisato il lettore con la fedele traduzione di En. IV, 552:
«non servata fides cineri promissa Sychaeo»
v. 61 «L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo»,
il poeta svela ogni sua allusione, pronunziando francamente in rima, senza altre perifrasi, il nome di Didone nello stesso momento in cui presenta Francesca:
«Quali colombe, dal disio chiamate,
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
Cotali uscir dalla schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
si forte fu l’affettuoso grido»(Inf. V, 82-87).
Dovremo perciò aprire l’Eneide là dove Dante sembra aver collocato un segnalibro, insistendo con una specialissima rima, allacciata al sintagma virgiliano di V, 214 (dulces nidi) e al suo stesso grido per comprendere la complessa associazione delle colombe di En. VI, 191:
«...geminae cum forte columbae
ipsa sub ora viri caelo venere volantes»,
e di En. V, 213:
«Qualis spelunca subito commota columba,
cui domus et dulces latebroso in pumice nidi,
fertur in arva volans plausumque exterrita pinnis
dat tecto ingentem, mox aere lapsa quieto
radit iter liquidum celerit commovit alas».
Riprese anche foniche (venere volantes/ vegnon…voler) obbligano continuamente a controllare l’Eneide in quei luoghi di straordinaria suggestione poetica che devono aver profondamente colpito Dante; ricordando come il poema virgiliano permetta di capire una vicenda costruita intorno all’idea che un libro possa avere un effetto tanto devastante da imporre un nuovo corso all’esperienza dei protagonisti:
v. 137 «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Così, all’inizio dell’episodio di Francesca, prima che per le parole della moglie infedele del signore di Rimini si ricomponga la biblioteca delle galeotte letture cortesi, è subito convocato il grande esempio di ogni dramma amoroso, l’archetipo con il quale Dante intende confrontarsi per sciogliere, attraverso di lei, il nodo, emotivo e stilistico, della poesia d’amore in volgare. E perciò, dentro i libri della nuova cultura volgare, nutrita con le passioni di eroine classiche, aggiustate nelle forme del patetismo cortese, in parte superato dagli stilnovisti, Dante sembra voler riconoscere e indicare il vero archetipo di tutte le femmine amorose; e pronuncia perciò in rima il nome di Didone, dei cui sentimenti proprio Virgilio ha una sua specialissima nozione.
Infatti Francesca, nel suo primo enunciato teorico – Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende –, evoca il rapido moto di Amore, quando in veste di Ascanio lascia Enea, per precipitarsi in grembo alla virtuosa Didone, subito presa, in En. I, 715‑722:
«ille ...
reginam petit. Haec oculis, haec pectore
toto haeret;et interdum gremio fovet, inscia Dido
insidat quantus miserae deus»;
quindi raccoglie intorno al verbo “s’apprende” il lessico di Dante VN XX – Amore e ‘1 cor gentil sono una cosa – e, soprattutto, di Guinizelli – Al cor gentile rempaira sempre amore –; e poi chiama a testimone, nella sentenza d’avvio del suo racconto proprio Virgilio, in una allusione finora non perfettamente chiarita:
v. 121 ... ... ... ... «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore».
Infatti Virgilio – che ben sa d’amore, come rivelerà in Purg. XXII, 10-1: «Amore, acceso di virtù, sempre altro accese» – può riconoscere i sentimenti della sua Didone, descritta nel momento in cui, prima della morte, si trattenne sul ricordo del tempo felice concessole dal fato (En. IV, 648). Poi, come Enea (En. II, 3: «Infandum, regina, iubes renovare dolorem,...quamquam animus meminisse horret luctuque refugit, incipiam»), anche Francesca può iniziare, accettando di ricordare:
«Ma s’a conoscer la prima radice
Del nostro amor tu hai cotanto affetto,
Dirò come colui che piange e dice».
Dunque la triplice anafora di Francesca può rapidamente sommare tre momenti del tormento di Didone: l’innamoramento, legato a una virtù dell’animo (Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende: multa viri virtus animo multusque recursat gentis honos), la passione devastante (Amor, ch’a nullo amato amar perdona: ardet amans Dido traxitque per ossa furorem), la conclusione estrema (Amor condusse noi ad una morte): e da lei che, con la morte, pronunziava il fatale presagio di vendetta civile, destinato a durare nei destini di Roma fino alla distruzione della st...
Table of contents
- Copertina
- Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini
- Indice dei contenuti
- Ripresa teologica
- IL PUNTO
- Università
- Charles Journet: la città di Dio e la città degli uomini
- Charles Journet: una vita nascosta nella luce
- La corrispondenza Charles Journet-Jacques Maritain
- Note sulla teologia della politica di Charles Journet
- Due divergenti concezioni delle basi cristiane del diritto
- STORIA
- I cattolici e lo sport nel Novecento e l’arcivescovo Montini
- BIOETICA
- Alcuni aspetti del problema della maternità surrogata
- LECTURAE DANTIS
- Le maschere di Francesca e il fantasma di Didone (1)
- OSSERVATORIO POLITICO
- I diritti civili nella nuova Costituzione
- RASSEGNA BIBLIOGRAFICA-STORIA DELL’ARTE
- INTERVENTI CRITICI
- INDICE GENERALE DELL’ANNO 2016