Studium - La famiglia in transizione: sfide e risorse
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Una sezione monografica di grande interesse, con contributi su "L'alleanza genitoriale: una risorsa per il benessere in famiglie con figli in età scolare" (Sonia Ranieri, Rosa Rosnati, Laura Ferrari, Elena Canzi, Francesca Danioni); "L'adolescente e la sua famiglia: fattori di rischio e di protezione" (Marco Cacioppo e Cinzia Correale); "Le relazioni familiari generative come risorsa per la transizione all'età adulta" (Margherita Lanz, Semira Tagliabue, Angela Sorgente); "Di generazione in generazione: le relazioni familiari come fonte generativa di valore" (Daniela Barni).

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Information

Un memoriale per Cangrande: l'epistola XIII (1)

di Claudio Villa

Il dibattito sulla epistola XIII che Dante, in un anno imprecisato, avrebbe inviato a Cangrande della Scala, vicario imperiale a Verona e a Vicenza, dedicandogli la cantica del Paradiso, è assai ampio e non sembra ancora esaurito. Questa offerta, accompagnata da un importante commento dove, illustrando i primi 16 versi del primo canto, si disegnano materia e ragioni del poema, suggerisce infatti una lettura dell’opera, secondo una prospettiva garantita dallo stesso autore.
La più controversa e discussa fra le lettere attribuibili al poeta ne diviene dunque, se autentica, un documento particolarmente interessante, poiché offre, nei paragrafi 5-33, una introduzione al prologo del Paradiso: perciò al luogo al quale Dante accede, insieme a Beatrice, dopo essere stato liberato per bocca di Virgilio da ogni servitù, e incoronato, secondo le formule delle incoronazioni imperiali che prevedevano la corona e la mitra, in Pg XXVII 127-142:

Tratto t’ho qui con ingegno e con arte:
lo tuo piacere ormai prendi per duce:
fuor se’ dell’erte vie, fuor se’ dell’arte.
….
Non aspettar mio dir più né mio cenno:
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io sovra te corono e mitrio.

In questa ultima cantica Dante intende formulare un programma, abilmente costruito con le risposte alle domande che lui stesso immagina di rivolgere ad anime contemplanti la verità. Ne risulta un manifesto politico e civile per la realizzazione di un progetto utile agli uomini della città terrena, dove Dante intende tornare, per proporre, come modello di verità, la civitas Dei, abitata da un «popol giusto e sano» ( Pd XXXI 39). La dedica ad un vicario imperiale, amministratore di giustizia in terra, è coerente conseguenza di questa proposta, che il poeta vuole esporre e quindi comunicare per simboli e metafore, nel linguaggio della poesia.
La tradizione manoscritta dell’epistola, che non incrocia mai quella delle altre lettere, è autonoma e per di più anche disunita, poiché alcuni manoscritti esibiscono solo la parte cosiddetta nuncupatoria, la dedica conservata nei paragrafi 1-4, che i più ormai concordano nel considerare autentica. Molti dubbi permangono per la seconda parte, dove l’andamento più scolastico, l’assenza delle clausule ritmiche, le definizioni di commedia, da taluni giudicate banali poiché affini ad analoghe definizioni vulgate da glossari, le stesse spiegazioni del soggetto dei primi versi, sono elementi a lungo dibattuti. Così il testo ha offerto ampie occasioni di discussione già a livello attributivo, con equa distribuzione, da ultimo, fra quanti pensano che tutta la lettera sia opera di Dante e quindi assolutamente originale e quanti non accettano che il commento, pur ragionevolmente collegato alla parte precedente con una formula di transizione ben articolata (paragrafi 5-33), come poi si dirà, possa essere dantesco, rilevando contraddizioni, incongruenze e, talora, ingenuità definitorie per quel che riguarda il genere letterario della sublime cantica.
Bisogna subito osservare che la disamina, con i relativi dubbi, fu impostata quando ancora non si conoscevano tutte le testimonianze manoscritte poi emerse; e poteva perciò sorgere il dubbio che le stampe tarde, a quel tempo note, conservassero un testo apocrifo, costruito con l’aiuto dei commenti danteschi più antichi. Se le perplessità, già esibite nel 1819 dallo Scolari, furono alimentate da una scarsa conoscenza della tradizione, l’erosione delle cronologie, con la scoperta di manoscritti antichi e di nuove testimonianze, ha progressivamente eliminato questa variabile.
Oggi è accertato che, ben prima del momento in cui Filippo Villani (1325-1407) attribuì l’epistola a Dante sul finire del Trecento, si possono rintracciare precocissimi echi della lettera, con una esplicita assegnazione a Dante, negli scritti del notaio Andrea Lancia (ante 1296-post 1357). Si può così accertare una remota circolazione a Firenze, prima della metà del Trecento, presso un letterato impegnato a commentare la Comedìa; dunque presso una generazione che poteva ancora aver conosciuto Dante. In quell’ambiente era quindi consentito dichiarare, senza tema di smentite: «Questa cantica si divide principalmente, secondo che scrisse l’autore medesimo a messer Cane della Scala, in II parti, cioè nel prologo e nella parte executiva».
Come per l’epistola ai cardinali italiani ci troviamo in presenza di una circolazione antica ed autorevolmente attestata in ambito fiorentino e presso cerchie intellettuali che, per aver sfiorato Dante, ne mantenevano, probabilmente, una memoria orale e scritta ancor ben viva: l’epistola ai cardinali è conosciuta dallo storico Giovanni Villani (1276-1348) (e quindi da Giovanni Boccaccio, che la trascrisse nel suo Zibaldone); l’epistola a Cangrande, che introduce l’opera maggiore, è utilizzata dal notaio Andrea Lancia, impegnato a commentare la Comedìa entro il 1343: dopo aver per anni frequentato ambienti e circoli culturali calcati da Dante stesso.
Il ricupero di una testimonianza fondamentale sulla circolazione dell’intero testo dell’epistola a Cangrande, come noi la conosciamo nella forma tràdita dalle testimonianze tarde, non contribuisce soltanto a riconsiderare tutta la questione dell’autenticità di un testo che, negli anni Quaranta del Trecento, era considerato originale. Smantellando e sopprimendo ogni possibile derivazione dell’epistola dai commenti posteriori agli anni Quaranta, è stato fissato l’arco cronologico entro cui collocare la testimonianza; e si offre lo spunto per inserire questo trattatello, redatto in forma di epistola introduttiva ad una commedia, in un dossier intitolato ai problemi di poetica, poiché dell’ufficio di poeta e di generi di poesia qui si tratta; mentre la dedica ad un vicario di nomina imperiale quale era Cangrande, negli anni nei quali il vicariato imperiale, la sua legittimità e i diritti di nomina furono oggetto di infiammati conflitti giuridici, obbliga a valutare le politiche di immagine e le forme della propaganda entro la quale si possano rintracciare le logiche del mittente e anche le particolari situazioni nelle quali opera il titolare della dedica.
A chi sostiene l’ipotesi della falsità compete ancora l’onere di rintracciare, nel ventennio successivo alla morte di Dante, una documentazione – esterna al contenuto dell’epistola, ovviamente – idonea a riconoscere l’ambiente e il letterato (o il politico? ghibellino? critico e conoscitore del volgare illustre?) interessati a costruire un testo che coinvolgesse insieme Dante, morto nel 1321, e il vicario imperiale Cangrande della Scala, morto nel 1329; e contemporaneamente è necessario risolvere il problema del luogo in cui potessero concentrarsi tutti i testi danteschi compromessi nella costruzione dell’epistola, che dimostra una conoscenza capillare di opere diverse dalla commedia; ed anche delle stesse fonti classiche e bibliche con le quali Dante sostenne le sue capacità creative.
Nel tentativo di riconoscere il volto dell’eventuale falsario lo Aheren ha dedotto piuttosto una prova di autenticità poiché il presunto contraffattore appare un conoscitore tanto esperto dei molti scritti di Dante da doversi identificare con Dante stesso; mentre appare assai rischioso suggerire, come autore del falso, il nome di Giovanni Boccaccio, recuperando dettagli dell’epistola – in particolare il giudizio sulla lingua volgare, compresso nel lemma “muliercule”, nell’epistola, e apparentemente tradotto con “feminette” da Boccaccio –; secondo un procedimento già altrimenti applicato nelle discussioni sull’autenticità della corrispondenza bucolica di Dante con Giovanni del Virgilio, quando si invertano i percorsi e le linee genealogiche in cui l’imitatore di uno stilema è trasformato in produttore e creatore.
L’importanza dell’epistola è nella sua forma particolare di dedica con prefazione all’illustre e ospitale Cangrande della Scala, presso il quale Dante dimorò nell’ultimo quinquennio della sua vita, prima del trasferimento a Ravenna; la presentazione della terza cantica è l’occasione per un discorso più generale sulle altre due e per una definizione sintetica, ma non generica, del genere letterario e delle qualità della commedia; quindi offre le basi per un’interpretazione dell’opera suggerita dallo stesso autore al suo mecenate, uomo di guerra e di battaglie vittoriose; ma anche, si badi, il titolare di un potere – la vicaria imperiale – che ne fa automaticamente il garante di quegli aggettivi aulico e curiale (da aula e curia), ai quali Dante ha affidato le sue definizioni di volgare illustre, la lingua di quanti sono uniti «dal divino lume della ragione»; e che è la lingua scelta per la Comedìa che gli viene in parte dedicata.
Una lettera priva di data impone di raccogliere i segnali del tempo nel quale potrebbe essere stata prodotta. Sono dunque da considerare assai analiticamente le molte implicazioni politiche e civili di siffatta dedicatoria, che nell’intestazione al vicario nominato da Enrico VII, nella ferma convinzione di un rapporto privilegiato del poeta e del vicario (“nos”) con gli ordinamenti giuridici (“nec mirum, cum non ipsi legibus, sed ipsis leges potius diriguntur”) espresse nel paragrafo 2; e quindi nel polemico confronto con gli innominati “invidi”, gli “oblatrantes” ai quali sono presentate le auctoritates esibite nel paragrafo 28, si propone come una ben meditata raccomandazione di patrocinio per la parte di un’opera, per la quale si richiede a Cangrande della Scala benevolenza e amichevoli attenzioni. All’interno di un discorso altamente formalizzato, costruito su schemi in uso che prevedono, fra l’altro, una forma di autocommento, come dimostra il confronto con dediche analoghe, conviene cominciare a sottolineare le particolarità e le caratteristiche di alcune scelte formulari.
Dovremo dunque prima di tutto riflettere sulle possibilità di scelta e sullo statuto del genere letterario – poi, Comedìa – che, nell’ultimo decennio del Duecento, il giovane Dante cercava, chiudendo la Vita Nova, cioè una prova di genere elegiaco, sul modello della Consolatio di Boezio conclusa con la promessa di un nuovo e inaudito esperimento: «Si che, se piacere sarà di Colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna».
Come ampiamente osservato, la lingua presumibile in cui “dicere di lei” doveva essere il volgare, su cui Dante, nella stessa Vita Nova (16, 6), aveva fornito la riflessione fondamentale: «e lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale era malagevole d’intendere li versi latini». La mirabile opera di lode doveva condurre Dante a vedere la gloria della sua donna: «E poi piaccia a colui che è sire della cortesia che la mia anima sen possa gire a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira nella faccia di Colui “qui est per omnia secula benedictus”».
È dunque necessario uno scrutinio analitico dell’epistola, considerando prima di tutto i possibili momenti della sua stesura e le condizioni storiche generali negli anni del soggiorno del poeta presso la corte scaligera. (continua)

Claudia Villa


SOMMARIO

L’epistola a Cangrande è uno dei testi più controversi di Dante e periodicamente riemerge un dibattito sull’autenticità, con ulteriori argomentazioni pro e contro l’ipotesi di falsità. Per una corretta valutazione è attualmente necessario riconsiderare tutti gli aspetti storici, politici e retorici di questa introduzione alla Commedia dedicata a un vicario imperiale.

SUMMARY

The Epistle to Cangrande is one of the most controversial texts of Dante. The authenticity debate is again underway. It is necessary to consider all aspects of this historical, political and rhetorical introduction to Commedia.

Bibliografia

L. Azzetta, Le chiose alla «Commedia» di Andrea Lancia, l’Epistola a Cangrande e altre questioni dantesche, in L’Alighieri, n.s., 21 (2003), pp. 5-76.
J. Ahern, Can the «Epistle to Cangrande» Be Read as a Forgery?, in Seminario Dantesco Internazionale - International Dante Seminar 1. Atti del primo convegno tenutosi al Chauncey Conference Center, Princeton, 21-23 ottobre 1994, a cura di Z.G. Baranski, Le Lettere, Firenze 1997, pp. 281-307.
A. Casadei, Dante oltre la “Commedia”, Bologna 2013.
C. Ginzburg, Dante’s Epistle to Cangrande and its Two Authors, in Proceedings of the British Academy, 139, 2005 Lectures, The British Academy, London 2006, pp. 195-216 e L’epistola dantesca a Cangrande e I suoi due autori, in Petrarca, l’Umanesimo e la civiltà europea, II, in Quaderni petrarcheschi, 17-18 (2007-2008), pp. 1053-1076.

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA-LETTERATURA

a cura di Giuseppe Leonelli

Torna, in nuova edizione a cura di Salvatore Silvano Nigro, un libro di Natalia Ginzburg, a suo tempo, di grande successo, La famiglia Manzoni , pubblicato la prima volta dall’editore Einaudi nel 1983. Il libro, accolto con grande favore, aveva affievolito in seguito il suo richiamo sul pubblico. Veniva ristampato per l’ultima volta nel 1994, poi s’era fatto quasi il silenzio intorno ad esso. Forse le vicissitudini della famiglia Manzoni, apparentemente così lontane da noi, non interessavano più i lettori, o gli editori, o gli uni e gli altri, del nuovo secolo.
È stata, per la verità, una bella sorpresa veder risorgere il libro, sempre presso Einaudi (pp. 489), riprenderlo in mano e trovarlo ancora fragrante di ottima scrittura. Quando lo lessi per la prima volta, mi parve la cosa migliore della Ginzburg: una biografia, anzi tante biografie intrecciate l’una con l’altra, ricostruite con scrupolo e attenzione alla verità che si trasformava nella lettura, rimanendo sempre verità o qualcosa di molto vicino ad essa, in uno straordinario romanzo. La percezione di allora si rinnova: questa volta però risuona ancora più intensa e si connota di accenti di malinconia. Perché quando uscì La famiglia Manzoni l’anno prima era uscito Aracoeli della Morante, uno straordinario romanzo che si trasformava in una biografia. Due libri che bastavano a conferire accenti di grandezza a una letteratura italiana che ora appare sempre più costellata di opere pressoché insignificanti, sicché gli editori non sanno più che cosa pubblicare.
Ed ecco la storia, anzi le storie, anzi una parte di esse, perché accennare in questa recensione a tutto quel che troverete nella Famiglia Manzoni è praticamente impossibile.
La storia, anzi le storie, cominciano il 7 marzo 1785, a Milano, allorché la ventitreenne Giulia Beccaria, figlia del marchese Cesare, sposata da tre anni con il nobiluomo Pietro Manzoni, di ventisei anni più anziano, mette al mondo un bambino, cui viene imposto il nome di Alessandro. Il vero padre del bambino era, con ogni probabilità, il conte Giovanni Verri. Nel 1792, Giulia decide di separarsi dal marito e va a vivere a Parigi con il nuovo compagno, il conte Carlo Imbonati. Il figlio, parcheggiato nel collegio dei Somaschi a Merate, non la rivedrà più fino all’estate 1805. La separazione fu traumatica: Giulia, approfittando d’un momento di distrazione del bambino di otto anni, intrattenuto da un prete, si dilegua. Pare che il pianto di Alessandro, che echeggerà per tutta la vita sublimandosi nei momenti più intensamente drammatici dei Promessi sposi, fosse sedato con uno schiaffone.
Passa il tempo, il bambino diventa uomo, ha vent’anni e da due ha lasciato il collegio: vive a Milano con il padre, l’anziano, poco affettuoso Pietro Manzoni, che forse non vede l’ora di togliersi il figlio dai piedi. Alessandro lo riconduce, scrive la Ginzburg, al ricordo di Giulia, al «suo sfortunato matrimonio». Alessandro è già fa...

Table of contents

  1. Copertina
  2. STUDIUM - La famiglia in transizione: sfide e risorse
  3. Indice dei contenuti
  4. La scuola medico salernitana. Cenni storici
  5. IL PUNTO: Scuola in crisi
  6. LA FAMIGLIA IN TRANSIZIONE: SFIDE E RISORSE
  7. L'alleanza genitoriale: una risorsa per il benessere in famiglie con figli in età scolare
  8. L'adolescenza e la sua famiglia: fattori di rischio e protezione
  9. Le relazioni familiari generative come risorsa per la transizione all'età adulta
  10. Di generazione in generazione: le relazioni familiari come fonte generativa di valore
  11. NEUROSCIENZE: Dalla "corporeità" alla "mente": il punto di vista della "spiritualità"
  12. FILOSOFIA: Reinhard Lauth, un'interpretazione trascendentale di Descartes
  13. STORIA: Gli intellettuali dell'Azione Cattolica Italiana e del Referendum del 1974
  14. OSSERVATORIO POLITICO
  15. Immigrazione: quali scenari alla frontiera italiana dell'Europa?
  16. LECTURAE DANTIS: VERSO IL 7° CENTENARIO DELLA MORTE
  17. Un memoriale per Cangrande: l'epistola XIII (1)
  18. RASSEGNA BIBLIOGRAFICA-LETTERATURA