CAPITOLO 1
CHIUSURA, DIFFERENZA, ESOTISMO:
IL GIAPPONE COME LUOGO DELL’ALTRO
Zipagu èe una isola in levante, ch’è nell’alto mare mille cinquecento miglia. L’isola è molto grande, le genti sono bianche, di bella maniera e belle; e la gente è idola, e non ricevono signoria da neuno, se no’ da loro medesimi. Qui si truova l’oro, però n’hanno assai, niuno uomo non vi va, e niuno mercatante non leva di questo oro, perciò n’hanno egliono cotanto. E il palagio del signore dell’isola èe molto grande, ed è coperto d’oro, come si cuoprono di qua le chiese di piombo. E tutto lo spazzo delle camere è coperto d’oro, ed èvvi alto bene due dita; e tutte le finestre e mura e ogni cosa e anche le sale sono coperte d’oro; e non si potrebbe dire la sua valuta. […] Or sappiate che questo mare, ov’è questa isola, si chiama lo mare di Cin, che vale a dire «lo mare ch’è contra li Mangi». E in questo mare de’ Cin, secondo che dicono li savi marinai che bene lo sanno, hae settemilia quattrocentocinquanta isole, delle quali le più s’abitano. […] E in queste isole nasce il pepe bianco come neve, e del nero in grande quantità. Troppo è di grande valuta l’oro, e l’altre care cose che vi sono; ma sono sì di lungi, che appena vi si puote andare.
Le parole di Marco Polo, affidate alla penna di Rustichello da Pisa durante la prigionia del 1298 nelle carceri genovesi, sono forse le prime a offrire del Giappone un’immagine ricca di suggestioni misteriose, esotiche e contemplative, collocandolo tra le meraviglie delle contrade d’Oriente. Il ricordo di questo viaggiatore eccezionale, minuzioso osservatore di fenomeni, autore libero e fantastico, si insinua come imprescindibile termine di confronto in ogni traccia narrativa che voglia essere, a un tempo, esplorazione geografica fisica e mentale, nonché autentica avventura del conoscere. Il Milione, che prosegue la tradizione classica delle grandi peregrinazioni di Ulisse e Alessandro Magno (eroe in filigrana del libro, celebrato mediante il transfert sulla figura di Cubilai Khan), ripropone così il topos del viaggio, inesausto cammino morale e poetico dell’uomo per le strade di un mondo sempre sorprendentemente altro.
Da una prospettiva eurocentrica, il Giappone è uno dei luoghi più rappresentativi di questa alterità, tanto più che, dopo le favolose descrizioni del Milione, esso è restato nei secoli passati – almeno fino alla metà dell’Ottocento – molto in disparte rispetto all’Occidente. Ancora nel 1851, così Herman Melville evocava i «lontani mari» dimora della leggendaria Moby Dick, dando voce al comune immaginario sulle isole nipponiche, ostili e inaccessibili:
Per qualche pensoso vagabondo magista, questo Pacifico sereno, una volta veduto, dovrà essere poi per sempre il mare della sua adozione. Esso agita le acque più centrali del mondo, l’oceano Indiano e l’Atlantico facendogli soltanto da braccia. Le medesime onde lavano i moli delle nuove città californiane, fondate soltanto ieri dalla più recente stirpe umana, e bagnano i lembi scoloriti ma sempre sfarzosi delle terre dell’Asia più vecchie di Abramo; mentre per tutta la strada nel mezzo fluttuano vie lattee d’isole coralline; bassi, infiniti, sconosciuti arcipelaghi e Giapponi impenetrabili. […] | Ora, in quel Mar del Giappone le giornate estive sono come inondazioni di fulgori. Quel sole giapponese immobilmente vivido pare il fuoco fiammeggiante nella lente smisurata di un oceano di vetro. Il cielo pare di lacca, non ci sono nuvole, l’orizzonte va fluttuando, e questa nudità immutata e radiosa è simile agli splendori insopportabili del trono di Dio.
Delle fantasiose e talora temibili descrizioni del Giappone erano causa, in effetti, le poche e imprecise notizie che ne giungevano, prevalentemente alimentate – ancora fino al XVII secolo – dalle lettere dei missionari (soprattutto italiani e spagnoli) che eroicamente lo percorrevano per tentarne l’evangelizzazione.
Proprio ragioni di fervore religioso presiedono all’inserimento di informazioni sul Paese del Sol Levante, questa volta però consistenti, nelle pagine dell’opera seicentesca Istoria della Compagnia di Gesù, cui Daniello Bartoli – storico ufficiale della Compagnia nonché biografo del fondatore dell’ordine e di altri Padri generali – attese dal 1646 fino alla sua morte (avvenuta nel 1685). Il globo narrato nella vasta trama storica percorsa – «ad maiorem Dei gloriam» – in questo monumentale progetto di difesa e celebrazione di uno degli ordini più importanti della cristianità, non si limita infatti all’Italia con i suoi angusti confini politici, cattolici e papali, ma si estende fino a toccare terre lontanissime. La stesura dei libri asiatici (Asia – 1653; Giappone – 1660; Cina – 1663) precede addirittura i quattro dell’Italia (apparsi nel 1673), in cui per contrasto si respira aria di mari chiusi, di terre aride e infette, di aule conciliari e tribunali ecclesiastici. La complementarità delle diverse parti dell’opera rivela l’insorgere, nell’ordine gesuitico, di un momento imperialistico – volto alla conversione di terre vergini e barbariche – contemporaneo a quello istitutivo: gli affascinanti viaggi su dimensioni planetarie, la circumnavigazione di tempestosi oceani espugnabili solo nel nome di Cristo, sono infatti un ulteriore esempio della multiforme virtus del missionario, dotato di incredibili capacità di adattamento (ai costumi e soprattutto alle lingue dei paesi stranieri). Pur svolgendosi nel segno della tolleranza, l’incontro con la diversità non si sottrae per altro ai più duri giudizî verso i ‘barbari’ idolatri, che anche se ammirati – come è appunto il caso dei giapponesi, le notizie sulle cui terre occupano ben cinque libri – per l’acume del loro ingegno, sono infine compianti per l’inutilità di un’indole intellettuale, smarrita in sterili sottigliezze argomentative e priva di grazia divina. Lo spazio dedicato all’arcipelago nipponico nell’Istoria di Bartoli, fondamentale perché destinata a irradiare di sé molta letteratura non solo europea, costituisce in ogni caso veramente un unicum, sotto un profilo sia tematico che formale e può forse considerarsi, dopo Il Milione, l’anello più importante nello sviluppo delle leggende ispirate a un pianeta raccolto nel mistero della propria separatezza.
Come spiega puntualmente Flavia Arzeni in un testo ancora imprescindibile alla ricostruzione delle influenze nipponiche sulla cultura dell’Europa tra XIX e XX secolo, un’ulteriore chiusura, decisiva e volontaria, era del resto intervenuta ad aggravare una situazione geografica di per sé già favorevole al ripiegamento: nel 1637, infatti, un editto shogunale aveva sigillato le frontiere del Giappone, impedendo qualsiasi esodo alla popolazione e l’ingresso agli stranieri (fatta eccezione per la sola base di Deshima, un’isola artificiale prossima a Nagasaki, ove la Compagnia Olandese delle Indie Orientali ebbe il permesso di insediarsi a fini commerciali, restando tuttavia sotto strettissima sorveglianza e in condizioni di semiprigionia). Questa situazione durò fino all’8 luglio 1853, giorno dello sbarco del commodoro americano Perry, venuto a infrangere con quattro navi da guerra la secolare inviolabilità della baia di Edo (l’antica Tokyo):
[…] la società giapponese subì una lacerazione profonda ma breve. Una decina d’anni dopo, il fatto compiuto era generalmente accettato e il paese si trovò impegnato in uno straordinario processo di assimilazione e rielaborazione di modelli culturali e socio-politici occidentali che si è probabilmente esaurito, come fenomeno storico a sé, solo in anni recenti. […] Da un lato si ebbero poche o relativamente poco significative modificazioni autonome delle tradizioni culturali originarie: esse resteranno in qualche modo congelate, costituendo un vasto e prezioso deposito di valori etici ed estetici paralleli cui il popolo giapponese potrà far ricorso in momenti di difficoltà o di turbamento. [...] | A parte parte qualche iniziale tentativo di raccontare e spiegare se stessi che trovò espressione nelle grandi Esposizioni internazionali della fine dell’Ottocento, i giapponesi si curarono poco di dar forma all’immagine che il mondo esterno andava facendosi di loro […].
Confusamente avvertito come scenario di godimenti e mollezze o di violenze e atrocità inaudite, il Giappone è stato insomma a lungo dimenticato, conquistando un più consapevole interesse europeo solo verso la fine del XIX secolo. Ciò è accaduto, per altro, senza che quella stessa frattura provocata dall’intrusione del capitalismo sia riuscita davvero a raggiungere e intaccare le consuetudini della civiltà autoctona. Il contatto con la realtà occidentale, in passato per nulla favorito dalle pur scrupolose relazioni realizzate a Nagasaki da pochi appassionati orientalisti, si è invece meglio attuato attraverso l’arte (le rappresentazioni bidimensionali, variopinte o calligrafiche delle stampe, che influenzarono numerosi pittori dell’impressionismo francese) l’oggettistica (dalle porcellane ai kimono, ai pettini e ai ventagli) e la fascinazione per la scrittura ideogrammatica elegante e misteriosa. Fu proprio l’attrazione per l’inconsueto (del segno e dello stile) a sostanziare in gran parte quello che venne genericamente definito japonisme, movimento imitativo prima artistico e poi letterario – nato a Parigi e a Londra negli anni Settanta dell’Ottocento – in cui «si trovano mescolati insieme aspetti della storia del costume, aspirazioni al rinnovamento di canoni estetici tradizionali, impulsi verso una spiritualità perduta e una confusa nostalgia di esotismo».
Variamente affrontato in questi modi (che all’esotismo combinano talvolta l’astoricità delle impressioni odeporiche o delle indagini antropologiche) in prove di saggistica e narrativa fino al XX secolo, il Giappone resta così troppo spesso intrappolato – complice anche uno stereotipo che continua ad associarlo all’Oriente in maniera indistinta – in una rigida antitesi a valori e costumi propri del comportamento occidentale (specie in termini di erotismo, dismisura, lusso e violenza); in altre occasioni, vi si è invece riconosciuta l’essenza stessa dell’Oriente e quindi il simbolo del diverso – tanto più fittizio e ingannevole quanto meno dirette furono le sue fonti di conoscenza – che si è prestato a divenire una flessibile e quasi infinita metafora. Da un punto di vista generalmente letterario, esso si è allora declinato, a seconda dei casi, in prodotto immaginifico – e per ciò stesso assai più godibile di quello aridamente reale – di un’arte totalmente avulsa dal vero, difesa nel celebre dialogo di Wilde, La decadenza della menzogna; in riflesso di solitudine e distanza inconciliabile tra Oriente e Occidente nel melodramma pucciniano del 1904, Madama Butterfly; in traccia quasi mitologica per gli imagisti inglesi come Yeats, Pound, Eliot; infine, in modello di rigore nel teatro epico di Brecht, ricco di spunti tratti dal Nô e dal Kabuki, accolti in virtù della loro funzione di straniamento e sollecitazione del pubblico (uso di maschere, tendenza al montaggio delle scene, indipendenza anti-naturalistica degli stimoli sensoriali veicolati da suono, movimento e spazio).
Come proverà il seguito del mio percorso – che intende soffermarsi su due casi paradigmatici di esperienza e interpretazione del Giappone, da parte di intellettuali europei a noi non troppo distanti nel tempo – se ci si avvicina più decisamente agli ultimi decenni del Novecento, le modalità di assimilazione culturale del mondo nipponico non mutano nella sostanza; benché ciò comporti, evidentemente, la marginalizzazione degli spiccati processi di industrializzazione, modernizzazione, globalizzazione e transnazionalità (intesa, quest’ultima, come importazione ed esportazione di modelli) che hanno reso il Giappone, specie a partire dagli anni Ottanta, un ibrido conglomerato in grado «di assorbire e reinterpretare la differenza culturale secondo l’ideologia e i codici nazionali» e di diffondere mediaticamente la propria identità, combinando elementi endogeni ed esogeni. La capacità di imporre i proprî tratti tradizionali – oggi chiaramente manifesta nell’espansione grafico-cinematografica, musicale, fumettistica – è anzi da taluni studiosi messa in luce come caratteristica radicata nell’ethos giapponese, attiva ben prima degli sviluppi contemporanei:
L’orientalismo classico partiva dalla fissazione di un Est e di un Ovest del mondo in relazione asimmetrica, con la cultura occidentale in posizione superiore rispetto alle esperienze orientali. In tale discorso il Giappone, poiché geograficamente parte dell’Oriente, era messo nel mucchio insieme agli altri paesi asiatici; tuttavia l’Arcipelago non solo da un certo momento in poi non è più stato inseribile nel calderone dei paesi terzomondisti orientali – in realtà, si può dubitare che lo sia mai stato – ma confuta il discorso orientalista poiché nel XX secolo è stat...