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About this book
Il Bel Paese è un gruviera, terre e mare crivellati DA più di 1.000 buchi, con danni a salute e ambiente. Ma quanto tempo può durare l'economia fossile? Le mani dei petrolieri sono sporche di greggio, ma libere.
Libere di perforare la terra e i fondali marini italiani, con bassi costi e con l'avallo di leggi "tolleranti". Nel nostro Paese, infatti, le "percentuali di compensazione ambientale" sono tra le più basse al mondo: per questo oggi sono centinaia le concessioni e più di 1.000 i pozzi produttivi in Italia, tra terraferma e mare. "Trivelle d'Italia" racconta questo "buco" nel cuore, che ha portato pochi vantaggi al nostro territorio, scarsa occupazione e "infiniti lutti", per i lavoratori e per l'ambiente. Un'analisi che scende in profondità e percorre numeri e storie dei piccoli Texas italiani, dalla Basilicata alla Pianura padana, dal mare della Sicilia a Porto Marghera. Ma le prospettive sono nere: lo ricorda nella prefazione il geologo, giornalista e divulgatore Mario Tozzi, che ci spiega perché il "petrolio a buon mercato" è già finito. Con un'intervista alla professoressa Maria Rita D'Orsogna. Pietro Dommarco è scrittore e giornalista freelance, specializzato in tematiche ambientali. Collabora con il mensile Altreconomia. Cura il blog www.pietrodommarco.it Per ulteriori informazioni su questo libro: www.trivelleditalia.it
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Information
Capitolo 1. I protagonisti
Andiamo a trivellar. Le compagnie del buco. Le principali multinazionali petrolifere
Edison spa -controllata dai francesi di EDF Eléctricité de France- è considerata la società europea più antica nel settore dell’energia. In Italia è leader nei settori dell’approvvigionamento, produzione e vendita di energia elettrica ed idrocarburi liquidi e gassosi. Con le sue attività copre il 19,6% del fabbisogno italiano di gas. Nel nostro Paese è, al momento, titolare o co-titolare di 9 permessi di ricerca idrocarburi in terraferma, di 3 permessi di ricerca in mare, di 29 concessioni di coltivazione in terraferma e 20 concessioni di coltivazione nel sottofondo marino e 3 concessioni di stoccaggio di gas. Dal fronte infrastrutturale è impegnata nella gestione del rigassificatore di Rovigo, operativo dal 2009, e nelle fasi di sviluppo dei gasdotti Galsi (collegamento di Algeria e Italia, via Sardegna e Toscana) e ITGI/Poseidon (collegamento di Europa e Italia con l’area del Mar Caspio, attraverso Grecia e Turchia). Nel 2011 ha versato royalties per oltre 10 milioni di euro.
La Enel Longanesi Developments rappresenta l’estensione operativa di Enel -il più grande operatore elettrico italiano- di nuovi progetti di estrazione di gas naturale, grazie ad accordi con la Grove Energy Limited e Grove Energy srl, riconducibili alla canadese Stratic Energy Corporation.
La Enel Longanesi opera, sostanzialmente, in joint-venture con la Geogas e la Compagnia Generale Idrocarburi. Quest’ultima, a sua volta, sviluppa progetti in partecipazione con Edison ed Appenine Energy. Fanno discutere le richieste di Enel Longanesi relative all’esplorazione e alla ricerca di idrocarburi gassosi nell’Oltrepò Pavese -in aree interessate da numerose produzioni vitivinicole doc, come il Bonarda, il Pinot nero e il Pinot grigio- e nella Valle del Belice, in un territorio ad alto rischio sismico che nella notte tra il 14 ed il 15 gennaio 1968 fu devastato da un terribile terremoto di magnitudo 6.1 della scala Richter.
Al momento non versa royalties a Stato, Regioni e Comuni.
Multinazionale italiana con sede a San Donato Milanese (Mi), quotata in Borsa.
È presente in oltre 30 Paesi in tutto il mondo, con attività di esplorazione, sviluppo e produzione.
In Italia, l’ex Ente nazionale idrocarburi -controllata per il 3,93% dal ministero dell’Economia e per il 26,40 % dalla Cassa depositi e prestiti spa- opera, massicciamente, in Basilicata, dal cui sottosuolo estrae attualmente circa 88 mila barili di greggio al giorno. Una quota estrattiva destinata al raddoppio, così come le attività del Centro olio di Viggiano, sempre in territorio lucano, con impatti infrastrutturali evidenti nel parco nazionale della Val d’Agri-Lagonegrese. Su tutto il territorio nazionale l’Eni è titolare di 10 permessi di ricerca in terraferma, 10 permessi di ricerca nel sottofondo marino, 34 concessioni di coltivazione in terraferma, 49 concessioni di coltivazione nel sottofondo marino, 18 nuove istanze per il conferimento di permessi di ricerca e concessioni.
Nel 2011 ha versato royalties pari a poco più di 168 milioni di euro.
“La Northern Petroleum è una compagnia inglese controllata interamente dalla Northern Petroleum PLC, impegnata nell’attività di esplorazione di idrocarburi in Italia, nel Regno Unito, in Olanda ed in Guinea. Nel nostro Paese dispone di permessi di ricerca in Val Padana, ma sembra essere maggiormente interessata all’estrazione di idrocarburi su aree offshore, dove è titolare di 10 permessi di ricerca e ben 21 richieste. I vertici dell’azienda, alla luce del decreto Prestigiacomo che ha esteso -per le aree marine e costiere protette- da 5 a 12 miglia il limite entro cui sono vietate tutte le attività petrolifere, affermarono che “la legislazione italiana che vieta le trivellazioni offshore entro le 12 miglia dalla costa avrà un effetto irrilevante sugli assetti della compagnia”. Opera nella maggior parte dei casi, in joint-venture con Avobone Italy e Shell Italia.
La Shell Italia spa appartiene al gruppo Royal Dutch/Shell, con il controllo -tramite Shell Italia Finanziaria, che ne detiene l’intero capitale sociale- della holding The Shell Petroleum Company Limited, società di diritto inglese.
In Italia, oltre alla titolarità con la Northern Petroleum di 6 permessi di ricerca per estrazione di idrocarburi a mare, nel canale di Sicilia, è presente in Basilicata nella concessione Val d’Agri (39,23%) con Eni (60,77%) e nella concessione Gorgoglione (25%) con Total (75%). Inoltre, partecipa ai permessi di ricerca Fosso Valdienna (ricadente nell’area del parco regionale Gallipoli Cognato-Piccole Dolomiti Lucane- Calanchi Lucani) con il 9,3% assieme a Total (83,4%) ed Eni (7,3%), Monte La Rossa con il 10% assieme a Edison (50%) ed Eni (40%) e Tempa Moliano con il 9,3% assieme a Total (83,4%) ed Eni (7,3%). Di recente, la Shell ha richiesto la possibilità di effettuare ricerca di idrocarburi nel Vallo di Diano, in Campania, in una fetta di territorio in prossimità del parco nazionale del Cilento e siti dichiarati patrimonio dell’Unesco.
Nel 2011 ha versato royalties per oltre 46 milioni di euro.
La multinazionale francese Total, in Italia, opera in ambito esplorativo e di produzione di idrocarburi attraverso la divisione Total E&P Italia spa ed in ambito raffinazione attraverso una joint-venture con TotalErg spa. Sul territorio nazionale è titolare, da fonti ufficiali dell’azienda, di 6 permessi di ricerca nell’Appennino meridionale, 2 dei quali compresi nel territorio del parco regionale Gallipoli Cognato-Piccole Dolomiti Lucane- Calanchi Lucani. In Basilicata ha una partecipazione del 75% della concessione Gorgoglione, in provincia di Matera, acquisita da Eni Spa. Il giacimento individuato, denominato Tempa Rossa, rappresenterà circa il 25% della produzione di petrolio in Italia. Lo scorso 27 aprile, a seguito di prove di produzione del pozzo Gorgoglione 2, è stato oggetto di un incidente che l’ufficio stampa dell’azienda ha definito “episodio” e “sversamento accidentale”. In loco non esiste una rete pubblica di monitoraggio ambientale con il posizionamento di centraline.
La TotalErg spa, invece, controlla il 100% della Raffineria di Roma ed il 26% della Raffineria Sarpom di Trecate, in provincia di Novara, con una capacità di lavorazione di circa 116 mila barili al giorno. Nel 2008 la Total finisce sotto inchiesta a seguito di un’indagine della Procura di Potenza che vuole vederci chiaro sugli appalti legati alla costruzione del Centro olio di Corleto Perticara, in provincia di Potenza. Al momento il colosso francese non versa royalties a Stato, Regioni e Comuni.
Capitolo 2. L’intervista
Costi minimi e mani libere. Ecco perché in Italia ci sono più di 1.000 “buchi”
Maria Rita D’Orsogna, di mestiere è professore associato presso il Dipartimento di Matematica alla California State University di Northridge. Un tecnico che ha deciso di accompagnare le lotte dei territori e dei cittadini “per un profondo senso di giustizia sociale” e perché -spiega- non è tollerabile che “multinazionali petrolifere come Eni, Shell o Petroceltic possano venire nelle nostre comunità a stravolgere la qualità di vita dei cittadini con l’inganno o con il silenzio”.
Con lei percorriamo a volo d’uccello i “territori” di questo lavoro e i temi che ritroveremo nei prossimi capitoli.
Perché queste imprese vengono a trivellare nel nostro Paese?
Se queste imprese arrivano in Italia è perché la normativa a tutela dell’ambiente e della salute è arretrata e meno pressante: vigono percentuali di compensazione ambientale -le cosiddette royalties- tra le più basse del pianeta. In altri Paesi del mondo ai petrolieri vengono invece applicate speciali tasse, perché si riconosce che l’attività petrolifera risulta essere altamente lucrativa. In Norvegia, ad esempio, oltre alle normali tasse aziendali -che pagano tutti- c’è un’imposta aggiuntiva sulle estrazioni di idrocarburi che arriva fino al 50% dei ricavati. Il governo, che è partner delle ditte petrolifere, incassa anche sui guadagni, e in più ci sono tasse sulle emissioni di inquinanti, tra cui l’anidride carbonica e i nitrati. Per farla breve, in Norvegia quasi l’80% del ricavato dell’industria petrolifera viene riscosso dallo Stato. Introiti che in larga parte finiscono in uno speciale fondo pensioni che, a oggi, ammonta a circa 300 miliardi di euro, quanto il Pil annuale norvegese. In Inghilterra, invece, le compagnie devono pagare una tassa speciale aggiuntiva del 32%. In Italia, di contro, oltre alle tasse governative, le società cedono solo il 4% dei loro ricavati per le estrazioni in mare e il 10% (7% + 3% destinato a un Fondo idrocarburi, ndr) per le estrazioni sulla terraferma. È anche per questo che i petrolieri, ripetutamente, affermano ai loro investitori che trivellare in Italia è estremamente facile: parlano di “regimi fiscali convenienti”, di spese d’ingresso irrisorie, di commercializzazione rapida. Accanto alle basse royalties, le leggi per la tutela dell’ambiente sono a dir poco “blande”.
Quali sono le principali carenze delle norme italiane in materia di tutela ambientale nel settore delle estrazioni petrolifere?
Uno degli aspetti più sconcertanti è che fino al 2010 si potevano costruire piattaforme in mare un po’ dove si voleva. Infatti, nel 2008, la Petroceltic di Dublino trivellò un pozzo preliminare nei mari antistanti la Riserva naturale regionale di Punta Aderci a Vasto (in provincia di Chieti, in Abruzzo, ndr), a soli 2 chilometri dalla riva. Questo in altri Paesi sarebbe impossibile. L’anno scorso, però, sull’onda emotiva dello scoppio della piattaforma British Petroleum nel Golfo del Messico, in Louisiana (Usa), è arrivato il “decreto Prestigiacomo”, che ha imposto il limite delle trivelle a 12 miglia dalla costa, per le aree marine e costiere protette
Questo limite è adeguato?
Assolutamente no. In California, dove lavoro, è dal 1969 che non si costruiscono nuovi impianti petroliferi a mare e la zona di interdizione alle trivelle è di circa 160 chilometri. Una scelta dettata dalla volontà di proteggere turismo e pesca. Nello Stato della Florida, invece, il divieto è posto a 200 chilometri dalla riva. Ciò che avviene in Italia è, per questo, inaccettabile. Le leggi vigenti favoriscono concessioni petrolifere nelle strette vicinanze di Venezia, di Chioggia, delle isole Tremiti, di Pantelleria e del Salento, solo per citarne alcune. Nemmeno l’incidente avvenuto nel Golfo del Messico il 20 aprile del 2010 sembra averci insegnato nulla. L’Italia non impara mai dal passato. Nel 1969 a Santa Barbara, a circa 200 chilometri a Nord di Los Angeles, scoppiò una piattaforma di petrolio. Il mare fu inquinato per diverse settimane. Gli abitanti decisero che una cosa simile non si sarebbe mai più dovuta ripetere; divenne pertanto legge il limite dei 160 chilometri e quella che, di fatto, è una moratoria alle nuove trivelle che dura a tutt’oggi. In Italia, invece, dopo che nel 1965 scoppiò una piattaforma metanifera a Paguro, a circa 10 chilometri dalle coste di Ravenna, provocando la morte di tre persone e la contaminazione del mare per quasi tre mesi, non è successo niente. Fu un piccolo “Golfo del Messico italiano”, ma la morte di quelle tre persone non è servita a niente in termini di tutela ambientale.
Riassumendo: il mare italiano è a rischio; la terraferma è un vero e proprio “gruviera”; le leggi di tutela ambientale sono più che permissive. Dal punto di vista dell’incidenza sanitaria, invece, sono stati fatti passi in avanti, considerando gli elevati limiti di emissione in atmosfera concessi ai centri oli, alle raffinerie e alle altre infrastrutture petrolifere?
Per quanto riguarda le leggi sulle emissioni in atmosfera siamo lontani anni luce dai Paesi sviluppati. Prendiamo l’idrogeno solforato: non è accettabile che in Italia il limite massimo tollerabile per le emissioni da raffinerie e desolforatori sia di circa 30 ppm (parti per milione, ndr) e che lo stesso limite in Massachusetts sia di 0,00065 ppm. Lo stesso vale per la diossina, per la quale è lecito emettere in atmosfera concentrazioni mille volte superiori a quelle regolate in Germania. Trivellare un territorio o una zona marina provoca conseguenze dannose per l’ambiente e le persone. Spesso si pensa che il pericolo si palesi negli scoppi più o meno spettacolari che si possono verificare. Gli scoppi, come gli incendi, sono fra i pericoli esistenti, e portano a conseguenze durature.
Basti pensare che non è ancora finita nel Golfo del Messico e che secondo gli esperti ci vorranno anni affinché tutto torni, forse, come prima. Quello che in pochi sanno, però, è che pozzi e raffinerie hanno perdite quotidiane, generano scarti tossici non sempre smaltibili in maniera ottimale che possono andare ad inquinare aria, falde acquifere e mari. Ad esempio, per perforare e poi estrarre petrolio da un pozzo occorre usare speciali composti chimici -detti fanghi e fluidi perforanti- che spesso contengono materiale cancerogeno, come toluene e benzene, nonché materiale radioattivo.
Una marea di rifiuti petroliferi che riusciamo a smaltire con molta difficoltà…
Gli scarti di perforazione finiscono, accidentalmente o volontariamente, in mare, come nel caso delle piattaforme offshore. Questa è una prassi normale, anche in Norvegia. Uno studio condotto circa 10 anni fa sulle piattaforme del Golfo del Messico mostrò che le concentrazioni di mercurio collegate a questi scarti petroliferi erano circa 25 volte maggiori che in altre aree. Il mercurio è cancerogeno, finisce nei pesci e -alla fine della catena alimentare- nei nostri corpi. Allo stesso modo pozzi e raffinerie rilasciano composti organici volatili, idrogeno solforato e altre sostanze gassose cancerogene, che si accompagnano a odori nauseabondi. È evidente che respirare queste sostanze tutti i giorni della propria vita non può essere salutare. Studi condotti da diverse realtà scientifiche parlano di aumento diffuso di malattie respiratorie, cutanee e del sistema nervoso presso centri di trattamento e di estrazione del petrolio. In California, una legge obbliga le compagnie a pubblicare ogni tre mesi sulla stampa locale messaggi come spiegano che tutto il ciclo petrolifero -dall’estrazione, al trasporto, alla raffinazione, al consumo di petrolio- aumenti i rischi di tumori e di malformazioni genetiche. Che io sappia, non esiste una comunità che sia felice di vivere vicino a centri petroliferi.
Nella Val d’Agri, in Basilicata, le patologie respiratorie e tumorali fanno registrare tassi d’incidenza oltre la media nazionale, e in continuo aumento. Lei cosa ne pensa?
La Basilicata, purtroppo, rappresenta l’esempio più eclatante di malagestione politica. E le statistiche evidenziano che la qualità della vita non è fra le migliori: è la regione più povera d’Italia e nelle zone limitrofe ai pozzi si registrano casi di petrolio nel miele; dighe di acqua potabile inquinate da idrocarburi; sorgenti idriche chiuse; immondizia petrolifera tossica e cancerogena seppellita nei campi e nei parchi; vigneti, meleti e campi di fagioli vicino al “nefasto” centro oli di Viggiano (Pz) sono rovinati. I tumori aumentano e così pure la disoccupazione e l’emigrazione. È questo che vogliamo? Non sarebbe più intelligente incentivare, con regole precise che evitino altro business e speculazione, l’industria delle rinnovabili e degli edifici ecosostenibili e a risparmio energetico? Invece, per tutta risposta, si è autorizzato il raddoppio delle estrazioni; il che significa raddoppiare inquinamento, danni ambientali, agricoli e sanitari. Anche se la stampa non ne parla, è tutta la Penisola a essere stretta nella morsa delle trivelle, dal Piemonte alla Sicilia. Si vuole trivellare lungo tutta la dorsale adriatica e nei mari ionici.
Oltre alle “tradizionali” Eni, Shell e Total si prospettano le trivelle dell’americana Hunt Oil nel bolognese, della texana Aleanna Resources nella Bassa Padana, della Northern Petroleum di Londra nel Salento, dell’americana Forest Oil in Abruzzo, dell’irlandese Petroceltic alle Tremiti. Lungo lo stivale attendono una miriade di altre ditte minori, dai nomi più improbabili: San Leon Energy, Apennine Energy, Po Valley. Spesso gli investitori stranieri ne sanno molto di più dei residenti, a caus...
Table of contents
- Copertina
- Trivelle d'Italia
- Indice dei contenuti
- Prefazione.
- Capitolo 1. I protagonisti
- Capitolo 2. L’intervista
- Capitolo 3. Estrarre petrolio costa meno di un vasetto di yogurt
- Capitolo 4. La legge (e le tasse) non sono uguali per tutti
- Capitolo 5. Benzina quanto mi costi.
- Capitolo 6. Le “guerre del petrolio” italiane
- Capitolo 7. Le infinite vie del gas: dall'hub al tubo
- Appendice. I principali comitati, i movimenti attivi e un glossario
- Biografia dell'autore
- Ringraziamenti