Capitolo 1
Il secolo cinese
l’origine del miracolo economico cinese
L’economia cinese inizia a crescere nel 1978, ma il “miracolo economico” – vent’anni di fantastica crescita a due cifre in cui la ricchezza della Repubblica Popolare ha scavalcato quella della Germania e del Giappone e ha ormai raggiunto quella degli Stati Uniti – comincia, di fatto, nel 1992. In Italia il grande pubblico non se ne è reso subito conto. Da noi quelli erano gli anni dell’inchiesta “mani pulite” e del passaggio “dalla prima alla seconda repubblica”, con la scomparsa di tutti i partiti politici tradizionali e la comparsa di nuovi soggetti. Sul piano internazionale eravamo distratti da molte crisi molto più vicine a noi: la riunificazione tedesca e il crollo dell’Unione Sovietica, i conflitti in Medio Oriente con la prima e la seconda guerra del Golfo, la decennale guerra civile in Jugoslavia, giusto alle porte di casa. Nel 2001, l’anno dell’attentato terroristico alle torri gemelle di New York dell’11 settembre, quasi nessuno si rese conto dell’importanza storica dell’entrata della Repubblica Popolare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il WTO, passaggio che ora appare chiaramente come uno spartiacque nella politica mondiale: l’inizio del “secolo cinese”.
Il grande pubblico in Italia ha iniziato a prendere coscienza di quanto la crescita economica asiatica stesse cambiando gli equilibri mondiali forse solo nel 2005, quando esce in libreria Il Secolo cinese, un saggio del giornalista Federico Rampini. In verità nel mondo anglosassone – dove vi è una forte tradizione di area studies e di geopolitica – il tema era già molto dibattuto, anche se messo in ombra dalle questioni mediorientali e dalla ripresa, talvolta chiaramente strumentale, della teoria di Samuel Huntington sull’inevitabile “scontro di civiltà” tra Occidente e mondo islamico.
Per gli analisti americani la questione era che, visti gli strabilianti tassi di crescita, nel Ventunesimo secolo la Cina avrebbe finito per superare il PIL degli Stati Uniti. Pechino avrebbe quindi finito per sfidare l’America per il primato mondiale in un sistema internazionale che il crollo dell’Unione Sovietica aveva lasciato appunto unipolare, a dominanza americana. Il tema era debitamente affiorato sulla grande stampa tanto che, nel gennaio 2005, sul Times di Londra William Rees-Mogg anticipava con l’articolo “This is the Chinese century” il titolo del libro di Rampini.
Sempre nel 2005, a Washington, Fred Bergsten, direttore del prestigioso think tank Peterson Institute for International Economics, notava provocatoriamente che per regolare l’economia internazionale il G7/G8 era ormai superato e inefficace e andava affiancato (o soppiantato) dal G2. USA e Cina: le due principali economie al mondo potevano da sole tirare le fila dei mercati finanziari e della crescita globale. La proposta di Bergsten era irrealizzabile e non fu gradita dagli altri G7, ma è importante ricordarla per due motivi. Il primo è che la sfida posta al primato internazionale degli Stati Uniti non era necessariamente percepita come una minaccia. Al contrario, buona parte del boom cinese era sostenuto dagli investimenti e dai trasferimenti tecnologici americani, mentre la Repubblica Popolare ricambiava detenendo le proprie riserve in titoli del Tesoro americano. Le due economie erano chiaramente interconnesse e la cooperazione economica poteva tranquillamente mettere in secondo piano le considerazioni geopolitiche di potenza. La seconda ragione di attenzione è più vicina agli interessi dell’Italia come membro del club dei G7: si tratta della constatazione che la crescita delle economie emergenti era ormai così tanto significativa da non poter più essere ignorata al livello di governance globale.
Il punto tornò di urgente attualità nel 2008 con la crisi finanziaria internazionale. L’allora segretario al Tesoro degli Stati Uniti iniziò a viaggiare regolarmente in Cina, ma l’assetto che prevalse non fu il G2, ma un più politicamente corretto G20 inclusivo di Paesi importanti come l’India, l’Arabia Saudita, il Brasile. Per la Cina quello fu l’anno delle Olimpiadi di Pechino, evento simbolo del prestigio della Repubblica Popolare nel mondo. Anche l’inclusione di diritto nel club delle prime 20 economie al mondo fu naturalmente un traguardo di assoluto rilievo.
deng xiaoping dalle riforme del 1978 al viaggio al sud del 1992
Il miracolo economico inizia dunque nel 1992 e l’evento simbolo che ne rappresenta l’avvio è il viaggio del leader Deng Xiaoping – il “Piccolo Timoniere” a cui “non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda i topi” – nel Sud del Paese, a ridosso del Capodanno tradizionale cinese. Le riforme economiche sono iniziate tuttavia già nel 1978 con l’apertura all’iniziativa privata e agli scambi con l’estero voluta dallo stesso Deng Xiaoping per modernizzare il Paese. Per le nuove generazioni è forse difficile da immaginare, ma fino ad allora la Cina era rimasta essenzialmente chiusa ai mercati mondiali e concentrata principalmente sugli obiettivi ideologici del socialismo collettivista e della Rivoluzione culturale. Vinto un prolungato scontro interno con le componenti più ideologizzate in cui lui stesso e la sua famiglia avevano pagato prezzi personali molto elevati, Deng riesce a far prevalere la sua linea pragmatica e a far approvare il programma delle “quattro modernizzazioni”: industria, agricoltura, scienza e tecnologia e difesa.
Figura 4. Deng Xiaoping alla Casa Bianca con il presidente Carter (1979).
Figura 5. Deng Xiaoping visita la NASA a Houston, Texas (1979).
L’apertura agli investimenti stranieri viene sottolineata dalla completa normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti (ben sette anni dopo lo storico viaggio del presidente Richard Nixon in Cina) e dall’adesione al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale.
È del 1979 lo storico viaggio di Deng Xiaoping in America, paragonabile per molti versi a quello di Nikita Krusciov degli anni Cinquanta. Accolto dal presidente Jimmy Carter, il leader della Cina comunista visita la NASA a Houston, la Coca-Cola ad Atlanta e la Boeing a Seattle. Questo periodo pioneristico è descritto oggi come l’epoca d’oro delle relazioni sino-americane. Le multinazionali statunitensi che sbarcano nella Repubblica Popolare trovano le porte aperte e fanno notevoli profitti, mentre la Cina iniziò a importare capitali e tecnologie essenziali per il suo sviluppo.
Non a caso l’avvicinamento tra Washington e Pechino viene a bilanciare un marcato raffreddamento delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che sfocia in una seconda Guerra fredda con il rilancio della corsa agli armamenti decisa dal presidente Ronald Reagan.
In Italia sono gli anni del rapimento Moro da parte delle Brigate rosse e della crisi degli euromissili, che l’Italia accetta per prima in Europa nelle basi di Comiso e Sigonella, nonostante l’opposizione di un grande movimento pacifista. In Medio Oriente è l’epoca della Rivoluzione islamica in Iran con l’assalto all’ambasciata americana a Teheran e la presa in ostaggio dei diplomatici statunitensi, poi trattenuti per 444 giorni. Nel 1979 va infine registrata l’invasione sovietica dell’Afghanistan, forse il principale punto di svolta della nuova Guerra fredda: è a fronte delle rinnovate tensioni con l’Unione Sovietica che l’America e l’Occidente sostengono la crescita economica cinese.
La luna di miele si arresta di colpo nel 1989 con la crisi seguita ai fatti di piazza Tienanmen. In Europa è la stagione della perestroika di Gorbaciov, involontario responsabile del clamore mediatico suscitato dalle dimostrazioni pechinesi, che a sua volta vuole riformare e modernizzare l’URSS. La DDR cerca ostinatamente di resistere alle riforme, ma si sgretola portando alla riunificazione pacifica della Germania. La stessa Unione Sovietica finisce per implodere nel 1991. Mentre celebri economisti prescrivono ai Paesi europei in transizione delle ricette shock di passaggio al libero mercato, molti media anglosassoni prevedono il collasso anche della Repubblica Popolare. A Pechino, invece, Deng Xiaoping tiene dritta la barra a garanzia della stabilità politica e anzi rilancia le riforme. Il “viaggio al Sud” del vecchio leader ha una portata simbolica paragonabile al celebre attraversamento a nuoto del fiume Yangze da parte di Mao nel 1966.
Ritrovata l’unità del partito, egli visita Shenzhen, Zhuhai e le “zone economiche speciali” su cui si è incentrata l’apertura al mercato. È qui che sono nate migliaia di aziende private. È qui che si sono incentrati gli investimenti stranieri. Deng festeggia quindi il capodanno cinese a Shanghai, antico centro finanziario dell’Asia prima della Rivoluzione e nuovo motore della crescita. Il messaggio è chiaro: la politica di riforme e di apertura al resto del mondo continua. Chi temeva che, come nella Russia di Lenin, dopo la nuova politica economica seguisse una nuova fase di collettivizzazione si è sbagliato. La Cina vuole continuare a svilupparsi e vi si può investire. Se dal 1978 la crescita economica è stata sostenuta, dopo il 1992 il boom diventa miracolo.
l’ammissione al wto (2001) e l’inizio del secolo cinese
Le riforme del 1978 portano al primo boom, una crescita sostenuta per molti versi paragonabile a quella delle cosiddette “Tigri asiatiche” (Thailandia, Malesia, Singapore, Corea del Sud). Con la conferma e il rilancio delle riforme nel 1992 l’espansione economica riceve un’ulteriore fortissima accelerazione e si trasforma nel miracolo economico cinese. I numeri sono impressionanti (nel 1992 la crescita del PIL cinese è del 14,2 per cento) così come la sequenza dei traguardi raggiunti: dal recupero della sovranità su Hong Kong nel 1997 – che mette simbolicamente fine al “secolo di umiliazione” per mano degli imperialismi occidentali e del Giappone – fino all’ammissione nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 2001. L’adesione al WTO chiude la fase storica del miracolo economico e segna l’inizio di una nuova epoca per cui anche la definizione di miracolo non basta più: il secolo cinese. Tra il 2001 e il 2007 il PIL cinese cresce a una media annua superiore all’11 per cento.
In termini assoluti, la Repubblica Popolare nel 2010 raggiunge e supera la ricchezza del Giappone, il nemico mortale della prima metà del Ventesimo secolo che, tecnologicamente imbattibile, aveva provato a ridurre la Cina in schiavitù. Il primo Paese asiatico capace di modernizzarsi e di competere alla pari con le potenze imperiali occidentali già nel Diciannovesimo secolo. Quell’impero nipponico che, uscito distrutto dalla guerra, era riuscito a ricostruirsi dalle macerie e a ripartire fino a diventare la seconda economia mondiale nel 1968 e competere pacificamente con gli Stati Uniti per il primato negli anni Settanta.
La RPC quindi spiazza e sostituisce le Tigri asiatiche nelle produzioni industriali delocalizzate delle multinazionali in cerca di una riduzione dei costi degli articoli destinati al mercato americano. Diventata la “fabbrica del mondo” partendo dai processi più semplici e standardizzati, la Cina eleva progressivamente il valore aggiunto delle sue produzioni e inizia ad accumulare notevolissimi surplus commerciali con l’America e con l’Europa. Tali surplus permettono finalmente al Regno di Mezzo di disporre di quei capitali necessari a finanziare uno sviluppo auto-sostenuto che fino ad allora gli erano mancati.
Avviato con l’adesione al WTO, il secolo cinese si caratterizza subito per un grande dinamismo anche nel campo della diplomazia commerciale. Molti capi di Stato e di governo stranieri arrivano in Cina con ampie delegazioni imprenditoriali al seguito e vengono firmate molte intese. Nel 2002 viene infatti firmato un accordo con l’ASEAN e l’anno seguente (2003) viene lanciata una partnership strategica con l’Unione Europea in quanto tale. Nel 2004 Wen Jiabao visita l’Europa e s...