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Rivista di Politica 4/2017
Crisi e trasformazione della "democrazia dei partiti"
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Rivista di Politica 4/2017
Crisi e trasformazione della "democrazia dei partiti"
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La fine della "ideologia del lavoro"e l'ascesa del populismo contemporaneoAlessandro CampiLe origini storiche della premiership britannica: Parlamento, rappresentanza, interesse pubblicoRocco GiuratoLe due facce di Max Weber: scienziato sociale o antropologo della modernità?Cesare SillaTornare a Grozio? Normatività e dialogo tra le culture nelle odierne relazioni internazionaliStefano ProcacciRiformare (male) stanca. Partiti, istituzioni e legge elettorale nel crepuscolo della democrazia italianaGianfranco PasquinoPer un'etica del populismo. Crisi dei valori della politica o crisi della politica?Marcello MarinoQuale futuro per gli studi politici in Italia? Una discussione necessariaDamiano Palano
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Information
Publisher
Rubbettino EditoreYear
2018eBook ISBN
9788849854473
CONGETTURE E CONFUTAZIONI
La fine dell’ideologia del lavoro e la crisi della politica
Ha fatto molto scalpore, nelle settimane che hanno preceduto le festività natalizie del 2017, lo sciopero dei dipendenti e collaboratori della filiale italiana di Amazon. Molti sono stati, sui media e a livello politico, i commenti e prese di posizione. Tra l’azienda (una delle più grandi multinazionali al mondo, divenuta in pochi anni leader mondiale nel campo del commercio elettronico, ma con interessi che si estendono ormai anche ad altri settori: dall’editoria alla grande distribuzione alimentare) e i sindacati si è inscenata, come sempre accade in questi casi, una guerra di cifre sull’effettiva percentuale di adesione alla protesta: quasi insignificante secondo la prima, molto alta secondo questi ultimi. A livello di cronaca ci si è appuntati soprattutto sulle rivendicazioni e richieste dei lavoratori, che hanno lamentato i ritmi e i turni stressanti, la mancanza (o il poco rispetto) delle abituali forme di tutela contrattuale e sindacale, i compensi inadeguati all’impegno esercitato quotidianamente, la mancata corrispondenza tra le mansioni assegnate e la qualifica scolastico-professionale posseduta, lo stato di costante precarietà contrattuale in cui, specie se giovani, essi vengono tenuti.
Ciò che da questa vicenda non sembra emerso a sufficienza, a livello di opinione pubblica e di dibattito politico, è però un tema che nelle società occidentali odierne ha ormai assunto un valore sempre più dirimente: quello relativo alle radicali e irreversibili trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito il mondo del lavoro. Trasformazioni che non riguardano solo il suo aspetto organizzativo, tecnico e economico. Ma che hanno a che fare anche – forse soprattutto – con la dimensione sociale, psicologica e simbolica del lavoro, per come quest’ultimo è stato inteso quantomeno nel secolo scorso.
Durante l’intero Novecento, il lavoro – considerato nelle sue espressioni più emblematiche e fisicamente impegnative: quello operaio-industriale e quello agricolo-contadino – ha rappresentato una sorta di mito politico trasversale. La sua esaltazione/valorizzazione è stata l’ideologia nella quale si sono riconosciute tutte le grandi famiglie politico-culturali che hanno attraversato il secolo: dal socialismo al fascismo, dal comunismo al popolarismo cristiano e al liberalismo.
Seppure con diversità di accenti e sfumature, queste diverse tradizioni ideologiche hanno considerato il lavoro come uno strumento di riscatto individuale e di crescita collettiva. Era un vero e proprio valore, da tutelare e promuovere nella sua dimensione sociale. Era una funzione da assolvere: un diritto e al tempo stesso un dovere. Lavorare non aveva a che fare solo col sostentamento proprio e della propria famiglia: era un atto che contribuiva alla formazione della personalità e un mezzo attraverso il quale garantire la coesione e la tenuta di una comunità.
Il lavoro, nella sua rappresentazione per così dire romantica e idealizzata, aveva un che di eroico e di epico, ben testimoniato da molte espressioni dell’arte novecentesca (dalla pittura al cinema). Esso implicava impegno, dedizione, disciplina e persino disponibilità al sacrificio. Era il motore del benessere (individuale e collettivo) ma anche una sorta di apprendistato etico-civile. Anche nelle sue forme più impegnative e dure, era un mezzo attraverso il quale rendersi liberi dal bisogno e autonomi come persone. Non c’era fatica che non venisse riscattata dal fatto che, possedendo un lavoro (considerato quasi per definizione duraturo e definitivo), non si aveva solo un salario economico, ma anche e soprattutto un ruolo riconosciuto e stabile all’interno della società. Era per suo tramite che i singoli e i popoli potevano dunque marciare fiduciosi verso il futuro, nella convinzione altresì di star partecipando ad una grande avventura collettiva. Attraverso il lavoro, anche se svolto fuori dai grandi conglomerati di massa come le grandi fabbriche, si era insomma la parte di un tutto.
È per quest’insieme di motivi che il lavoro, nel corso del Novecento, è stato oggetto di una crescente tutela e regolamentazione e considerato dalla politica alla stregua di un valore fondamentale. La Costituzione italiana, per fare un solo esempio, nel suo primo articolo lo pone come base (etica e materiale) della Repubblica. I partiti di massa, dal canto loro, hanno sempre cercato di rappresentarlo e di dargli voce in tutte le sue possibili espressioni e articolazioni. Essi, se si guarda alle campagne elettorali del passato, non hanno mai parlato genericamente al cittadino-elettore, ma al cittadino-lavoratore secondo le sue diverse necessità e qualifiche – dall’operaio al libero professionista, dall’agricoltore al dirigente d’azienda, dal tecnico all’insegnante, dal commerciante all’artigiano, dall’imprenditore all’impiegato pubblico ecc. – e a sua volta sempre inserito all’interno delle differenti forme associative e di rappresentanza che hanno caratterizzato il mondo del lavoro.
Ma l’impressione è che tutto ciò stia improvvisamente per finire, sotto l’incalzare di una rivoluzione tecnologico-organizzativa, accelerata dai processi di globalizzazione, che ha tolto al lavoro gran parte del significato politico-simbolico e dell’importanza culturale che esso ha avuto.
Fino ad anni recenti la riconoscibilità sociale delle persone (potremmo dire la loro stessa identità pubblica e il loro stesso modo di autorappresentarsi) era collegata al lavoro e alle mansioni che svolgevano. Al lavoro erano legate anche le nostre aspettative di promozione economica e, di conseguenza, di ascesa/affermazione sociale. In molti casi il lavoro era considerato una sorta di eredità economico-sociale da tramandare di padre in figlio nel segno di una continuità che a sua volta era garanzia di stabilità. Ma con il diffondersi del precariato e della flessibilità (fenomeni certo diversi ma entrambi fonte di instabilità emotiva e materiale), con il nascere di figure professionali e competenze sempre diverse, con il contrarsi temporale dei cicli produttivi e l’accrescersi dei livelli di specializzazione, con il diffondersi di modalità organizzative che stanno rendendo sempre più obsoleto il suo esercizio nei grandi spazi collettivi del passato (dalla fabbrica all’ufficio), con la perdita di posti prodotto dall’automazione, il lavoro ha assunto connotazioni radicalmente nuove. Ha smesso di essere una fonte di sicurezza e stabilità. Tende a svolgersi in una dimensione sempre più privato-individualistica e dunque non si inquadra più in una cornice comunitaria. Da strumento di crescita sociale sembra tornato ad essere mezzo di pura sussistenza materiale, quando non di semplice sopravvivenza. Al tempo stesso, sono progressivamente venute meno o si sono significativamente indebolite, anche nelle grandi democrazie sociali del mondo occidentale, le garanzie giuridico-legali che era state messe a punto per difendere i lavoratori e valorizzarne l’impegno professionale.
Insomma, siamo nel mezzo di un cambiamento antropologico, culturale e di mentalità molto profondo che inevitabilmente è destinato a produrre conseguenze anche sulla sfera politica e sulla stessa organizzazione sociale. Viene perciò da chiedersi quanto le trasformazioni nel modo di concepire e vivere il lavoro che abbiamo rapidamente accennato siano alla base (o comunque una delle cause) della crisi che ha colpito le organizzazioni politiche tradizionali, le grandi culture politiche della modernità e i regimi democratico-pluralistici per come li abbiamo conosciuti dal secondo dopoguerra sino ad anni recenti.
L’ipotesi sulla quale forse converrebbe lavorare è quanto ciò che oggi chiamiamo populismo o rivolta anti-politica sia l’effetto, a livello di opinione pubblica e di voto, dei cambiamenti sociali prodotti dalla nuova cultura del lavoro che si sta imponendo nelle società tardo- o post-moderne. La contrazione del lavoro operaio imposta dall’automazione e il conseguente venir meno della fabbrica come forma meccanizzata di organizzazione del lavoro ha infranto il sogno del comunismo, togliendogli la sua base sociale e simbolica di riferimento. La progressiva scomparsa del lavoro contadino e delle attività artigiane, entrambe spesso inserite in una cornice famigliare, ha tolto al solidarismo cristiano buona parte del suo mondo di riferimento. La delegittimazione che circonda il pubblico impiego in tutte le sue forme e la crisi delle professioni liberali tradizionali spiegano a loro volta le difficoltà dei partiti, di destra moderata-conservatrice come di sinistra socialista, che rappresentavano abitualmente questi segmenti sociali e queste peculiari mansioni professionali. E se è vero che nel frattempo sono nate, nel solco della rivoluzione informatico-digitale, forme di lavoro innovative e spesso altamente creative, è anche vero che esse sembrano esprimersi in una dimensione sostanzialmente privato-individualistico che si sottrae a qualunque forma di mediazione politica e che si fatica ad organizzare su una base collettiva.
È come se il lavoro, oltre che tendenzialmente incerto e precario, fosse anche diventato sempre più parcellizzato e anonimo. Magari altamente specializzato dal punto di vista professionale e delle competenze, ma privo di un suo riflesso pubblico-sociale. E non più in grado di soddisfare quel bisogno di riconoscibilità e di autoaffermazione, non necessariamente in una logica competitiva, che il lavoro tradizionalmente portava con sé. Le ideologie del XX secolo erano riuscite a trasformare in una forma di gratificazione sociale, alla portata di tutti, quello che per secoli era stata considerata una sorta di maledizione o necessità, ovvero un’attività talmente faticosa e avvilente da essere lasciata come incombenza agli strati più umili e politicamente meno protetti della società. Ma l’arco storico-politico che ha visto esaltare il lavoro, a partire da quello fisico e manuale, come un fattore di emancipazione individuale e collettiva, come uno strumento in grado di garantire al tempo stesso il benessere materiale della persona e la sua dignità sociale, sembra essersi esaurito.
Quali forme di lavoro, con quali modalità e con quale linguaggio, i partiti sono ancora oggi in grado di rappresentare e tutelare? Il populismo dilagante, alimentato dalla retorica del risentimento e dalla crescente paura del futuro, non è anche l’espressione di una mentalità e di una visione della società che hanno smesso di basarsi sulla centralità del lavoro e di considerarlo come un valore? La paralisi delle democrazie europee, alla quale oggi assistiamo, probabilmente sta tutta nelle mancate risposte a queste domande.
Verso le politiche del marzo 2018. Spunti dalle elezioni regionali della Sicilia e dalle municipali di Roma
Le elezioni regionali in Sicilia del 5 novembre
Le elezioni regionali siciliane del novembre 2017 erano attese dagli osservatori per diverse ragioni.
In primo luogo perché c’è chi ritiene che la Sicilia spesso anticipi tendenze politiche nazionali. Tesi non sempre suffragata dai dati reali, al punto che esiste una tesi uguale e contraria che reputa la Sicilia come un contesto sui generis e dunque poco affidabile come predittore di risultati elettorali nazionali. In secondo luogo perché tali elezioni rappresentavano il primo appuntamento elettorale importante in vista delle politiche del 2018 e potevano essere interpretate, con i dovuti caveat, come un test per le coalizioni (piuttosto instabili) di centrodestra e di centrosinistra, e per il Movimento 5 Stelle, che in questi anni è riuscito a vincere le elezioni comunali a Bagheria, Porto Empedocle, Augusta, Alcamo, Gela, Ragusa, Favara, Grammichele e Pietraperzia, e che dunque ha nella Sicilia – con il Lazio (meglio ancora, con la provincia di Roma) – la regione in cui riesce a ottenere maggiore consenso.
A differenza delle elezioni del 28 ottobre 2012, lo scorso 5 novembre il centrodestra si è presentato compatto, a sostegno di Nello Musumeci. Cinque anni fa, lo stesso Musumeci arrivò secondo, a meno di 5 punti p...
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- Numero 4 Ottobre-Dicembre 2017