Rivista di Politica 1/2018
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Werner Sombart tra spirito borghese e crisi del capitalismo

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Werner Sombart tra spirito borghese e crisi del capitalismo

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L'Italia in campagna elettorale permanente: le origini dell'antipolitica e il terremoto elettorale del 4 marzoFabio MartiniAntimachiavellismo per immagini: la 'Testina' nella storia dell'editoria europeaAlessandro CampiGli italiani e la memoria del fascismo: la nostalgia come categoria o sentimento politicoCristina BaldassiniIl caos geopolitico siriano: tra guerra civile e ambizioni di potenza regionaliRodolfo BastianelliLa sconfitta di un partito mai nato: il PD da Veltroni a RenziSofia VenturaLe "due sinistre" italiane e il vento del cambiamento: la nuova geografia politica dopo la vittoria del M5SMarco Damiani"Rivoluzione conservatrice" o "restaurazione creatrice"? Una rilettura di Hugo von HofmannsthalGianfranco Morra

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Information

CONGETTURE E CONFUTAZIONI

Una chiave interpretativa per il voto del 2018. La frattura Interno-Esterno

di Luigi Di Gregorio
Nella società istantanea, anche le analisi elettorali ormai vivono la loro horse race. A pochissimi giorni dal voto del 4 marzo, gli italiani avevano a disposizione già decine di editoriali e commenti basati sui dati del Viminale e rielaborati ad hoc dagli analisti al fine di far emergere peculiarità, costanti e tratti rilevanti delle ultime elezioni politiche.
Per tale ragione, mi concentrerò solo su alcuni aspetti specifici dell’esito elettorale, peraltro quelli ritenuti più importanti e sorprendenti (vedremo fino a che punto), anche per provare a trarre un’ipotesi esplicativa dei comportamenti di voto, a capire cioè quale sia, tra le tante, la variabile chiave di questo “terremoto” elettorale.

Il rendimento del Movimento 5 Stelle

Il Movimento 5 Stelle è sicuramente uno dei vincitori percepiti in una tornata elettorale senza vincitori reali, dato che nessuno è riuscito a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi, né alla Camera né al Senato. L’Italia si è rivelata divisa in tre, più o meno come nel 2013, ma questa volta senza i premi di maggioranza della Legge Calderoli (cd. Porcellum). Di conseguenza, come peraltro sarebbe avvenuto anche con numerose altre formule elettorali senza premio, nessuno ha davvero “vinto” le elezioni. Tuttavia, tra i non-vincitori in termini di seggi, c’è indubbiamente un vincitore in termini di voti, ossia appunto il Movimento 5 Stelle.
Strepitoso il suo rendimento nel Mezzogiorno, dove fa registrare un dato medio del 43% dei consensi alle elezioni per la Camera, ma addirittura eccezionale (nel senso che costituisce un’eccezione) la performance nazionale. Con oltre 10 milioni di voti ottenuti – 2 milioni in più rispetto alle elezioni politiche precedenti – pari al 32,7% dei voti validi, il M5S segna un record europeo: nessun nuovo partito aveva, fino ad oggi, incrementato i propri voti tra la prima e la seconda partecipazione alle elezioni (cfr. CISE-Luiss, L’avanzata del M5S: un unicum tra i nuovi partiti nella storia europea, https://cise.luiss.it/cise/2018/03/05/lavanzata-del-m5s-un-unicum-tra-i-nuovi-partiti-nella-storia-europea/, 5 marzo 2018).
La straordinaria performance al Sud ha, tra l’altro, impedito al centrodestra di ottenere la maggioranza che, come era noto fin da prima del voto, si giocava prevalentemente sui collegi uninominali da Roma in giù. E proprio da Roma in giù il M5S ha vinto 80 collegi, lasciandone al centrodestra solo 12 (7 dei quali nel Lazio). Se non consideriamo il Lazio, la forza relativa dei pentastellati al Sud diventa ancora più evidente, con 72 collegi vinti contro solo 3 ottenuti dal centrodestra.
La Circoscrizione Lazio 1 rappresenta l’unico dato anomalo in una crescita costante e netta rispetto al 2013, con incrementi che hanno raggiunto il +136% in Campania 1, come illustrato dalla Fig. 1. Lazio 1 è fondamentalmente Roma, ragion per cui c’è già chi parla di un “effetto Raggi” come fattore esplicativo del decremento di consensi in quel territorio. Più che di effetto Raggi, in realtà, sarebbe il caso di parlare di “effetto governo”, visto che è ormai evidente la difficoltà a mantenere il consenso da parte di chi affronta le responsabilità dell’esecutivo. In Italia, come in tutte le democrazie occidentali.
Ad esclusione della circoscrizione Lazio 1, tuttavia, lo tsunami tanto invocato da Grillo nel tour elettorale del 2013 è arrivato, sia pur con 5 anni di ritardo. Mai nessuno ha ottenuto un successo del genere nel Sud Italia nella storia della Repubblica, neanche il centrodestra nella vittoria netta del 2008, dato che ad esempio fu sconfitto in Basilicata, in Molise e nella circoscrizione Lazio 1.
Fig. 1 - Incremento dei voti (in%) del Movimento 5 Stelle nel Sud. Confronto tra elezioni Camera 2013 e 2018
Peraltro, le regioni meridionali hanno sempre rappresentato l’area meno prevedibile (e più decisiva) di ogni tornata elettorale, sia nella prima, sia nella seconda Repubblica: a fronte di un Nord (prima bianco, poi blu-verde) e di un Centro (rosso), il Sud ha sempre fatto registrare andamenti meno strutturati e piuttosto ondivaghi. Basti pensare che solo dieci anni fa il centrodestra raggiunse il 56,9% in Sicilia 2 e che oggi nella stessa circoscrizione si ferma al 30,7%, a fronte di un imponente 49,3% dei 5 Stelle.
Un ultimo dato ci conferma in modo lampante questo exploit. Come anticipato, il Movimento ha incrementato i propri consensi in valore assoluto di 2 milioni di voti rispetto al 2013. Ebbene, nel Meridione l’incremento è stato esattamente di 2,1 milioni. Il 56% dei voti totali al M5S sono arrivati da Roma in giù. Se nel resto d’Italia ha mantenuto i consensi di 5 anni fa, nel Mezzogiorno ha letteralmente spiccato il volo.
C’è un altro dato interessante da sottolineare. Come è noto, ragionando per categorie, si è sempre pensato che il M5S fosse svantaggiato al Senato per via dell’elettorato attivo a 25 anni e non a 18 come alla Camera. Effettivamente nel 2013 andò così: 25,6% alla Camera e 23,8% al Senato. Oggi lo scostamento tra i due dati è nettamente minore: 32,7% alla Camera e 32,2% al Senato. Neanche il gap anagrafico ha potuto rallentare lo tsunami.

Il rendimento della Lega (Nord?)

L’altro vincitore indiscusso in termini di incremento del consenso è senz’altro la Lega, terzo partito con il 17,4% dei voti, nettamente la migliore performance di sempre del Carroccio alle elezioni politiche (il record precedente era il 10,1% del 1996, quando peraltro non si alleò agli altri partiti di centrodestra e riuscì a sfruttare appieno il proprio potenziale). Al di là del record assoluto, il partito di Salvini vanta anche il maggiore incremento di consensi rispetto al 2013, quando si fermò al 4,1% e, soprattutto, sembrava ormai sulla via del tramonto.
È evidente che la riscossa sia avvenuta nel corso della “reggenza” salviniana, sia per via di una graduale personalizzazione del partito (si pensi alla sigla “Noi con Salvini” utilizzata nella prima fase di “conquista” del centro-sud, o ancora a iniziative quali “Vinci Salvini” utilizzate nell’ultima campagna elettorale), sia soprattutto a causa di un acrobatico quanto vincente riposizionamento del partito su tematiche nazionali. Nella democrazia istantanea, in cui istinti e istanti dominano su coerenza e memoria, un partito federalista, quando non secessionista, è riuscito a riposizionarsi meglio di chiunque altro su tematiche identitarie nazionali e a sfruttare la “paura liquida” globalizzata in chiave appunto anti-globale. Tornerò su questo fenomeno nel paragrafo finale.
Per comprendere la portata della “nazionalizzazione” della Lega, basti pensare che nel 2013 aveva ottenuto circa 27 mila voti da Roma in giù, pari al 2% dei voti totali conseguiti, mentre lo scorso 4 marzo ha ottenuto ben 973 mila voti nel Mezzogiorno, pari al 17% dei voti nazionali. Quasi un elettore su cinque della Lega risiede a Sud di Roma.
L’abilità ulteriore di Matteo Salvini, in questa strategia di riposizionamento, è stata quella di “sfilare” tematiche naturalmente e tradizionalmente vicine a Fratelli d’Italia e di porsi come leader (e partito) più credibile nel proporle. Il raffronto tra Lega e Fratelli d’Italia nel Mezzogiorno è addirittura impietoso: 973 mila voti contro 596 mila. Anche nel Lazio, regione di Giorgia Meloni, la Lega è risultata avanti di 126 mila voti. E addirittura lo è anche a Roma, di circa 11 mila voti, e a Latina, dove la leader di FDI era candidata nell’uninominale, di circa 18 mila voti.

Il PD e il duplice effetto Renzi

Il vero sconfitto – peraltro annunciato da tutti i sondaggi – delle elezioni del 4 marzo è il Partito Democratico, o forse dovremmo dire il Partito Democratico (Renziano), il PD(R), per usare una formula cara a Ilvo Diamanti. Per comprendere la portata dell’“effetto Renzi” basta comparare i voti assoluti del 2013 e del 2018, inserendo anche le elezioni europee del 2014 (Tab. 1 e Fig. 2).
Tab. 1 - Totale voti al PD, al M5S e alla Lega in valore assoluto. Confronto tra elezioni Camera 2013, Europee 2014 e Camera 2018
L’effetto Renzi va letto in due direzioni. La prima (fase ascendente) è quella che porta il PD dal 25% delle elezioni politiche del 2013 al famoso 40% delle europee dell’anno successivo. La seconda (fase discendente) è quella che, di fatto, dilapida quel capitale di voti nel giro di meno di 4 anni: dal 40,8% al 18,7% dell’ultima tornata elettorale.
Pare evidente che la personalizzazione dirompente di Matteo Renzi abbia seguito perfettamente la parabola delle «leadership esplosive» contemporanee: grande presa e notevole consenso iniziale seguito da un crollo nel giro di pochi anni dovuto all’esperienza di governo. Per dirla con George Steiner, «massimo impatto e istantanea obsolescenza». Quanto più un personaggio politico riesce a infiammare gli animi, a generare aspettative, a creare engagement emotivo, tanto prima verrà «cestinato» perché non sarà in grado di mantenere quel livello di «temperatura emozionale».
Fig. 2 - Andamento dei voti in valore assoluto del PD, del M5S e della Lega. Elezioni Camera 2013, Europee 2014 e Camera 2018
Renzi ha cavalcato le caratteristiche tipiche della società dei consumi, ci ha sovraeccitato a colpi di selfie, Leopolde, annunci, tweet, high five, fotonotizie, pseudo-eventi, storytelling, presenze mirate nei programmi televisivi pop, individuando tutte le parole chiave (giovani, donne, rottamazione…) e i nemici da abbattere (sindacati, pubblico impiego, RAI, Regioni, auto blu, finanziamento pubblico ai partiti…) sintonici col “mercato” elettorale.Nessuno come lui è stato in grado di interpretare quel mood e di vincere grazie alla sua empatia con i cittadini dell’ipermodernità. Poi però, una volta al governo, i nemici “pubblici” utili al racconto diminuiscono e aumentano gli avversari che possono trasformarti in nemico. Le buone notizie non fanno notizia, quelle negative si. Il sistema della «cerimonia cannibale» (cfr. C. Salmon, La politica nell’era dello storytelling, Fazi Editore, Roma, 2014) fa il suo dovere, triturando ogni nuova leadership e in un tempo direttamente proporzionale al consenso/eccitazione iniziale. Un fenomeno peraltro non solo italiano.
Rivolgendo l’attenzione sul rendimento del PD alle elezioni del 4 marzo, è stato messo in luce da diverse analisi che la “zona rossa” praticamente non esiste più, o quantomeno si è parecchio ridotta; e che il miglior rendimento del PD è confinato nelle grandi città e in particolar modo nei centri storici. Dal che se ne deduce (cfr. L. De Sio, Il ritorno del partito di classe, ma al contrario, https://cise.luiss.it/cise/2018/03/06/il-ritorno-del-voto-di-classe-ma-al-contrario-ovvero-se-il-pd-e-il-partito-delle-elite/, 6 marzo 2018) che il più grande partito della sinistra è diventato il maggior rappresentante della frattura di classe al contrario. I territori col più alto tasso di disoccupazione e col più basso livello di reddito hanno premiato il Movimento 5 Stelle, mentre le zone col livello di reddito più alto si sono rivelate le uniche nelle quali il Partito Democratico è riuscito a ottenere buone performance.
Anche questa, tuttavia, non costituisce né una novità, né una specificità italiana, come illustrerò nel paragrafo che segue.

La nuova linea di frattura globale: Interno-Esterno

Dal Referendum sulla Brexit in poi, passando per le elezioni presidenziali americane e per quelle francesi (Fig. 3), è tornata in auge la frattura sociale “città-campagna”, originariamente individuata e descritta da Lipset e Rokkan (cfr. S. M. Lipset e S. Rokkan, Party systems and voter alignments: cross-national perspectives, Free Press, 1967). Diversi analisti e commentatori hanno interpretato anche l’ultima performance del PD nelle città – e, di converso, soprattutto della Lega fuori dai grandi centri urbani – come un “riacutizzarsi” di quella linea di frattura, un suo prepotente ritorno.
A prima vista sembrerebbe così, ma guardando più in profondità il fenomeno e con le dovute attenzioni ai mutamenti storici intercorsi, verosimilmente si tratta di qualcosa di diverso.
In primo luogo, occorre ricordare che il cleavage città-campagna è legato a...

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  1. Rivista di Politica Gennaio-Marzo 2018
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  4. Numero 1 Gennaio-Marzo 2018