Oro e piombo
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Il mercato della Grande guerra. Pubblicità, cinema, propaganda. 1914-1918

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Il mercato della Grande guerra. Pubblicità, cinema, propaganda. 1914-1918

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Nella prima Guerra mondiale, la propaganda che aveva il compito di mobilitare le masse trasse spunto dalla pubblicità e la pubblicità sfruttò il conflitto per vendere al meglio le merci, diventando al contempo parte integrante della comunicazione bellica. In definitiva la pubblicità si trasformava in propaganda così come la propaganda utilizzava la pubblicità: un intreccio diabolico costruito per vendere sia le merci che la guerra. Incuranti del massacro, della violenza, dei sacrifici che milioni di uomini erano costretti a subire, le aziende del fronte interno sfruttavano l'evento per aumentare i loro profitti: il patriottismo degli affari non aveva alcun pudore. Lo Stato divenne onnipresente nella vita sociale, e il marketing patriottico collaborò traendo profitto dalla guerra delle immagini. È in questo tragico contesto che nasce la moderna fabbrica del consenso.

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Information

I soldati testimonial

Illustration
“Business is Business”, the Little Man Said
“A battle where ‘everything goes’[...]”
Berton Braley, “The Trade Builder”
La propaganda occultava la realtà della guerra per costruire il consenso e rendere il conflitto accettabile mimetizzandolo nelle pieghe della retorica patriottica, dell’odio quasi razziale per il nemico, dell’edulcorazione della violenza: era il suo compito istituzionale. Ma è la comunicazione commerciale, il corporate war advertising, molto più che la propaganda a far affiorare con spudorata evidenza e con cinico candore il profondo meccanismo della contemporaneità dove tutto, morte compresa, è circolazione della merce. Non ci deve stupire se la guerre fait vendre! e se le aziende sfruttano le opportunità offerte dal conflitto per allargare il proprio mercato contribuendo contemporaneamente a consolidare la stessa propaganda bellica: la ricerca del profitto non è legata a un orizzonte etico. Paradigmatica è l’affermazione di un broker newyorkese che, mentre nel 2001 le Twin Towers stavano crollando, negli uffici di Wall Street si esultava perché le azioni dell’oro sarebbero cresciute enormemente. I conflitti sembrano configurare un terreno fertile per il sistema di produzione (e distruzione) delle merci, e l’advertising e, in generale, la comunicazione ne sono il fertilizzante. «La guerra è stata vinta grazie alla pubblicità, oltre che dai soldati e dalle munizioni»62, si legge tre giorni dopo l’armistizio in «Printers’Ink», trade magazine per pubblicitari fondato da George P. Rowell. Il connubio tra le due forme di comunicazione, commerciale e di propaganda, è percepito subito dal sistema di potere come elemento necessario alle dinamiche del consenso. Nel marzo del 1918, Guy Emerson, vice presidente della National Bank of Commerce di New York, si dichiarò fortemente colpito dallo «spettacolo di una grande nazione che acconsente a una legge contraria alle tradizioni stabilite della nazione – la leva militare – e senza la pubblicità e la propaganda questo sarebbe stato inconcepibile»63. Leo Simonson, in un articolo nella «New Republic» del 1917, sosteneva che «una nazione è costretta a fare propaganda se vuole conseguire la vittoria nel reclutamento, così come un’azienda deve fare pubblicità se vuole conquistare acquirenti»64.
La comunicazione commerciale e quella istituzionale lavorarono assieme per reclamizzare la guerra in una prossimità inquietante non solo di stili ma anche di uomini, perché erano gli stessi pubblicitari a realizzare la propaganda: si vendevano la guerra e le merci con la stessa mentalità e le medesime pratiche comunicative. È difficile vedere in questo processo il meccanismo che Jackson Lears definisce “le nuove basi della civiltà” considerandolo un fattore positivo, un “esercizio di democratica ingegneria sociale”65, e non, al contrario, l’elaborata dimensione di imposizione sociale che si andava costruendo. La pubblicità bellico-commerciale è molto più rivelatrice del sistema di coercizione delle pratiche istituzionali poiché svela il meccanismo profondo della società contemporanea: in definitiva, quel che avvertiamo come forma di cinica impudenza non è altro che l’indiretta sanzione della struttura del presente.
L’interdipendenza del sistema dei media in un sistema sociale, politico, ed economico a sua volta interdipendente si era resa necessaria per costruire quella che nel 1920 Luther Gulick definiva la corporate conscience, la coscienza commerciale dei cittadini-acquirenti, diventata indispensabile per vivere la complessità della vita moderna66. Bisognava creare un’ingegneria sociale, un metodo «per far fare alle masse quello che vogliono fare e ciò che devono fare», per avere soldati proni all’obbedienza, cittadini leali allo Stato, e passivi acquirenti. La réclame è di questa ingegneria il nuovo elemento portante, e non a caso i pubblicitari si consideravano i cheer leaders, i sostenitori della nazione, come si auto definì nel 1918 il presidente della Eastman Kodak, perché «in grado di chiedere alla gente di dare i loro soldi, il loro confort, i loro figli»67.
La pubblicità, definita the hope of the Progressive Era68, divenne propaganda in un connubio pericoloso ma indispensabile per governare il nuovo soggetto antropologico del Novecento: la massa. «Gli antichi re e l’aristocrazia sono scomparsi – si legge in un editoriale del «Collier’s Weekly» – Nel nuovo ordine sociale sono le masse i padroni. Non poche persone, ma milioni e centinaia di milioni di persone devono essere persuase. In pace e in guerra, per tutti i possibili scopi, la pubblicità deve consegnare il suo messaggio al nuovo re: il popolo. La pubblicità è il re dei messaggeri della democrazia economica. Inconsapevolmente una nuova forza è stata lasciata libera di agire in tutto il mondo. Coloro che lo hanno capito avranno le chiavi del futuro»69. Per i think tank statunitensi la parola chiave era standardization, la standardizzazione della produzione, delle merci e delle menti: «La pubblicità è la più potente forza per la standardizzazione che mai è stata usata negli affari – si legge nella rubrica “Business in war time” nel luglio del 1918 – Essa può influenzare praticamente ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, e per queste ragioni la pubblicità è essenziale in tempo di guerra»70.
L’abbinamento pubblicitario di conflitto e merci, l’utilizzo spregiudicato della guerra per aumentare le vendite, fu realizzato con diverse strategie comunicative: il patriottismo, il sacrificio, l’ironia, la colpevolizzazione, la doctrine of morale, come veniva definita nel 1918 da Annie Payson Call71. Un famoso esempio di inserzione commerciale “morale”, che univa sentimento patriottico e sacrificio simulato, è della Coca-Cola. Nel 1918, nei maggiori quotidiani statunitensi, appare il messaggio “etico” della bevanda: in primo piano una mano con un bicchiere di Coke che si proietta come ombra della torcia della statua della Libertà; la caption della pubblicità spiega che, dopo l’entrata in guerra, i mercati internazionali si sono circoscritti (e così anche i profitti), ma la multinazionale dichiara di accettare il dovere dettato dai tempi e dal governo come un privilegio72. Insomma: la guerra ha ridotto le vendite, ma la battaglia per la libertà e la democrazia è un obbligo morale a cui non ci si può sottrarre, e con un sottofondo di dispiacere per i bilanci più magri, la Coca-Cola dichiara di inalberare la bandiera a stelle e strisce. Il problema era anche lo zucchero, dolcificante essenziale per la bevanda, che il governo americano aveva razionato. La compagnia chiese pazienza ai consumatori per il minor quantitativo di zucchero contenuto nello sciroppo, dichiarando che si trattava di una patriottica necessità imposta dai tempi bellici: il sugar enlists for war73, la pubblicità aveva trasformato il problema in un atteggiamento etico («We are made our sacrifice for war»). Le inserzioni commerciali usavano anche modalità educativo-pedagogiche nelle quali i pubblicitari “insegnavano” come avere cura dei propri cari al fronte, come affrontare i danni e le restrizioni belliche, come vestirsi e cosa mangiare per risparmiare comprando; in definitiva: se la guerra creava complicazioni l’industria dichiarava di risolverle brillantemente; il messaggio è chiaro: non abbiate paura vi mostriamo noi come fare e soprattutto cosa acquistare.
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Un jolly time

Già dal 1914, il poilu, il tommy, il fante, sono utilizzati nel ruolo di testimonial dei prodotti senza alcuna remora etica perché in grado di far leva sulle emozioni dettate dall’evento e quindi elementi perfettamente funzionali. Poco importava se le merci che erano chiamati involontariamente a reclamizzare avessero o meno una qualche relazione con le necessità del fronte o fossero, al contrario, palesemente insensate nelle condizioni in cui i soldati si trovavano a dover vivere: ciò che contava era abbinare direttamente o indirettamente il teatro bellico e il prodotto dandone una patina di patriottismo, di efficienza tecnologica, di modernità. Molte merci erano sicuramente utilizzate per la sopravvivenza quotidiana al fronte, ma non sarebbe servita la pubblicità per venderle: erano acquisti istituzionali decisi dagli alti comandi militari74. I soldati pertanto non erano gli interlocutori privilegiati delle inserzioni commerciali, semmai il vero target erano le famiglie, alle quali si chiedeva di inviare una particolare penna stilografica, guanti per ripararsi dal freddo, sigarette, alcolici, lucidi da scarpe, macchine fotografiche, gomme da masticare, impermeabili speciali, dentifrici, saponi, ecc. È probabile che alcuni di questi articoli venissero anche inviati ai soldati, ma è al consumo civile che mira la pubblicità, e ciò sembra provato dalla siderale lontananza tra la realtà della vita delle trincee e la tipologia delle merci che venivano promosse come indispensabili ai soldati. Forse erano merci lontane anche dalle necessità quotidiane delle stesse popolazioni europee ridotte alla fame e a risparmiare su tutto, candele di Natale comprese: «Data la scarsità di grasso, sapone e candele – si legge in un articolo del «Vossische Zeitung» nel 1916 – quest’anno si invita calorosamente a una limitazione volontaria nell’uso delle candele di Natale. La cosa migliore sarebbe che su ogni albero di Natale fosse accesa una sola candela»75. In una situazione simile è difficile capire a chi ci si rivolgesse, ma evidentemente un mercato esisteva e bisognava allargarlo. Un mercato nel quale difficilmente facevano parte le truppe.
I soldati coabitavano stabilmente con la fame, la sete, le cimici, i topi, le mosche, definite da Carlo Emilio Gadda nel suo diario «fra le più puttane troie […] merdose porche ladre e boje forme del creato»76, ma anche con una montagna di escrementi, la “piccola guerra” come la chiamava Blaise Cendrars77, assieme a pallottole e shrapnel devastanti. In questa tragica situazione sembra irragionevole che essi non potessero combattere senza possedere un grammofono portatile. Definito nella pubblicità «ideale per il servizio attivo», esso permetteva ai soldati di sentire «musica ovunque essi vadano!», perché ciò di cui le truppe avevano necessità erano principalmente «il divertimento e lo svago». Sembra ora paradossale, ma, a quanto pare, allora non troppo. Nel 1912 la Decca aveva realizzato il primo grammofono portatile, oggetto costoso78, ma abbordabile per un ufficiale britannico, e presenti negli ospedali di retrovia, nei centri Y.M.C.A79., e qualche volta negli acquartieramenti lontani dalle prime linee. Nel numero dell’ottobre 1917 di «Sketch» appare un’inserzione con l’immagine grafica di un gruppo di ufficiali inglesi che riposano in un ricovero di prima linea ascoltando tranquillamente musica: «Per un po’ di tempo dimenticano la guerra, scordano l’ambiente e i disagi, come se fossero di nuovo in una sala da concerto». Nel quotidiano «Evening Standard»80, un lettore si dice disposto a regalarlo a un ufficiale che aveva a sua volta scritto al giornale lamentando che «i maledetti Huns» avevano rubato il suo grammofono durante la battaglia sulla Somme del 21 marzo 1918 (Operation Michael, ma non è possibile stabilire se effettivamente la lettera sia autentica). La Decca ne approfitta subito e sfrutta la frase dell’ufficiale, «The cussed Huns have got my gramophone!», assieme al ritaglio della lettera del generoso lettore81, costruendo un’inserzione che ebbe un notevole successo82: un ufficiale inglese, pugno minaccioso verso il nemico, protesta per esser stato derubato del prezioso oggetto dai “maledetti” nemici (poco importa che in quel giorno siano anche morti settemila tommies e 21mila fatti prigionieri). La soluzione? Comprarne uno nuovo, ovviamente Decca, the ideal gramophone for Active Service.
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Se non si hanno...

Table of contents

  1. Oro e Piombo. Il marketing della vita moderna
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Oro & Piombo
  5. Il marketing della vita moderna
  6. I soldati testimonial
  7. Donne in guerra e soldatini di piombo
  8. Stili di vita e crediti di guerra
  9. Le icone seriali del Novecento
  10. Note
  11. Bibliografia