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Rivista di Politica 3/2015
Il potere del sangue. La politica come affare di famiglia
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Il potere del sangue. La politica come affare di famiglia
About this book
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Information

CONGETTURE E CONFUTAZIONI
Tangentopoli
in prospettiva storica
(con l’aiuto della fiction)
La fiction 1992 – trasmessa sul circuito Sky nel marzo 2015 – non poteva che rispettare una delle regole fondamentali della narrazione popolare, la contrapposizione tra heroes and villains, tra buoni e cattivi, i magistrati contro i politici, solleticando quel populismo di cui le reti di Murdoch, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, si fanno spesso portatrici. Ha però colto un nucleo di verità storica: ci ricorda che, a distruggere il sistema dei partiti, se non furono solo i giudici, furono soprattutto loro.
Qualcosa che la storiografia, rara e alquanto silente, sembra aver dimenticato. Se, nella pigra e conformistica mentalità dello storico accademico medio italiano, ventitré anni sono ancora pochi, e se è pur vero che non si dispongono di carte d’archivio, lo scarso interesse degli storici sul quel periodo rivela qualche cosa di più. Mostra un’incomprensione grave del turning point radicale che quegli eventi hanno rappresentato. Larga parte degli storici in età matura, cresciuti con il marxismo e con l’idea della superiorità etica della politica, faticano infatti ad ammettere che il crollo della Repubblica dei partiti non sia avvenuta per mano della classe operaia, delle “masse” e della politica, ma per un concorso di forze impersonali e personali, tra cui in primo piano vi è stata la magistratura.
Da qui la necessità di rimuovere il ruolo esercitato dai giudici. Tale rimozione ha enfatizzato gli effetti dei processi impersonali, economici, politico-internazionali, sociali, lasciando all’operato della magistratura il semplice ruolo di pistolettata di Sarajevo. Della funzione della magistratura si è fornita così una lettura puramente tautologica, essenzialistica e burocratica: poiché i reati esistevano la magistratura non avrebbe fatto altro che il proprio dovere. Una beata ingenuità, di cui uno storico per mestiere dovrebbe essere immune, che non ha impedito tuttavia di caricare l’operato dei giudici di significati anche morali e palingenetici. L’imbarazzo è comprensibile. È tuttavia venuto il momento di interrogarsi seriamente, da un punto di vista storico, sul ruolo dei giudici nell’abbattimento del sistema politico repubblicano: è il tema della seconda parte di questo intervento, mentre la prima sarà dedicata a una rapida messa a fuoco delle interpretazioni di Tangentopoli.
* * *
I lavori storici su quel momento storico sono non solo scarsi, ma prevalentemente narrativi e poco interpretativi, vuoi perché si tratta di sintesi su periodi più vasti, vuoi perché la pregnanza degli eventi ha portato inevitabilmente a privilegiare il racconto. Senza poter entrare nella complessa questione del rapporto tra narrare e interpretare, ogni messa in intreccio ha tuttavia dietro di se un’interpretazione, che emerge da come lo storico dispone i personaggi e le storie. La lettura prevalente su Mani pulite è quella che potremmo dire del châtiment: il 1992-1994 è il prevedibile, scontato e meritato castigo delle colpe della classe politica e del paese nel suo complesso. Così come per i controrivoluzionari il 1789 fu la meritata punizione imposta da Dio alla Francia miscredente di Luigi XVI, così Tangentopoli sarebbe il necessario sbocco di un paese caratterizzato da “familismo amorale” e più in generale da scarsa tenuta etica. Il paradigma del “familismo amorale” predomina nella letteratura britannica sull’Italia di questo periodo, di cui il più noto esponente è Paul Ginsborg. Nel suo Italia del tempo presente, uscito da Einaudi solo pochi anni dopo Tangentopoli, nel 1998, la magistratura diventa quindi portatrice di istanze di giustizia, popolata com’è da individui eccezionali: Borrelli, allievo di Piero Calamandrei dotato di una «volontà d’acciaio», Colombo «intrepido e integerrimo intellettuale urbano», Di Pietro, contadino che «ha studiato la notte per diventare magistrato». Il pool, «una squadra formidabile», ha ingaggiato una «titanica lotta per riportare la vita pubblica italiana alla legalità», con l’«umanità travolgente» di Di Pietro, evidente nella «abilità negli interrogatori» (pp. 482-484) Sembra la sceneggiatura di 1992 invece è un saggio storico: nessun dubbio muovono all’autore i suicidi degli indagati e i nessi con i metodi adottati dagli interrogatori di “calda umanità”. Nonostante Ginsborg descriva i giudici come soldati della moralità, la sua interpretazione rimane tuttavia essenzialistica e tautologica: i reati esistevano, i magistrati hanno agito.
Quasi un quindicennio dopo, e le disillusioni provocate dall’entrata in politica di alcuni di questi magistrati, come Antonio Di Pietro, Guido Crainz non può che tracciare un ritratto più inquieto della marcia trionfale delle toghe (Il paese reale, Donzelli, 2012). Per quanto Crainz avanzi ancor meno di Ginsborg sul terreno ermeneutico, quello che pensa lo si deduce dall’incastro delle numerose citazioni da articoli di giornale, soprattutto di «Repubblica». Anche in Crainz infatti prevale l’idea che Tangentopoli fosse un esito annunciato, anche se «imprevisto», di un quarantennio di storia repubblica, la meritata fine di una storia oscura e fallimentare. Nel 2012 tuttavia, il crollo del regime dei partiti non è però più accolto, alla Ginsborg, come inizio di una nuova era felice ma come una «catastrofe morale» (p. 295). E se quella dei suicidi è anche per Crainz come per Ginsborg una tragedia personale – e non invece la possibile conseguenza dei metodi investigativi fondati sull’uso della detenzione a fine di confessione – nelle pagine dello storico si trovano persino accenti critici sulle manifestazioni popolari a sostegno delle toghe. In Crainz, ancora più che in Ginsborg, prevale poi il sempiterno topos della “rivoluzione mancata”, che ha generato quello che, agli occhi dei due storici, è stato un rimedio assai peggiore del male: Silvio Berlusconi.
Crainz non arriva certo a suggerire che la magistratura sia stata l’apprendista stregone del Cavaliere: anche qui, le toghe non avrebbe fatto che il proprio dovere. Non a caso, rispetto alla narrazione di Ginsborg, i giudici passano in Crainz in secondo piano. Una tendenza, quella di far sparire dal proscenio uno degli attori principali della “rivoluzione”, che sembra accentuarsi con gli anni, se in una recente sintesi di Alberto De Bernardi sull’Italia dagli anni Ottanta a oggi (Un paese in bilico, Laterza, 2014) non compare mai la magistratura e Tangentopoli, novella invasione degli Iksos, sembra venuta da fuori, dagli effetti meccanici dei mutamenti economici e delle relazioni internazionali.
Le toghe come convitati di pietra? Sembrerebbe di si, e l’impressione è confermata anche dai lavori dedicati espressamente alla magistratura Un rimando fugace a Tangentopoli nel saggio di un magistrato (futuro capo della procura milanese) Edmondo Bruti Liberati nella collettanea Storia dell’Italia repubblicana Einaudi uscita nel 1997 e addirittura solo un rapidissimo accenno alla «legittimazione concorrente» della classe politica acquisita dalle procure dopo Tangentopoli, nella pur ricca e valida storia della magistratura di Antonella Meniconi (il Mulino, 2014).
Gli autori citati, in un modo o nell’altro, appartengono a una cultura storiografica vicina al mondo “progressista”, ex o post comunista, che, almeno nell’immediato, ha tratto maggior vantaggio dalla distruzione della classe politica di governo da parte della magistratura. Non a caso altre culture storiografiche dimostrano minori remore a fare emergere il ruolo attivo delle procure: per Simona Colarizi, ad esempio, l’azione dei giudici è stata «deflagrante», soprattutto nel suo intreccio con la «piazza mediatica convertita in tribunale del popolo» (Politica e antipolitica dalla Prima alla Seconda Repubblica in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, a cura di S. Colarizi-A, Giovagnoli-P. Pombeni, Carocci, 2014, pp. 338-339). E tuttavia si tratta solo di un accenno: per ricostruire, anche sul piano fattuale, il ruolo esercitato dalla magistratura e i suoi rapporti con alcune forze politiche, finiscono per essere assai più utili i giornalisti, da quelli direttamente apologetici delle toghe come Marco Travaglio, Gianni Barbacetto e Peter Gomez, a quelli esplicitamente indirizzati contro il pool, come Filippo Facci e Giancarlo Lehner. Un libro scritto da un altro giornalista, Eutanasia di un potere (Laterza, 2012) di Marco Damilano, ricco anche di rilevi critici nei confronti del ruolo della magistratura, è in tal senso il testo più riuscito, almeno sul piano della narrazione, della stagione di Tangentopoli.
* * *
Eppure basta leggere con attenzione un “pamphlet”, come lo chiamò l’autore, in realtà una delle interpretazioni più profonde e penetranti della crisi di Tangentopoli, La Grande Slavina, (Marsilio, 1993) di Luciano Cafagna, in cui lo storico presentava Tangentopoli sì come conseguenza di mutamenti economici, politico-internazionali e sociali, ben conscio però che a decapitare il sistema fosse stata la magistratura, con «una vera e propria guerra civile fra i poteri dello Stato», non certo destinata a finire a breve e a comando. Del resto, il ruolo e le funzioni dei giudici stavano mutando con una progressiva invadenza della magistratura e più in generale delle istanze giuridiche sugli spazi decisionali fino a quel momento riservati alla politica. Lo colse già, a pochi anni da Tangentopoli, Alessandro Pizzorno: la magistratura si trovava ormai ad esercitare un «controllo di virtù» sul comportamento dei politici, un ruolo svolto in precedenza, nel regime rappresentativo, da «un partito politico sull’altro» ma ora demandato dalla politica ai giudici (Il potere dei giudici, Laterza, 1998, p, 63). Un fenomeno non certo italiano: negli stessi anni di Mani Pulite, la magistratura francese prese di mira prima i socialisti e poi, tornata al governo dopo il 1993, la destra repubblicana di Chirac. Analoghi fenomeni si diffusero in Spagna, in Belgio e persino in Germania, dove Helmut Kohl fu eliminato dalla leadership del suo partito in seguito a inchieste.
In nessun altro paese come in Italia tuttavia gli scandali portarono alla distruzione di un sistema politico. Le risposte sarebbero molte ma una deve per forza di cose riguardare la magistratura. Negli altri sistemi forse le forze politiche erano più solide, ma certo è che in nessun ordinamento come in quello italiano la magistratura gode di una così ampia autonomia che, come misero in guardia diversi costituenti (soprattutto della sinistra), avrebbe potuto, un giorno, contrapporsi, in quanto potere burocratico dello Stato, a quello legittimato dal popolo, cioè il parlamento. L’autonomia assoluta della magistratura è stata poi all’origine della sempre più ampia divisione in correnti del suo corpo, una divisione che può ben essere detta politicizzazione. Anche se le diverse correnti non facevano riferimento ai partiti politici, una di esse, Magistratura democratica, non nascondeva chiare collocazioni politiche, negli anni settanta addirittura leniniste e operaistiche (si leggano gli atti dei suoi primi congressi). Un effetto del Sessantotto, che da noi fu lungo laddove altrove fu breve. In nessun altro paese come in Italia, poi, la magistratura aveva acquisito un grado di legittimazione di fronte all’opinione pubblica così elevato. La repressione del terrorismo e della criminalità organizzata avevano portato in prima linea le toghe, che acquisirono un capitale di consenso non indifferente. A questa legittimazione simbolica delle procure concorsero le stesse forze politiche. Molto stretti e ancora tutti da studiare furono i rapporti tra il Pci e la magistratura,...
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- Numero 3 Luglio-Settembre 2015