The Theory of Monetary Integration in the Aftermath of the Greek Financial Crisis
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The Theory of Monetary Integration in the Aftermath of the Greek Financial Crisis

La teoria dell'integrazione monetaria all'indomani della crisi finanziaria greca

George S. Tavlas

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The Theory of Monetary Integration in the Aftermath of the Greek Financial Crisis

La teoria dell'integrazione monetaria all'indomani della crisi finanziaria greca

George S. Tavlas

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Cosa è andato storto in Grecia? Quali sono le implicazioni per l'Euro e per la teoria economica, in particolare per la teoria delle aree valutarie ottimali, che costituiva la base intellettuale dell'unione monetaria?Per George S. Tavlas, che in qualità di sostituto del Governatore della Banca di Grecia nel Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea ha preso parte in prima persona a tutte le principali fasi della crisi greca, quanto avvenuto nel suo Paese ha messo in evidenza il tallone d'Achille del regime di tassi di cambio fissi dell'Euro, ossia la presenza dell'azzardo morale: la convinzione che se un Paese si fosse trovato nell'incapacità di far fronte ai suoi debiti sarebbe stato soccorso dai suoi partner dell'Eurozona."La teoria dell'integrazione monetaria all'indomani della crisi finanziaria greca" è il testo della VII edizione della Lectio Marco Minghetti, tenutasi a Roma il 29 gennaio 2019. Oltre alla relazione di George S. Tavlas, il volume contiene i commenti dei due discussant Pier Carlo Padoan e Paolo Savona.Marco Minghetti (1818-1886) fu l'uomo politico che riuscì a conseguire nel 1875 il pareggio di bilancio nel nostro Paese. Alla sua memoria è dedicata questa serie di eventi che vede importanti studiosi di rango internazionale confrontarsi con i temi legati alla sostenibilità delle finanze pubblich

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Information

Publisher
IBL Libri
Year
2019
ISBN
9788864404042

La teoria dell’integrazione monetaria all’indomani della crisi finanziaria greca, di George S. Tavlas{*}

È un piacere e un onore essere invitato a tenere la Lectio Marco Minghetti. L’eredità di Marco Minghetti è saldamente associata al rigore in ambito fiscale. La sua ambizione come Ministro delle Finanze negli anni settanta dell’800 fu di raggiungere il pareggio di bilancio dopo anni di indisciplina fiscale, un’ambizione che egli ebbe modo di soddisfare. Mi sembra appropriato, dunque, che oggi il mio discorso tratti delle conseguenze distruttive degli eccessi fiscali.
Sono passati vent’anni dalla creazione dell’euro. Anche se questo anniversario verrà certamente ricordato nei salotti ufficiali, è improbabile che vi saranno particolari celebrazioni per festeggiare l’occasione. Per quanto sarà riconosciuto il fatto che l’unione monetaria è rimasta intatta durante la più profonda crisi economica dai tempi della Grande Depressione – un successo notevole – il contrasto con il 2009, che segnò il decimo anniversario dell’euro, non potrebbe essere più stridente. Durante tutto quell’anno, si tennero svariate conferenze per celebrare quello che al tempo era considerato il successo completo del più audace tentativo di sempre, da parte di Stati sovrani differenti, di sfruttare la maggiore efficienza di una moneta unica.
Dopotutto, le prove del successo dell’euro erano state sino al 2009 abbondanti. L’euro aveva creato un contesto di bassa inflazione e bassi tassi di interesse, anche per paesi storicamente ad alta inflazione, propiziando la crescita economica. Aveva favorito l’integrazione commerciale e l’integrazione dei mercati dei suoi membri, sia quello finanziario sia, sino a un certo punto, quelli del lavoro e delle materie prime. Il numero dei paesi partecipanti era salito da 11 nel 1999 a 16 nel 2009. Nonostante lo scoppio della crisi finanziaria globale nell’agosto del 2007, e la sua intensificazione un anno dopo col falli mento di Lehman Brothers, fino a quel momento l’eurozona era rimasta relativamente indenne dagli effetti della crisi.
Per aiutare la celebrazione del decimo anniversario dell’euro, a fine 2009 la Commissione Europea pubblicò un rapporto che tentava di spiegare come mai i critici della moneta unica – tra cui Milton Friedman e Martin Feldstein – avessero potuto finire così fuori strada nella loro opinione negativa riguardo alla fattibilità dell’euro. Il clima di fiducia dell’epoca è ben rappresentato da Joaquin Almunia, l’ex Commissario Europeo per gli Affari Economici e Monetari, che diceva: «Un decennio dopo che i leader europei presero la decisione di lanciare l’euro, abbiamo buone ragioni per essere orgogliosi della nostra moneta unica. L’Unione Economica e Monetaria e l’euro sono un grande successo».{9}
Durante le celebrazioni del 2009, tuttavia, in Grecia si stava propagando uno shock destinato, entro un anno, a esplodere in quello che Krugman avrebbe poi descritto come «la madre di tutti gli shock asimmetrici – uno shock che fu, con amara ironia, causato dalla creazione stessa dell’euro».{10}
La Grecia entrò nell’euro a inizio secolo, nel 2001, divenendo l’undicesimo membro dell’Unione Monetaria. Cosa andò storto in Grecia? E perché andò storto? E quali sono le implicazioni per la celebrata teoria delle aree valutarie ottimali, che costituiva la base intellettuale per l’unione monetaria?
Oggi userò il caso della crisi finanziaria greca per sottolineare quello che credo sia stato il tallone d’Achille del regime di tassi di cambio fissi dell’euro, ossia la presenza dell’azzardo morale: la convinzione che se un paese si fosse trovato in guai seri, per esempio essendo incapace di far fronte ai suoi debiti, sarebbe stato soccorso dai suoi partner dell’eurozona. Per corroborare la mia argomentazione, paragonerò gli aggiustamenti esterni nell’eurozona a quelli dei gold standard classici di fine ‘800 e inizio ‘900, il più recente dei quali fu il modello a cui la struttura dell’euro fu ispirata.
La mia presentazione si articolerà come segue: per prima cosa descriverò ciò che la letteratura economica aveva da dire riguardo alle condizioni necessarie per un’unione monetaria di successo negli anni precedenti alla creazione dell’euro. Dopodiché discuterò dei fattori che contribuirono alla crisi in Grecia e descriverò gli effetti della crisi sull’economia greca. Successivamente paragonerò gli aggiustamenti esterni sotto il regime di cambi fissi dell’euro con quelli sotto il gold standard classico. La differenza fondamentale tra i due regimi era la presenza dell’azzardo morale nell’eurozona, e la sua assenza sotto il gold standard. Infine, concluderò con alcuni insegnamenti che si possono trarre da tutto questo.
Prima di rivolgermi al tema della dissertazione, tuttavia, concedetemi una breve digressione. Permettetemi di condividere con voi un giudizio riguardo all’adeguatezza della Grecia ad entrare nell’unione monetaria europea espresso all’inizio del secolo – dunque qualche anno prima dello scoppio della crisi nel 2009 – da un famoso economista dell’Università di Chicago. Per essere chiari, io sostengo convintamente che la Grecia sia sempre stata un membro desiderabile per l’unione monetaria. Tuttavia, questo è ciò che scrisse quell’economista:
È difficile comprendere come mai l’ammissione della Grecia all’unione [monetaria] avrebbe mai dovuto essere desiderata o permessa ... In nessun senso essa era un membro desiderabile per [l’unione monetaria] . alle prese con il peso del debito . la sua adesione nominale fu assicurata ... [grazie a] influenze politiche ... Certamente sarebbe difficile comprendere su quali altre basi sia stata ottenuta la sua partecipazione.
Chi era questo chicagoan? Non si tratta né di Milton Friedman né di Robert Lucas. Lasciatemi dire, tuttavia, che c’è un trucco, perché nonostante questa persona fosse un eminente economista dell’Università di Chicago quando scrisse queste parole, nessuno qui, a parte me, ne avrà sentito parlare. Risponderò a questa domanda al termine della presentazione. Nel frattempo, vi darò un indizio riguardo alla natura di questo trucco.
Allora, concedetemi di accompagnarvi nel passato, passando in rassegna ciò che la letteratura economica aveva da dire riguardo alle condizioni necessarie per un’unione monetaria di successo agli albori dell’euro. Iniziando con l’opera di Bob Mundell sulle aree valutarie ottimali,{11} la ricerca economica aveva identificato (i) a quali condizioni le nazioni dovrebbero adottare una moneta comune e seguire una comune politica monetaria, e (ii) i costi e benefici legati alla partecipazione ad un simile accordo monetario. La letteratura identificava una serie di condizioni fondamentali che erano ritenute necessarie per l’unifica zione monetaria. Queste includevano il grado di apertura commerciale delle economie coinvolte, e, per ridurre il rischio di shock asimmetrici – caratteristiche simili delle stesse – a livello di mercato del lavoro, istituzioni, inflazione storica, livello di sviluppo economico e strutture di produzione. In modo cruciale, in assenza dello strumento del tasso di cambio, la letteratura prescriveva la necessità di meccanismi di aggiustamento alternativi – in particolare mobilità lavorativa, flessibilità di salari e prezzi e integrazione fiscale – per attenuare gli effetti degli shock asimmetrici, nel caso se ne dovessero verificare.
Era noto che i benefici di una moneta comune includessero l’eliminazione dei costi di transazione legati allo scambio di valute, l’eliminazione dell’incertezza prodotta dalla volatilità del tasso di cambio, e l’eliminazione delle svalutazioni competitive, facilitando in tal modo il commercio tra i membri. Lo svantaggio più significativo attribuito a una moneta comune era la ridotta possibilità di assorbire shock asimmetrici per via della perdita tanto (i) dell’indipendenza in politica monetaria quanto (ii) dello strumento del tasso di cambio per ripristinare il bilancio esterno. Da qui la necessità di meccanismi di aggiustamento alternativi.
Questo era lo stato dell’arte della letteratura nel 1980. Il verdetto generale era che, fatte salve circostanze piuttosto inusuali, applicabili più che altro ad economie molto piccole e aperte, i costi dell’adesione ad un’unione monetaria avrebbero probabilmente superato i benefici. Successivamente, tre eventi diedero forte sostegno all’idea che i costi di adesione ad un’unione monetaria sarebbero stati minori di quanto si pensasse in precedenza, e i benefici maggiori, portando a ritenere che la necessità di caratteristiche economiche simili e di meccanismi di aggiustamento alternativi, come l’integrazione fiscale, non fosse poi così importante.
In primo luogo, una serie di attacchi speculativi contro i regimi di cambio fissi negli anni novanta, iniziata con le valute partecipanti agli Accordi di cambio del Sistema monetario europeo nel 1992-93, poi continuata con il peso messicano nel 1994-95, le valute dell’Asia Orientale nel 1997-98, e il rublo russo e il real brasiliano al termine del decennio, persuase una parte consistente degli addetti ai lavori – inclusi economisti del FMI – della validità di quella che è chiamata «ipotesi della scomparsa dei tassi di cambio flessibili». Alla base di questa ipotesi c’era l’idea che anni di crescente integrazione dei mercati finanziari avessero reso i regimi di cambio fissi particolarmente vulnerabili agli attacchi speculativi. Di conseguenza, per i paesi ben integrati nei mercati finanziari globali c’era ben poca o addirittura nessuna possibilità di compromesso tra le posizioni estreme dei tassi di cambio fluttuanti e dell’unificazione monetaria. Se i paesi avessero voluto raccogliere i frutti della sicurezza sui tassi di cambio, avrebbero dovuto procedere con decisione in direzione dell’unificazione monetaria.
In secondo luogo, in studi separati, Frankel e Rose{12} e poi Rose,{13} diedero evidenza del fatto che l’adozione di una moneta unica porta ad un forte aumento dell’integrazione commerciale – nell’ordine del 200-300% – tra i membri dell’unione in aggiunta rispetto a quelli prodotti da tassi di cambio fissi tra valute differenti. Le conclusioni che furono tratte da queste prove erano sorprendenti. Dal momento che l’unione monetaria incoraggia l’integrazione commerciale, incoraggia dunque anche una maggior sincronia – attraverso legami commerciali più forti – dei cicli economici tra i membri dell’unione. Un corollario della maggior sincronia del ciclo economico è che l’unione monetaria stessa diminuisce la probabilità di shock asimmetrici, riducendo il vantaggio di una politica monetaria autonoma per ciascun paese.
In terzo luogo, la letteratura riguardo la credibilità delle policy, e specialmente i lavori di Barro e Gordon{14} e Giavazzi e Pagano,{15} portò all’idea che l’adesione ad un sistema di valuta unica può essere interamente motivata da un desiderio di impegnarsi in pratiche monetarie più efficienti. Di conseguenza, la perdita di controllo sulla politica monetaria nazionale potrebbe addirittura rivelarsi benefica. L’esperienza insegna infatti che i paesi con una storia di alta inflazione hanno spesso difficoltà a stabilizzare l’economia con politiche a livello nazionale, per esempio rendendo indipendente la loro banca centrale o ancorando unilateralmente la loro valuta a quella di un paese più affidabile. Tuttavia, questi hanno una possibilità notevolmente migliore di eliminare le loro tendenze inflazionistiche – quasi da un giorno all’altro – aderendo ad un’unione con un’istituzione di politica monetaria affidabile, come la BCE. Si ritiene che alcuni dei paesi che si sono uniti all’eurozona abbiano agito seguendo questa linea di pensiero.
La crisi greca
Ciò mi porta al caso di uno di quei paesi – la Grecia. In linea con le previsioni della letteratura sullo sviluppo endogeno degli scambi commerciali e sulla credibilità delle policy, ci si aspettava che l’entrata della Grecia nell’eurozona nel 2001 avrebbe segnato una trasformazione nella performance economica del paese, che durante gli anni ottanta e novanta era impantanato in tassi di inflazione a doppia cifra, tassi di crescita reale anemici, grandi squilibri fiscali e della bilancia dei pagamenti, e una serie di crisi del tasso di cambio. Ci si aspettava che l’adozione dell’euro avrebbe prodotto un ambiente con bassa inflazione e bassi tassi di interesse, propizio alla crescita economica.
Ed effettivamente è quello che accadde – almeno per un po’. Dal 2001 al 2007 l’inflazione scese sotto il 5% e la crescita reale – attorno al 4% ogni anno – era la seconda più alta d’Europa (Figura 1). E i tassi di interesse crollarono. Il differenziale tra i titoli di Stato greci e tedeschi passò dai 600 punti base di fine degli anni novanta a tra 10 e 20 punti base alcuni anni dopo che la Grecia si era unita all’euro (Figura 2). La Grecia aveva trovato la formula magica per il successo economico. O così sembrava.
Perché, sotto la superficie, venivano lasciati irrisolti diversi problemi strutturali. La crescita economica era sostenuta da un’espansione del settore pubblico e, allo stesso tempo, il paese non era competitivo sul piano internazionale. Consideriamo i seguenti sviluppi, compresi generalmente nel periodo dal 2001, anno d’entrata nell’eurozona, al 2009, anno dello scoppio della crisi:
  • Il deficit fiscale fu costantemente superiore al 5% del PIL, con un picco del 15% al termine del periodo (Figura 3).
  • L’espansione del deficit era principalmente dovuta all’incremento della spesa; la percentuale di spesa pubblica sul PIL aumentò di 8 punti – arrivando al 54%.
  • La quota del debito pubblico aumentò da meno del 100% del PIL alla fine degli anni novanta al 125% al termine del periodo (Figura 4).
  • La competitività della Grecia, misurata in termini di costi unitari del lavoro, peggiorò del 30% rispetto ai suoi maggiori partner commerciali durante quel periodo (Figura 5).
  • La perdita di competitività, insieme ai tassi di crescita relativamente alti, portarono ad un’espansione del deficit delle partite correnti. La Grecia entrò nell’eurozona c...

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