Gesù, pensaci tu
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Gesù, pensaci tu

Vita, opere, scritti & eredità spirituale di don Dolindo Ruotolo nel ricordo della nipote

Grazia Ruotolo, Luciano Regolo

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Vita, opere, scritti & eredità spirituale di don Dolindo Ruotolo nel ricordo della nipote

Grazia Ruotolo, Luciano Regolo

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La prima biografia completa di uno dei più grandi mistici della nostra epoca, il napoletano don Dolindo Ruotolo (1882-1970). Un volume che resterà punto di riferimento, poiché fondato sulla testimonianza e i documenti anche fotografici originali in possesso della nipote Grazia, oggi ultranovantenne, che ha voluto condividere l'immenso lascito esistenziale e spirituale dello zio con il giornalista Luciano Regolo.Sacerdote, esorcista, ora servo di Dio di cui è in corso la causa di canonizzazione, don Dolindo fin da giovane ha intessuto dialoghi con il Cielo, in particolare con il Signore Gesù, la Madonna ma anche l'angelo custode e santa Gemma Galgani. La sua figura è legata a quella di Padre Pio, con cui era in contatto spirituale, e con cui condivise la salute sempre provata; fenomeni mistici come le bilocazioni, gli scontri notturni con il demonio; e l'obbedienza serena all'autorità della Chiesa nei tempi del più freddo discernimento. Nel 1965 predisse, con 13 anni di anticipo, l'elezione di Giovanni Paolo II. Questi doni soprannaturali erano il frutto dell'adorazione, della preghiera contemplativa, delle mortificazioni mediante le quali il mistico si preparava all'incontro con i fedeli che lo assediavano per ascoltare le sue prediche, confessarsi, chiedere intercessioni e consigli. Teologo e apologeta, scrisse molte opere fra cui spiccano un Commento alla Sacra Scrittura in 33 volumi, ma anche le migliaia di semplici messaggi, aforismi e le devozioni cristiane che gli venivano dettate nelle locuzioni interiori e che trascriveva sulle immaginette che donava a tutti come sostegno nella fede. Il suo primo insegnamento è stato di vivere guardando sempre a Gesù, nella certezza che in ogni circostanza, anche la più difficile e dolorosa, se ci affidiamo a Lui, la nostra vita volgerà al bene.

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Information

Publisher
Ares
Year
2020
ISBN
9788892980020

1

Un santo in famiglia:

ricordi belli & dolcissimi

È difficile dire quale sia la prima immagine di don Dolindo impressa nella mia memoria, poiché fin da piccola vedevo questo sacerdote che veniva a trovarci. Sono tutti ricordi bellissimi e dolcissimi.
Don Dolindo e mio padre Umberto erano figli di due fratelli, Raffaele e Michele Ruotolo. La loro famiglia veniva da Casalnuovo. Il padre, Gregorio, era abile nella sartoria e, con gli anni, aveva creato un’attività nel campo tessile. Mio nonno, mentre la moglie Angelina seguiva i figli, si occupava di un grosso stabilimento; il padre di don Dolindo, Raffaele, invece, si era laureato prima in Matematica e poi in Ingegneria. Si era sposato con Silvia Valle, di un casato d’antica nobiltà borbonica, senza più grandi risorse economiche, sorella di Tommaso, un suo compagno di studi all’università.
Dalla loro unione nacquero ben undici figli: Maria, Giuseppina, morta di pochi mesi, Cristina, Elio, Dolindo, Bianca, Ausilio, Natalia e Consilia (gemelle, scomparse la prima a tre mesi e mezzo, la seconda a diciotto mesi), Emma ed Eucario. Dolindo, che era il quintogenito, ebbe un’infanzia veramente difficile, perché alle condizioni non certo agiate si univa la parsimonia del suo papà, quasi maniacale, che rendeva la miseria quotidiana ancora più dura.
Mi ha sempre colpito sentire parlare dell’infanzia di quest’uomo, trascorsa in una povertà estrema e influenzata dalla grande severità del padre, il quale per punirlo, anche senza ragione, spesso lo chiudeva in una carbonaia dove gatti e topi si rincorrevano. Lui, però, non si lamentava: «Avevo tanta paura», confidava al mio papà, «nello stesso tempo m’inginocchiavo e lodavo Dio».
Il padre gli metteva in mano il vocabolario e gli ordinava di imparare senza farlo andare a scuola. E quando non era soddisfatto dei risultati lo bastonava con il finocchietto, una piccola verga che si usava a quel tempo per sturare i lavandini. Eppure lo zio non ha mai portato rancore, anzi quando Raffaele fu colpito da un ictus, lo assistette con ogni premura e il padre gli chiese perdono per la sua severità: «Con te sono stato terribile, non so perché». Parole che lasciano supporre l’agire di una forza superiore. Lo zio si era convinto che anche questa durezza facesse parte dei piani del Signore su di lui: Dio l’aveva permessa per il fiorire della sua anima.
Don Dolindo era nato santo, non ebbe mai una vita del tutto terrena. Quando, da piccolo, la sua mamma si alzava col buio, alle 4 del mattino, per andare alla Messa delle 5, era l’unico di tutti i numerosi figli che la seguiva in cucina e le stava accanto mentre lei preparava il caffè, pregando. Poi la seguiva sino alla porta. Lei lo baciava e andava in chiesa. Lui la aspettava. Al rientro, la madre lo prendeva in braccio e, poiché aveva appena ricevuto l’Eucaristia, gli alitava in bocca, come per soffiargli l’amore di Gesù. E il piccolo rideva felice, elettrizzato. Lui stesso ha scritto, ricordando quei momenti della prima infanzia: «La mia testa non arrivava a superare l’altezza del focolare. Ricordo che, avendo soli tre o quattro anni al più, stando in piedi e poggiato sulle ginocchia materne, le dicevo: “Io sarò sacerdote”». Questo fu da subito il suo desiderio ardente.
Donna Silvia, la mamma di don Dolindo, fu una figura decisiva nella sua formazione spirituale e forgiò i figli in quell’ideale di santità che ispirava la sua stessa vita. Li educò soprattutto a cogliere e rispettare negli eventi la volontà di Dio, del «Padrone», come diceva lei.
Ecco perché a don Dolindo venne quasi spontaneo cogliere nella grandissima severità del papà, per molti aspetti crudele, un mezzo di espiazione e un’opportunità di salvezza. E con questo stesso atteggiamento affronterà tutte le ingiuste accuse e punizioni che subirà da parte del Sant’Uffizio. Quando cominciarono le tribolazioni con le autorità ecclesiastiche accadde un episodio che mette in luce l’intimità e l’armonia interiore di Dolindo con la sua mamma, cui dava del Lei, come si usava allora. Era inferma e lui andò a trovarla, come riferisce nell’autobiografia: «Le raccomandai di non turbarsi per me, perché il Signore mi dava la forza di soffrire. “Le due vittime”, le dissi, “siamo lei e io, cara mamma mia...”, e il pianto mi troncò la parola in gola. Mia madre mi rispose: “Tu hai operato per Dio, figlio mio: chi sa quale grande disegno c’è sotto questa tribolazione e questa tempesta. Sia fatta la volontà di Dio!”».
Già in tenera età don Dolindo mostrò un naturale trasporto per la penitenza: prendeva spesso, di sua volontà, il chinino, nonostante il disgustoso e amaro sapore lo rendesse detestabile per tutti i bambini e nel 1891, ad appena 9 anni, si era fatto con sterpi spinosi un cilicio rudimentale col quale graffiarsi e offrire il bruciore a Gesù, in riparazione dei peccati del mondo. Il 20 agosto 1896, a 14 anni, fece atto di completo affidamento a Dio perché ne disponesse a suo piacimento. Il suo fermo desiderio fu fin d’allora di ottenere l’annullamento della propria volontà perché fosse fatta quella del Signore attraverso di lui. A tal fine accettava il dolore e domandava amore: con il dolore e l’umiltà ci si avvicina al grande mistero della misericordia di Dio. Molte di queste cose io le ho apprese da papà il quale, dopo aver riferito certi aneddoti, concludeva sempre dicendo: «Ecco, questo è Dolindo, che anima!».
E mia mamma gli dava manforte, anzi rincarava la dose; quando parlava di mio zio con papà davanti a noi figli, ripeteva sempre: «Umberto, don Dolindo è un santo, veramente un santo».
L’accettazione serena se non addirittura gioiosa della sofferenza fu un tratto molto forte dello zio e una delle prime cose che me ne fecero comprendere la straordinarietà.
Anche la severità perlopiù immotivata del padre da bambino l’aveva affrontata quotidianamente con quest’animo: ne era impaurito, ma rendeva grazie al Signore poiché gli dava la possibilità di vincere quella prova grazie all’amore per Lui e quindi di rendere sempre più forte la propria fede. Ha scritto don Dolindo, che fu chiamato così in onore della Vergine Addolorata: «Il mio nome significa Dolore; lo formò egli stesso [il papà, ndr] e mi confidò, quando avevo 14 anni, che me lo aveva imposto come una previsione curiosa. Egli mi diceva: “Io sento che tu devi essere non un sacerdote comune, ma un apostolo e sento che non per caso ti ho maltrattato tanto male fin dall’infanzia”. Egli mi aveva reso veramente “dolore”…».
Come ho scritto a papa Francesco, in una lettera del 2013 che gli ho spedito poco dopo l’elezione, don Dolindo è stato un santo e ne ha avuto tutti i carismi – profezia, bilocazione, esorcismi –, vivendo sempre in pieno tutte le virtù, carità, umiltà, silenzio, obbedienza… Ma la cosa che più conquista è il fatto che la sua vita intera fu una continua offerta, un rendersi ostia vivente, consumata con amore alla Chiesa. Scelse volontariamente di rendersi vittima per l’umanità ed è morto poverissimo, sopportando i dolori sempre più acuti che gli procurava la grave forma di paralisi che lo minò nell’ultimo decennio.
Il suo rapporto con la sofferenza è un affascinante mistero proprio perché fin da piccolo la sopportò con serenità, con l’insolita consapevolezza che, se abbracciata per amore di Gesù, essa fosse una via per arricchirsi spiritualmente ed essere sempre più vicini a Lui. Nel suo nome stesso coglieva il segno del cammino al quale era stato chiamato: non aveva accettato Maria le sette trafitture della sua anima con fiducia piena nei disegni di Dio? E lui fin da piccolo aveva dovuto forgiarsi lo spirito alle prove dolorose. A 11 mesi subì un’operazione alla mano per estrarre un osso cariato. Poco dopo ne ebbe un’altra alla guancia destra per un tumore che insidiava le ghiandole. Ricordo che mamma, papà e tutti i parenti raccontavano lo stupore in famiglia per il fatto che un bambino così piccolo non avesse emesso neppure un lamento, né versato una sola lacrima. Si era limitato, stando sul seggiolone, a reclinare semplicemente la testa sul braccio sinistro, non potendola reggere per il dolore. Tanto era sofferente quanto si mostrò tranquillo.
Questo rapporto sereno, anzi d’amore con la sofferenza non cambierà mai in lui, nonostante l’esistenza lunga e faticosa di ben 88 anni. Neli ultimi tempi si aggiunsero all’artrosi, sempre più invasiva, l’ernia iatale, le gambe gonfie soggette a fuoriuscita di liquido. Ma lui non se ne lamentava. Il 9 febbraio 1969 scrisse a una persona che gli chiedeva notizie della salute: «Ho 87 anni e un cumulo di malanni gravi. Ma a questi malanni non bado mai, e nel levarmi la notte dal letto e vestirmi con stento dico un atto di lode a Gesù e a Maria Santissima salutando poi i miei malanni con il saluto piemontese, per scherzo, nel dolore: “Ciao”, ci vedremo domani. Se ci badassi non farei nulla. Del resto i dolori li ho cari, è l’unico omaggio che posso dare a Dio nella mia miseria. E io non posso dargli che la mia miseria e questo mi aiuta a umiliarmi».
All’età di 14 anni, nel 1896, anno in cui i genitori si separarono, don Dolindo entrò insieme con il fratello Elio nel collegio della Scuola apostolica dei Preti della Missione a Napoli, in via Vergini, per volere della mamma che aveva seguito i consigli del direttore spirituale. Il rendimento scolastico, tuttavia, non prometteva bene anche perché, probabilmente a causa dei tanti traumi subiti da piccolo, la sua mente pareva eternamente distratta e intorpidita, fino a che, all’incirca tre anni dopo, accadde un fatto che merita di essere raccontato…
Un giorno, mentre stava recitando il Rosario con i compagni, Dolindo teneva davanti a sé un’immagine della Madonna delle Grazie che mostra un giglio bianco nella mano destra, mentre con la sinistra sorregge teneramente Gesù Bambino sul cui petto, al posto del cuore, spicca un fiore altrettanto candido, circondato di spine. Una raffigurazione artistica della profonda e per molti aspetti insondabile unione tra Madre e Figlio, nel flusso continuo di grazie scaturito dal sacrificio d’amore dell’incarnazione del Verbo nel ventre di Maria. Proprio dietro questa effigie, che oggi conservo io gelosamente tra le cose più care, il 24 settembre 1956, oramai settantaquattrenne, don Dolindo vergherà di suo pugno il racconto dell’evento prodigioso che segna l’inizio del suo apostolato: «Ero un fanciullo insipiente, stentavo a capire e a studiare, avendo fatto tre volte la prima ginnasiale. Vestito l’abito clericale nel giorno 15 giugno 1896, pregai innanzi a questa immagine la Madonna e le domandai l’intelligenza. Recitavo con i condiscepoli il Santo Rosario e avevo davanti a me questa immagine appoggiata a un libro. Dissi alla Madonna: “O mia dolce Mamma, se mi vuoi sacerdote, dammi l’intelligenza, perché lo vedi che sono un cretino”. D’un tratto, genuflesso come ero, mi assopii. L’immagine si mosse, per il vento o per grazia speciale, non so dirlo, mi toccò la fronte e io mi risvegliai dall’assopimento con la povera mia mente pronta e lucida. Discorrevo di tutto, verseggiavo, ero un altro, ma solo per ciò che glorificava Dio. Per il resto ero e sono un autentico cretino. “Ricorro a te, Mamma mia, e tu mi illumini… Quanto sei bella!”. La grazia mi si accrebbe in due Confessioni generali: il 5 aprile 1898 e il 5 maggio 1899». Firmato: «Il povero Sac. Dolindo Ruotolo».
Di fatto, poco dopo questa prodigiosa «carezza» della Madonna, a scuola cominciarono a chiamarlo «l’Enciclopedico». E nel corso degli anni si dimostrerà un autore straordinariamente eclettico e prolifico, spaziando dai trattati teologici agli scritti ascetici e devozionali o ai racconti. Una mole di opere. Senza contare le composizioni musicali.
Il 1° giugno 1901 don Dolindo entrò nella comunità dei missionari, abbracciandone i quattro voti: povertà, castità, obbedienza e perseveranza, oltre al compito specifico di questa congregazione di evangelizzare i poveri. Il primo incarico che gli affidarono fu quello di insegnante nella scuola dove lui stesso aveva studiato e di maestro di canto gregoriano per i chierici. Due anni dopo chiese di essere mandato in Cina, ma senza successo: il Signore lo voleva suo apostolo a Napoli. Il 24 giugno 1905 fu ordinato sacerdote, un momento di gioia infinita per lui, una gioia che trasmise in pienezza al mio papà e a tutti i suoi cari. Poco dopo si spostò in Puglia, prima a Taranto e poi a Molfetta, per un biennio.
In quel periodo lo zio ebbe una dura avvisaglia delle persecuzioni alle quali sarebbe andato incontro: il suo superiore, padre Andrea Volpe, fu coinvolto in un’inchiesta interna alla famiglia religiosa per via del coinvolgimento nella direzione spirituale di una donna trentenne originaria di Vizzini, nel Catanese, di nome Serafina Gentile, la quale riferiva di avere continue visioni di Gesù e Maria e di riceverne messaggi.
Don Dolindo si rifiutò di definire questa donna una «mente perversa», come gli era stato chiesto, e, in concordia con padre Volpe, testimoniò che ella era in buona fede e sincera. E benché si astenne rigorosamente dall’asserire che le esperienze da lei testimoniate venissero da Dio, dal momento che – così disse – il giudizio del discernimento non spettava a lui ma all’autorità della Chiesa, fu accusato insieme con padre Volpe di assecondare «i deliri mistici» della Gentile.
È necessario qui specificare che lo zio non conosceva a fondo questa donna, la quale non era affidata direttamente alla sua guida, e che la sua preoccupazione nella circostanza era stata quella di non contraddire né screditare il suo superiore, cui doveva e voleva dare obbedienza.
La Gentile, dal canto suo, aveva ottenuto una certa notorietà, su scala nazionale, perché alcuni giornali avevano parlato di lei, divulgandone (spesso con un sarcasmo anticlericale tipico di quell’epoca) i supposti miracoli e le doti profetiche. Da queste ricostruzioni emerse che la donna avrebbe sostenuto, fra l’altro, che per la salvezza del genere umano si sarebbe resa necessaria una manifestazione, o addirittura incarnazione, dello Spirito Santo.
Così don Dolindo fu sospeso dalla celebrazione della Messa per 36 giorni, a partire dal 30 ottobre 1907. Un giorno prima era stato richiamato a Napoli, dove gli fu ordinato di disinteressarsi per sempre del caso Gentile. Accusato di «eresia formale e dogmatizzante», dovette andare a Roma per sottoporsi al giudizio del Sant’Uffizio. Dopo quattro mesi durissimi, d’inchiesta serrata, nei quali non ritrattò quanto aveva testimoniato fin dal principio, fu sospeso a divinis e obbligato a sottoporsi a una perizia psichiatrica, da cui risultò perfettamente sano di mente.
Inviso alla famiglia, poiché in quel periodo perfino i fratelli sacerdoti Elio e Ausilio lo ritennero malato di mente e magari indemoniato, don Dolindo si trovò in condizioni di tale indigenza da essere costretto, nell’ottobre 1908, ad accettare l’offerta di un parente negoziante, che lo ebbe come servitore e facchino, imponendogli lavori pesanti e talvolta poco decorosi. Tutte le ferite più amare furono sempre accolte da don Dolindo non soltanto con rassegnazione, ma con l’intento di condividere i dolori del Crocifisso.
Un atteggiamento che richiama la mistica dedizione di santa Caterina di Siena che scrisse: «Signore se mi viene fatto del male, fa’ che io non mi chieda più perché me le ho hanno fatto, ma perché tu lo hai permesso».
Il 13 aprile 1908 fu convocato dai superiori a Napoli, che lo sottoposero a un esorcismo e lo espulsero dalla congregazione dei Preti della Missione. Il 15 maggio 1908, con la morte nel cuore, ma senza proferire parola contro le autorità ecclesiastiche, fece ritorno nella casa materna mentre, anche per via delle notizie distorte circolate sui giornali su di lui e padre Volpe, si trovava sempre più emarginato dal clero napoletano.
A tendergli la mano fu l’arcivescovo di Rossano, nel Cosentino, monsignor Orazio Mazzella, fine teologo, che lo aveva conosciuto a Taranto. Informato della drammatica situazione del giovane prete, lo chiamò presso di lui, offrendogli l’incarico di segretario particolare, mentre ne difendeva appassionatamente la causa davanti al Sant’Uffizio. Avrebbe potuto soggiornare come suo ospite, rendendosi utile, in attesa della giusta e piena riabilitazione. Fu così che nel pomeriggio del 19 ottobre 1909 il treno proveniente da Napoli condusse a Rossano don Dolindo, il quale, secondo le descrizioni del tempo, sembrava ancora più giovane dei suoi 27 anni, «per l’aspetto e il volto di fanciullo, ingenuo e buono. Lo infiammava l’appassionato inesausto amore per Gesù». Una carrozza lo aspettava alla stazione, quella dell’arcivescovo, che gli aveva offerto provvidenziale ospitalità. «Mazzella tuttavia non immaginava che quel pretino fosse dotato di spiritualità eccelsa e di insoliti carismi».
Proprio in quel tempo, infatti. si stavano manifestando in lui dei fenomeni di natura mistica: dialoghi interiori con diversi personaggi celesti, visioni, viaggi con lo spirito. Mentre sostava in preghiera nella sua cameretta in episcopio, e più spesso nella cappella del Sacro Cuore della cattedrale di Rossano, in cui restava non di rado per l’intera notte in adorazione di Gesù sacramentato, don Dolindo entrava in fasi di raccoglimento molto intense, paragonabili alle estasi, durante le quali si sentiva imperiosamente sospinto a scrivere quanto lo stesso Gesù o la Madonna gli dettavano, parola per parola. Il suo confessore, il virtuoso canonico Mariano Renzo, gli consigliò di riferire tutto ciò che gli accadeva a monsignor Mazzella. Questi, da meticoloso ricercatore, esaminò con cura le circostanze e, pur non escludendo diverse ipotesi, ravvisò la possibilità di un caso di «locuzione, se non “formale”, almeno “successiva”, ossia generata nel proprio intelletto, col proprio talento, ma illuminata dal “Cielo”, come sperimentata da alcuni santi».
Intanto, l’8 agosto 1910 la richiesta di revisione della sospensione ebbe esito positivo e don Dolindo fu riabilitato con piena facoltà di celebrare Messa, dopo due anni e mezzo di sospensione. Per la seconda volta, tuttavia, nel dicembre 1911, venne convocato a Roma e costretto ad alloggiare in una specie di carcere sacerdotale del Sant’Uffizio, lui che non aveva colpa alcuna. Fu, infine, nuovamente riabilitato e rimandato a Napoli nel 1912. Ma si trattava, purtroppo, soltanto di una tregua di breve durata.
A testimonianza del legame fraterno, davvero amorevole che legò don Dolindo a mio padre, in un periodo davvero affannoso, mentre era accusato ingiustamente e si stava consumando l’espulsione dall’ordine, gli mandò una foto, scrivendo sopra questa dedica: «Al mio carissimo cugino, Umberto Ruotolo, perché anche con le sembianze gli testifichi perenne il mio affetto e la mia riconoscenza». Firmato: «Dolindo Ruotolo, prete della Missione – Napoli, 4 febbraio 1909». Papà, dunque, non aveva mancato di fargli sentire la sua vicinanza, mentre una ridda di accuse e cattiverie lo travolgevano.
Un altro commovente documento di questo legame è la lunghissima lettera scritta da don Dolindo a papà in occasione del fidanzamento con la mamma, Maria Michela, datata «Rossano, 27 settembre 1911 e recante in alto, bene in vista, la scritta: Dio solo! Viva Gesù e Maria!». Questa missiva è anche una sorta di catechesi per tutte le coppie che si preparano alla vita coniugale, la rileggo spesso e tutte le volte vi colgo degli altri significati, sempre più intensi. Vale la pena di riportarne integralmente il testo, rimasto finora inedito (le parti sottolineate dallo scrivente sono riportate in corsivo):
Mio carissimo Umberto,
benché sia occupato in maniera incredibile, pure non posso far passare il giorno di domani che so essere il giorno del tuo fidanzamento senza una parola e un augurio sincero! Oh Umberto, tu sai quanto ti amo! E perciò puoi immaginare quanto io godo di questo grande e bel passo che tu sarai per dare. Sì, godo, perché tu intraprendi la via per gettare le basi della famiglia. La famiglia!!! Che dolce e soave nome! Quante idee, quanti affetti non dice questa sublime parola, la famiglia! Oh! Io ti auguro che la famiglia che tu aprirai sia per essere una famiglia modello. Oh! Me l’auguro e lo spero. Sì, spero che i tuoi ardenti desideri siano alfine appagati.
Io ricordo e ben ricordo di avere tante volte ascoltato da te di volerti incontrare con un angelo di giovane, una giovane che ti avrebbe amato, amato sempre e solo amato fortemente, incessantemente, affettuosamente, amato no...

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