Scritto all’indomani dell’approvazione della legge costituzionale 27 dicembre 1963, n. 3, che istituiva la Regione Molise distaccando il territorio della Provincia di Campobasso dalla preesistente Regione Abruzzi e Molise voluta dall’Assemblea Costituente giusto sedici anni prima, il 27 dicembre 1947, l’articolo veniva pubblicato su «Nord e Sud» [1] , la prestigiosa rivista meridionalista diretta da Francesco Compagna [2] . Un estratto dell’articolo veniva riportato su «Informazioni Svimez» [3] .
Stigmatizzando i limiti di un regionalismo come quello molisano, non privo di accenti campanilistici, si auspicava che esso potesse farsi carico di «un lavoro non facile, per riempire di sostanza economica e civile una scatola vuota, un comprensorio delimitato in base a criteri prevalentemente giuridici e storico-amministrativi».
Constatato che «ad un secolo di distanza dall’unità politica italiana il Molise non aveva ancora un capitolo suo nella questione meridionale», veniva disegnato a grandi linee il possibile sviluppo della nuova regione, ancorando le argomentazioni a quanto si era potuto apprendere presso la Svimez – Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno [4] .
In particolare, il percorso indicato risentiva della distinzione operata allora riguardo al territorio del Mezzogiorno da Nino Novacco [5] , segretario generale della stessa Svimez, e ripresa da Compagna [6] , tra aree di sviluppo ulteriore, «caratterizzate dall’esistenza di non abbondanti risorse ulteriormente sfruttabili, ma anche da un forte addensamento sia di capitali sociali che di capitali tecnici (nell’agricoltura, nei servizi e soprattutto nell’industria) in presenza di una densissima ed esuberante popolazione», rappresentanti solo il 5 per cento della superficie del Mezzogiorno e il 29 per cento della sua popolazione; aree di sviluppo integrale, caratterizzate «da una bassa densità media di popolazione, suscettibile però di aumento, dato che in queste aree, se è piuttosto scarsa la precedente accumulazione di capitale, ci si trova generalmente in presenza di risorse naturali (agricole, idriche, minerarie) non ancora sufficientemente valorizzate», che riguardavano il 32 per cento del territorio meridionale e il 25 per cento della popolazione; e aree di sistemazione, «caratterizzate da una accentuata scarsità sia di risorse naturali che di capitali tecnici e sociali», che corrispondevano al 60 per cento della superficie del Sud e al 50 per cento della sua popolazione: l’«osso» del Mezzogiorno, altro dalla «polpa», secondo la classica immagine di Manlio Rossi-Doria [7] , le zone interne di montagna e di alta collina (individuate già allora da alcuni analisti come «zone di fuga») sulle quali si sta rinnovando oggi l’attenzione degli studiosi [8] e delle istituzioni [9] .
Dalla distinzione di Novacco discendeva il titolo stesso dell’articolo in cui per la prima volta si richiamava l’attenzione sul Molise come tipica area di sistemazione, della quale colpivano già la forte «decadenza demografica che è sinonimo di indigenza» e «la depressione che coinvolge tutti i rami dell’attività economica» [10] .
Alla luce delle tendenze demografiche in atto nella regione tra i due censimenti 1951 – 1961 e dello spopolamento che da «salasso» si era già fatto «emorragia», il tipo di sviluppo possibile della realtà molisana sembrava dover valorizzare soprattutto bosco e pascolo in agricoltura; imprese lattiero casearie e della carne, del legno e della carta, della cellulosa e delle resine nell’industria; altri insediamenti industriali nelle «oasi» del Venafrano e del Termolese; puntare sulla congiungente più breve tra Adriatico e Tirreno come «asse di sviluppo» da Termoli a Napoli lungo la valle del Biferno ed oltre il Matese per aprire la regione al Mezzogiorno e al Paese; promuovere il turismo balneare e montano; la diversificazione e il potenziamento delle istituzioni scolastiche in funzione dello sviluppo [11] , fino a comprendere l’insediamento di una «università di tipo nuovo», che non si riducesse a un diplomificio fine a se stesso, per essere capace invece, grazie a una scelta accorta delle facoltà, di elaborare e di anticipare l’intervento economico in un rapporto stretto con il territorio, sicchè il tema dell’università molisana veniva per la prima volta proposto all’attenzione di un più ampio pubblico colto dalle pagine di un’autorevole rivista nazionale [12] .
Un tipo di sviluppo, peraltro, «necessariamente lento [...] che probabilmente non saranno neanche i giovanissimi a vederne pienamente concluso il ciclo».
Pessimismo o, forse, ottimismo? Quei giovanissimi, oggi ormai anziani, sono testimoni di ben altro: di un Molise in agonia, passato dai 352 mila abitanti al momento della separazione dagli Abruzzi nel 1963 (0,69 per cento del totale italiano di 51 milioni) ai 302 mila di inizio 2020 (0,50 per cento del totale italiano di 60 milioni), senza dire delle inquietanti negatività di altri significativi parametri di riferimento, come periodicamente rilevati, tra gli altri, da Svimez, Istat e Banca d’Italia.
Discostandosi in qualche modo dalla linea fortemente critica assunta dalla rivista subito dopo l’istituzione della Regione Molise [13] , l’articolo esprimeva fiducia, nel clima culturale e politico maturato in quegli anni intorno al tema della programmazione economica, che il Molise potesse «avere, in quanto regione, una propria capacità di programmazione, in grado di garantire quel certo tipo di sviluppo che sia sufficientemente organico nella visione di un regionalismo economicamente aperto [...], avere, cioè, la possibilità di far valere la sua presenza nel Mezzogiorno e nel Paese, più di quanto non avrebbe potuto farla valere in quanto plurima periferia delle regioni limitrofe». E ciò grazie a «un nuovo corso della classe politica [...] una nuova collaborazione tra le forze della sinistra democristiana e della sinistra laica [...] supporto politico di una trasformazione della società molisana».
L’auspicato nuovo corso non ci sarà e il Molise dovrà aspettare ancora a lungo prima di (non) essere ... «sistemato».