Perché una lama è affilata?
“Per tagliare!” risponde il pensiero occidentale.
“Perché è una lama!” risponde la visione zen.
La differenza è fondamentale.
Nella prima risposta il filo è considerato un attributo legato all’utilizzo della lama, e dunque è finalizzato allo scopo cui questa verrà destinata.
Nella seconda, al contrario, è visto come una qualità inerente alla lama stessa, e perciò indipendente dal suo utilizzo.
Come dire che nel primo caso è enfatizzata la funzione dell’oggetto (e cioè il fare), mentre nel secondo la sua natura intrinseca (l’essere).
Sembra una differenza solo concettuale?
E allora proviamo ad affilarla, quella lama.
Se lo scopo è quello di tagliare, allora sarà necessario anzitutto decidere “cosa” tagliare.
Il secondo passo, direttamente conseguente, sarà quello di affilare la lama quanto basta per renderla idonea a svolgere egregiamente la sua funzione.
Pronunciata o implicita, la frase che darà lo stop all’operazione dell’affilatura sarà quindi del tipo: “Bene: così può bastare!”. Il processo, cioè, sarà guidato da un oggetto – quello appunto “da tagliare” – che è esterno al processo stesso e che, attraverso le sue caratteristiche (durezza, resistenza), ne condiziona lo svolgimento.
Al contrario, se il criterio che informa e dirige la nostra azione non è uno scopo, bensì la realizzazione di qualcosa che è implicito nella natura della lama, allora la stessa domanda che chiede “quanto” affilarla non ha alcun senso. “Poco” o “molto”: ma rispetto a quale standard?
Eliminate il parametro dello scopo, e vi renderete conto che lo standard può essere uno e uno soltanto, e cioè la massima possibilità della lama di essere affilata.
Non ci sarà mai un momento in cui sarà possibile dire: “E’ abbastanza!” se non quando sia stato raggiunto il limite massimo, ciò che corrisponde, per quella lama, alla condizione di “essere affilata”. Ogni altra condizione è inferiore e incompleta.
Il riferimento-guida dell’operazione, in questo caso, non sarà più esterno – come nel caso di un oggetto “da tagliare” – ma interno al processo, e cioè connesso alle possibilità della lama di essere ulteriormente affilata e alla nostra possibilità di farlo.
Termini come “poco affilata”, “molto affilata” o “affilatissima” non hanno significato (proprio come non ha senso dire che una donna “è un po’ incinta” o un uomo “calvissimo”), essendo le uniche condizioni possibili per quella lama l’essere affilata o il non esserlo, relativamente alle possibilità proprie della sua natura.
Ma poiché è impossibile conoscere in anticipo quale sarà il punto d’arrivo, questo diviene semplicemente irrilevante, e così l’unico modo adeguato di procedere è continuare ad affilarla nel modo migliore.
Non essendoci alcun riferimento che possa dire se siamo vicini o lontani dal risultato finale, l’unico criterio che può guidare la pratica è quello di ottimizzare ogni singolo passaggio, rendendolo perfetto in sé e per sé, e non in relazione a un traguardo che, essendo ignoto, è di fatto inesistente.
Come dire che, da un orientamento ai risultati, siamo passati ad un orientamento al processo.
La pratica dello zen deve essere “senza scopo né profitto”.
Questa visione, così difficile per il pensiero utilitaristico e finalizzato che scandisce l’approccio occidentale contemporaneo alla vita e all’azione, è il cuore e il segreto di tutte le arti che hanno accolto e fatto proprio lo spirito dello zen.
Nel kyu-do, la via zen del tiro con l’arco, si impara che la freccia colpisce il centro solo dopo che ogni intenzione è lasciata cadere.
Così non è il “far centro” a determinare la perfezione di un tiro, ma la tecnica con cui il tiro stesso è effettuato, manifestazione esterna del giusto atteggiamento interiore: colpire il bersaglio non è che una conseguenza – insieme scontata e “accidentale” – della corretta esecuzione di ognuno dei passaggi che compongono il rito del kyu-do, dal respiro alla posizione, dal modo di incoccare la freccia a quello di lasciarla “nell’istante di vuoto che segue alla massima tensione della corda”.
Il punto essenziale, però, è che non si deve respirare nel modo corretto perché così la freccia andrà a segno, ma perché quello è il modo corretto di respirare. Non si deve cercare la giusta posizione perché così il tiro avrà più forza, ma perché quella è la giusta posizione.
Finché esiste intenzione, la mente è proiettata via dal qui-e-ora, a inseguire un futuro che è solo ipotetico: energia e attenzione sono disperse, e lo spirito è debole.
Un esempio (ma solo un esempio) è in ciò che conosciamo come “ansia da prestazione”, quando l’anticipazione di un risultato e il timore di non riuscire a raggiungerlo catturano la mente e l’attenzione e inquinano le risorse, indebolendole o addirittura opponendole a una prassi corretta.
Al contrario, se la ratio di ogni singolo passaggio è cercata nel passaggio stesso, non vi sarà alcuna possibilità che una conseguenza – possibile, probabile o certa che sia – possa turbarne lo svolgimento.
Non è la sconfitta dell’avversario a rendere perfetto un colpo di spada, ma sua stessa perfezione intrinseca. E per questo il colpo non cambierà, che si abbia di fronte una pianta di bambù, un manichino inanimato, l’aria o il più terribile dei nemici.
Non si colpisce “per” – per ferire, per vincere, per uccidere – ma perché il colpo è la ragione del colpire.
Così nel momento in cui la corda dell’arco viene tesa non è per scagliare la freccia. Tendere la corda è un atto in sé compiuto e che trova in se stesso tutto ciò di cui ha bisogno per essere e per essere perfetto: la tensione è lo scopo del tendere la corda.
Non esiste un “prima” o un “dopo”; non esiste un processo che si snoda attraverso una serie di atti consecutivi; e quello che dall’esterno possiamo intendere come un singolo passaggio non è la fase di un processo, bensì un gesto assoluto, un’azione che in nessun modo dipende dalla precedente o prepara la successiva.
La corda può essere tesa in modo perfetto indipendentemente dal tiro che potrà – forse –seguire e dal bersaglio che potrà – forse – essere colpito.
Potrebbe non esserci alcun combattimento, dopo questo colpo di spada!
Così, durante la pratica di za-zen:
non c’è successione né avvicendamento,
non ci sono cause né effetti:
ogni istante è il primo,
ogni istante è l’ultimo.
Solo con questo atteggiamento è possibile far convergere ogni risorsa disponibile su ciascuna delle singole fasi di un processo, evitando qualsiasi dispersione.
D’altra parte, se un’azione riceve il massimo delle risorse, la sua esecuzione non potrà che essere svolta nel migliore dei modi.
Ma se ognuna della fasi di un processo è compiuta in modo eccellente, allora il risultato complessivo – quello stesso risultato che è stato totalmente ignorato – non potrà che essere, a sua volta, eccellente.
E’ così che dimenticare il bersaglio si rivela il modo migliore per colpire il centro.
Ci sono altre considerazioni importanti, da fare in proposito.
Torniamo alla nostra lama, da affilare “senza scopo né profitto” ma solo per realizzarne la natura intrinseca di “lama affilata”. E chiediamoci: come riconoscere quando tale condizione è stata raggiunta?
Com’è possibile capire, in altre parole, quando interrompere il processo di affilatura perché questo è arrivato al suo massimo e al punto di non plus ultra?
La risposta questa volta è semplice e diretta: non è possibile.
Lo stesso concetto di “massimo” e di “non plus ultra” è estraneo alla visione zen e inconcepibile, dal momento che l’idea di una condizione di perfezione futura e raggiungibile, renderebbe necessariamente imperfetta ogni altra condizione precedente o che non sia simile a questa.
In tal caso la perfezione sarebbe considerata un punto d’arrivo – un bersaglio – e questo porterebbe a bruciare le tappe dei passaggi precedenti, che non sarebbero più “senza scopo né profitto”.
E invece ad ogni passaggio, se eseguito in modo impeccabile, la lama è perfettamente affilata!
Ciò non toglie che, al prossimo passaggio, potrà essere più affilata di quanto sia ora, e che questa prossima condizione, benché inferiore a quella che forse seguirà, sia ancora assolutamente perfetta.
E’ come percorrere un sentiero impervio e sconosciuto, di notte, disponendo solo di una torcia. Se proiettiamo il fascio molto avanti, per cercare di individuare la meta, rischiamo di cadere e di non raggiungerla mai. In queste condizioni, tutta la nostra luce e tutta la nostra attenzione non potranno che andare al passo che stiamo facendo. E poco importa che questo sia più vicino alla meta di quello cha abbiamo appena fatto, o più lontano del prossimo che faremo: ciò che conta è solo fare al meglio questo passo, indipendentemente dalla sua posizione rispetto alla meta.
Un passo che sarà perfetto e perfettamente eseguito nella misura in cui, relativamente alle nostre condizioni e a quelle del terreno, ci porterà ad avanzare – nel modo migliore – appunto di un passo.
Così la lama è perfettamente affilata ogni volta in cui un singolo step del processo di affilatura è stato eseguito nel modo migliore possibile.
La principale implicazione pratica di questo approccio al compito è che, non esistendo un riferimento teorico né una procedura standard a cui adeguarsi, lo stesso concetto di “ripetizione” non trova spazio, ma ogni esecuzione rappresenta un’occasione per realizzare il compito stesso nel modo migliore, ciò che si traduce nella possibilità di un continuo e costante incremento della performance.
Né esiste la possibilità di un decremento rispetto alle prestazioni passate, dato che lo standard precedente rappresenta un bagaglio comunque già acquisito, e perciò costituisce il punto di partenza da cui prende avvio la nuova esecuzione.
Il paragone con un’attività fisica è quasi scontato ma vale da esempio: se ogni prova viene affrontata con il massimo dell’impegno, è evidente che la forza e l’abilità non potranno che crescere, poiché il risultato della prestazione precedente costituisce la base da cui prende avvio la successiva.
Queste semplici constatazioni sono alla base dell’approccio kaizen, una potente filosofia manageriale che sostituisce al tradizionale concetto di “obiettivo” – tipico di una visione finalistica e orientata al risultato – quello di “miglioramento continuo”, inteso come un processo aperto e in continua evoluzione il cui fine non è tanto il raggiungimento di un risultato pre-stabilito, quanto piuttosto il costante miglioramento di ogni singolo step del processo. Un miglioramento che non viene ottenuto adeguando le procedure a uno standard ma operando al meglio, e utilizzando semmai lo standard acquisito come un supporto e una base di partenza.
Mentre rimandiamo a lavori specifici per una più esauriente trattazione di questa strategia, è invece importante discutere qui un aspetto che ne rappresenta in qualche modo la vera chiave di volta: una conditio sine qua non che ci riporta direttamente nel cuore della visione zen e nello spirito che ne guida la pratica.
La questione è questa: dando per acquisito che la qualità di un atto sia direttamente proporzionale al suo essere “senza scopo né profitto”, resta da definire qual è o quale può essere allora la molla che ne motiva l’esecuzione.
In altre parole: se non c’è uno scopo e non c’è un profitto, perché mai ci si dovrebbe impegnare – e impegnare al massimo delle proprie possibilità! – per eseguire al meglio un compito?
E’ un problema cruciale, la cui mancata risoluzione rischia di vanificare buona parte degli sforzi attualmente in atto per introdurre nelle organizzazioni il concetto e la prassi di una qualità che sia viva e dinamica, e non solamente formale.
Non basta infatti che l’attenzione si sposti dal risultato finale alle singole fasi del processo allo scopo di codificarne minuziosamente lo svolgimento. Questo potrà forse garantire il mantenimento di uno standard raggiunto, ma non certo la sua evoluzione o un incremento della performance.
Né ci si può aspettare che l’obiettivo del miglioramento continuo possa essere raggiunto attraverso la promessa o la distribuzione di incentivi ai singoli attori che gestiscono ciascuna fase del processo (che peraltro avrebbero, in tal caso, uno scopo ben preciso, rappresentato appunto dal profitto). Ma non c’è bisogno di scomodare una tradizione millenaria come lo zen, per confortare questa nostra affermazione: basterà considerare con quanta rapidità, nell’esperienza pratica, la motivazione legata alla speranza di un premio si esaurisca nel momento in cui il premio stesso è corrisposto. Tanto che è sempre più condivisa l’opinione per cui “la corresponsione di un incentivo ha come unica conseguenza quella di motivare chi l’ha ricevuto a chiederne un altro”!
E’ proprio dal punto di vista motivazionale che il limite intrinseco del sistema degli incentivi appare palese, nel momento in cui si considera che, posto un obiettivo da raggiungere e un premio conseguente al raggiungimento dello stesso, la tensione del soggetto – intesa come in...