Il mestiere di storico (2017) vol. 2
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Il mestiere di storico (2017) vol. 2

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Riflessioni- Marcello Flores, La totalità della guerra. - Riflessioni su La guerra-mondo- Arturo Marzano, La guerra dei Sei giorni tra storia e politicaDiscussioni- Gustavo Corni, Bianca Gaudenzi, Gerhard Hirschfeld, Nicolas Patin e Wolfgang Schieder, Il nazismo attraverso la biografia di Hitler (a cura di Andrea Di Michele e Filippo Triola)Rassegne e letture- Vittorio Beonio Brocchieri, Un «fenomeno globalizzante» di lunga durata- Nicola Labanca, Gli «acquerelli» del combattente Benito Mussolini- Adriano Roccucci, Un dittatore «forte». Stalin e il suo sistema di potere- Valeria Galimi, I dénaturalisés di Vichy- Agostino Giovagnoli, Aldo Moro. La parabola politica di uno statista- Maurizio Ridolfi, Un paese condannato al declino?- Andrea Graziosi, Repubbliche degli italiani: dalla democrazia consensuale alla democrazia conflittuale- Fabrizio Vistoli, Percorsi dell'etruscologia nel '900- Francesco Cassata, Biografie e storia della scienza

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Information

Year
2018
ISBN
9788867289646
I LIBRI DEL 2016 / 2
Pietro Adamo, L’anarchismo americano nel Novecento. Da Emma Goldman ai Black Bloc, Milano, FrancoAngeli, 319 pp., € 34,00
È uno sguardo empatico e al contempo rigoroso quello che Pietro Adamo volge alla storia dell’anarchismo americano del secolo scorso. I dodici capitoli del volume sono organizzati secondo un classico criterio cronologico, partendo dall’anarco-comunismo degli immigrati europei di fine ’800 e arrivando fino ai movimenti antiglobalizzazione emersi in occasione delle proteste contro il vertice del 1999 della World Trade Organization a Seattle e giunti fino ai giorni nostri. In questo lungo ’900 americano si succedono l’anarchismo sindacale dei wobblies (gli Industrial Workers of the World di inizio ’900) e quello eccentrico di Randolph Bourne, quello delle riviste degli anni ’40 («Retort», «Why», «Politics», «Resistance») e quello degli hippies, fino all’avvento della New Left negli anni ’60 e poi alla stagione dell’anarco-capitalismo.
Da storico del pensiero politico, l’a. è molto attento alle genealogie e alle svolte teoriche che segnano il pensiero e la pratica anarchica. Al centro della sua ricostruzione critica vi è la distinzione tra un periodo classico di derivazione europea, fondato su una lettura del processo storico di tipo materialista e sulla rivoluzione come rottura che distrugge l’esistente e introduce una nuova era, e un periodo postclassico tipicamente nordamericano definito «gradualista e secessionista» (p. 13 ) in cui prevale la ricerca quasi impolitica di spazi alternativi interni a un quadro dominato da un capitalismo internazionale che non viene sfidato frontalmente. È questa la differenza tra una radice europea, spesso assunta da studiosi e militanti come la tradizione, e quella americana, innestatasi sulla prima per poi seguire traiettorie eccentriche e periferiche. Tuttavia, argomenta l’a., sarebbe proprio l’anarchismo americano postclassico, affermatosi dopo gli anni ’30, a mostrare da alcuni decenni una vitalità e capacità di critica e mobilitazione tale da «spingerci a riconsiderare il complesso della storia dell’anarchismo» (p. 17).
Tra i motivi che rendono il volume di sicuro interesse ben oltre la nicchia degli studi sull’anarchismo c’è proprio l’indagine del rapporto euro-americano. L’a. mette in luce la rivendicazione di americanità di un anarchismo che si è spesso visto come parte integrante di una tradizione radicale e libertaria che annovera nel suo pantheon il dissenso protestante del periodo coloniale, Thomas Paine e gli abolizionisti radicali della prima metà dell’800. Ma i passaggi di maggior interesse del volume, che avrebbe potuto giovarsi di un confronto più serrato con la letteratura statunitense degli ultimi vent’anni, sembrano essere quelli da cui emergono le interazioni e connessioni tra le due sponde dell’Atlantico, come la traiettoria politica e personale di Emma Goldman dall’anarco-comunismo rivoluzionario a quello individualista ed esistenziale della maturità, e l’influenza di figure europee di spicco come Nicola Chiaromonte sui New York intellectuals di metà ’900 nel quadro della critica allo Stato totalitario.
Marco Mariano
Giovanni Agostini, La periferia del partito. La Dc trentina negli anni del centro-sinistra (1955-1968), Milano, Le Monnier, 296 pp., € 22,50
Il volume – approfondimento di una tesi di dottorato in «Politica, istituzioni e storia» dell’Università di Bologna – è organizzato in quattro capitoli che ripercorrono l’intreccio della vicenda della Dc trentina con quella del partito a livello nazionale scandito secondo i tempi delle tre legislature regionali del Trentino-Alto Adige tra la metà degli anni ’50 e il 1968. Si tratta di una stagione che vede il panorama regionale mutare col passaggio da una realtà prevalentemente legata alle attività agricole all’approdo allo sviluppo dell’industria e del terziario.
Il partito trentino che ha espresso personalità di statura nazionale – basti pensare a De Gasperi, Piccoli e Andreatta, pur nelle loro differenze – ha una serie di particolarità che lo distinguono, nel periodo analizzato, da quello nazionale. È un partito ampiamente egemone (regolarmente tra il 60 e il 68 per cento dei voti a livello provinciale), fortemente identitario, erede di una compattezza e rappresentatività maturata all’interno del movimento cattolico locale in tensione con le dinamiche politiche dell’Impero asburgico. Non è un caso che l’archivio della Dc regionale del Trentino-Alto Adige e del partito a livello provinciale di Trento e Bolzano sia custodito presso l’Archivio diocesano trentino.
È un partito periferico e di confine che fa i conti con le particolarità del suo territorio e che tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 attua una politica riformatrice pragmatica a livello regionale in un quadro politico in cui il rapporto dialettico significativo è con la Südtiroler Volkspartei (Svp). La progressiva riduzione di competenze della Regione a vantaggio delle Province autonome di Trento e Bolzano ne sono il risultato. Il Psi a livello regionale è il terzo partito, ed è il maggiore della sinistra, mentre il Pci arranca. Quando il partito nazionale avvia la collaborazione coi socialisti, quella intesa a livello provinciale non risulta necessaria, e sarà implementata solo per la parentesi dal 1964 al 1968. L’a. scrive: «Al contrario di quanto avviene a livello nazionale, dove il centrosinistra implode per l’impossibilità di realizzare quella politica riformatrice per cui era nato, a Trento il centrosinistra sfuma perché è giunto al potere quando la politica riformatrice è già stata sostanzialmente realizzata» (p. 216).
Il partito nel periodo del postConcilio perde il contatto col retroterra giovanile delle organizzazioni cattoliche, e la Facoltà di Sociologia di Trento – la prima in Italia – diviene l’avanguardia della contestazione. La Dc trentina vede incrinare la sua compattezza alla fine degli anni ’60 col graduale nazionalizzarsi delle sue dinamiche interne. Flaminio Piccoli, coi dorotei, ascende alla vicesegreteria del partito nazionale con Rumor nel 1964, e diviene segretario nazionale nel 1969; Bruno Kessler, presidente della Provincia autonoma di Trento dal 1960 al 1974, viene ascritto al gruppo dei morotei e progressivamente ridotto in minoranza. La peculiarità trentina va in crisi col superamento dello schema, pur semplificato, della formula «Kessler a Trento e Piccoli a Roma».
Augusto D’Angelo
Andrea Ambrogetti, Aldo Moro e gli americani, Roma, Studium, 214 pp., € 19,00
Il volume di Ambrogetti non è una monografia, quanto una raccolta di quattro testi a sé stanti dedicati al rapporto fra alleanza occidentale e Italia negli anni che vanno dal 1976 al 1979.
Il primo capitolo costituisce sostanzialmente un’introduzione al volume, mentre il secondo testo, Italia 1976: nessuna opzione esclusa, è la parte più interessante del volume: consiste nella presentazione in ordine cronologico di documenti diplomatici britannici custoditi presso il Centro documentazione Archivio Flamigni. L’intero saggio consiste nella semplice sintesi e pubblicazione di ampi estratti di documenti del 1976. La documentazione britannica fornisce molte informazioni sugli atteggiamenti dei vari Stati occidentali verso l’evoluzione politica interna italiana, caratterizzata dall’ingresso del Partito comunista nell’area di maggioranza. Emergono così le diversità di opinioni esistenti in seno al governo statunitense riguardo il da farsi di fronte all’apertura al Pci messa in atto dalla Democrazia cristiana: se il segretario di Stato Kissinger propende per iniziative eclatanti di punizione ed esclusione del governo di Roma dalla Nato, i vertici militari preferiscono una strategia soft, che miri a «tenere l’Italia dentro», perché «i vantaggi sarebbero superiori agli svantaggi e perché i generali italiani sono in grado di continuare a tenere la situazione sotto controllo “vista la debolezza della politica”» (p. 59). Vi è poi una diversità di atteggiamenti fra gli Stati europei di fronte alle vicende interne italiane. Se il governo laburista britannico è abbastanza indifferente alla questione italiana ed è reticente a iniziative interventiste, l’esecutivo tedesco guidato da Helmut Schmidt e i partiti socialdemocratico e cristiano democratico della Repubblica federale sono molto preoccupati dall’aumento di potere dei comunisti e mettono in atto azioni d’influenza e di minaccia per convincere in primis i socialisti e i democristiani a bloccare l’ingresso del Pci nell’area governativa, con risultati però deludenti.
Il capitolo terzo del volume (Le loro memorie) è una rassegna di quanto è stato scritto sull’Italia nella memorialistica politica occidentale. È una rassegna piuttosto lacunosa, in quanto non analizza importanti opere quali il diario di Jimmy Carter e gli scritti memorialistici di Henry Kissinger e Helmut Schmidt.
Il capitolo quarto (Sacrificare l’Italia?) è un tentativo di riflessione storiografica sul rapporto fra Stati Uniti, alleanza occidentale e Italia. Una riflessione condotta però in maniera approssimativa, senza un confronto comparato fra fonti di diversi Stati (grave è il mancato uso della raccolta dei Foreign Relations of the United States e degli Akten zur Auswärtigen Politik der Bundesrepublik Deutschland), senza riferimenti alla letteratura storica internazionale e con una conoscenza lacunosa della storiografia italiana sulle relazioni internazionali dell’Italia nell’epoca di Moro.
Non si capisce poi il perché del titolo Aldo Moro e gli americani, in quanto l’argomento prevalente è l’analisi della politica britannica verso l’Italia nel 1976 e il politico pugliese non è il protagonista principale delle vicende raccontate dall’a.
Luciano Monzali
Massimo M. Augello, Marco E.L. Guidi, Giovanni Pavanelli (a cura di), Economia e opinione pubblica nell’Italia liberale. Gli economisti e la stampa quotidiana; I. Gli economisti, 382 pp., II. I dibattiti, 220 pp., Milano, FrancoAngeli, € 48,00
Punto terminale di un ampio e importante progetto sulla «storia istituzionale» dell’economia liberale – concretizzatosi sin qui in diversi volumi e opportunamente ripercorso da Augello nell’Introduzione – il lavoro, centrato su economisti e stampa, poggia su 21 studi (13 nel I vol., 8 nel II vol.) inevitabilmente diseguali e variamente interessanti. L’attenzione si focalizza, nel I vol., su Gli economisti, prendendo in esame penne note e meno note: Einaudi, Pareto, Luzzatti, Pantaleoni, Borgatta, Flora, Giretti, Cabiati, Leone, Cognetti de Martiis De Viti de Marco, Nitti, Luzzatti; nel II vol., ad essere affrontati sono alcuni dei principali problemi e dibattiti dell’epoca: la questione meridionale, il monopolio di Stato per le assicurazioni sulla vita, l’emissione monetaria, il cambio, la politica commerciale, le crisi di borsa, la politica coloniale. Attraverso attori e temi i curatori provano dunque a far luce (e a tenere assieme) su un periodo compreso fra l’ultimo trentennio dell’800 e il primo ventennio del ’900, una fase densa – è quasi superfluo ricordalo – di cambiamenti e contraddizioni.
Acclarato che la relazione tra stampa ed economisti sia questione cruciale e meritevole di essere indagata, non tutti i saggi evidenziano rilevanza e novità e, rischio ineludibile dei lavori a più mani, non manca qualche debolezza. Spiccano tra i profili degli economisti delineati nel I vol. quelli che, grazie alla penna e alla perspicacia dei singoli autori, aprono una finestra sul periodo: è il caso di Bientinesi con Cabiati (economista del quale distilla posizioni e argomentazioni delineando un profilo compatto e senza sbavature); di Gozzolino con Leone (il sindacalista rivoluzionario avversario risoluto del protezionismo, di rado inserito e tematizzato tra gli economisti dell’epoca); di Maccabelli con Pareto (fin troppo studiato ma qui efficacemente inquadrato nell’alveo delle scienze sociali e della sua biografia scientifica); di Pavanelli con Einaudi (capace di far emergere elementi d’interesse in un personaggio largamente esplorato); di Travagliante con Flora (colto nelle vesti di occhiuto osservatore della guerra e dei suoi effetti).
Nel II vol. il rapporto si capovolge: ad essere protagonisti sono infatti i temi e i problemi vagliati e discussi dalla stampa – nei loro risvolti sociali, economici e politici – ed essi a guidare la ricerca. Gli spunti, naturalmente, sono numerosi in tutto il volume e anche se in alcuni casi un po’ di rimasticamento si avverte – conseguenza di un’esplorazione trentennale «in lungo e in largo» nel mondo degli economisti – si leggono con sicuro interesse i contribuiti dedicati alla crisi di borsa del 1907, ai problemi della finanza pubblica, della politica coloniale, della politica doganale.
Nell’insieme gli interventi degli economisti e l’individuazione dei nuclei tematici più dibattuti, oltre a restituire contorni e contenuti di un universo mobile e contraddittorio, offrono anche interessanti elementi di riflessione sulla cultura del tempo.
Rosanna S...

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