Il tramonto delle identità tradizionali
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Il tramonto delle identità tradizionali

Annibale Salsa

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Il tramonto delle identità tradizionali

Annibale Salsa

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PREMIO LEGGIMONTAGNA 2008, Carnia 2°classificato ex-aequo per la SaggisticaLe trasformazioni socio-economiche nell'età mo-derna hanno determinato la crisi dell'identità tradizionale alpina, provocando la progressiva marginalizzazione dello spazio alpino. I fenomeni della postmodernità (globalizzazione dell'economia, omologazione dei modelli comportamentali, perdita delle specificità) hanno indotto risposte culturali quali la folklorizzazione, l'esasperazione localistica, l'esasperazione etnica.Di fronte a tale scenario, l'Autore – dopo l'analisi delle vicende culturali, storiche e sociali che lo hanno causato – ipotizza gli sviluppi futuri: o la sconfitta totale, sino all'esito estremo dell'annientamento, o una rinascita, attraverso la ritrovata consapevolezza dei giovani e il fenomeno del neo-ruralismo. Libro appassionato, non solo di denuncia, ma anche di grande speranza.Il libro è vincitore del 37° premio ITAS premio del libro di montagna PREFAZIONEdi Enrico Camanni

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CAPITOLO I
IDENTITÀ ALPINA O IDENTITÀ ALPINE?
«LeAlpi non sono barriere,
ma cerniere fra le popolazioni europee
»3.
IDENTITÀ E IDENTITÀ CULTURALI
Allorquando ci si interroga sul problema dell’identità, si attua un’interazione tra il piano individuale ed il piano sociale, trovandosi ad investigare il rapporto «io-mondo sociale». Ciò, nella consapevolezza che esiste una stretta relazione tra identità come elemento individuale o personale, come esperienza essenzialmente soggettiva e identità come elemento intersoggettivo, partecipato da più soggetti, rilevante a livello sociale4.
Nell’ambito sociologico, tre sono state le correnti teoriche più rilevanti che si sono soffermate sul concetto di identità: il funzionalismo, l’interazionismo simbolico, la fenomenologia sociale.
Nella lettura funzionalistica suggerita da Talcott Parsons5, il concetto di identità non può prescindere da una teoria della personalità, cioè da una teoria dell’organizzazione psichica complessiva dell’individuo. L’identità viene dunque definita da Parsons in relazione alla funzione specifica svolta all’interno del sistema di personalità: quella di coordinare e controllare l’Id (che si occupa della funzione di adattamento), l’Ego (che si rivolge al conseguimento degli scopi), il Super-Ego (che integra e coordina le norme, i valori, i ruoli che l’individuo ha interiorizzato attraverso la socializzazione). Nella concezione di Parsons, l’identità è una struttura stabile e coerente, che rappresenta il sistema dei significati attraverso cui l’individuo si mette in relazione con l’universo culturale dei simboli e dei valori socialmente condivisi, consentendogli di dare senso alla propria azione, di operare scelte e di rendere coerente la propria vita. Attraverso la molteplicità delle interazioni sociali, l’individuo acquisisce una identità che – se matura e normale – ha una struttura stabile, che può subire solo modifiche lievi nel corso dell’intera sua vita.
Secondo la prospettiva interazionista, l’identità non è una struttura stabile della personalità, ma entità soggetta a continue trasformazioni, in relazione al processo di interazione sociale, realtà che si plasma a seconda dei ruoli che il soggetto assume. Si configura allora come la definizione che il soggetto offre di sé, rappresentazione che il soggetto stesso formula e sulla base della quale egli agisce nelle continue interazioni che il suo vivere sociale gli impone. Irving Goffman6 ha sottolineato il carattere di «molteplicità» dell’identità, in relazione ai numerosi – spesso contrastanti – ruoli che l’individuo ricopre, per ognuno dei quali adotta una specifica «maschera». Turner7 accentua il carattere sperimentale ed esplorativo dell’identità, prendendo le mosse dalla distinzione tra la concezione di sé, o identità, e l’immagine di sé, ipotizzando che l’identità sia paragonabile ad una congettura, che necessita di essere continuamente confermata. Ne consegue che, nel momento in cui si verifica un forte distacco tra concezione di sé e immagine di sé che gli altri rimandano, trattandosi di una seria minaccia per l’identità, l’individuo è spinto a non modificare la concezione di sé, ma a metter in atto quelle che Turner definisce azioni di identity-directed, volte a cercare azioni di sé che risultino confermanti.
Secondo l’approccio fenomenologico8, l’identità è un concetto essenziale per comprendere il processo mediante il quale la realtà oggettiva entra a fare parte della coscienza dell’individuo, diventando realtà soggettiva. Attraverso la socializzazione primaria, il mondo della vita quotidiana – costituito da un insieme di conoscenze e di schemi interpretativi dati, attraverso cui l’azione si regola per risolvere i problemi quotidiani – viene interiorizzato, divenendo parte integrante dell’identità del singolo. In altre parole, l’identità è struttura di organizzazione delle conoscenze, mediante la quale l’individuo realizza un rapporto simmetrico tra realtà oggettiva e traduzione soggettiva di questa stessa realtà9.
Nella prospettiva fenomenologica, dunque, l’identità è concetto fondamentale per comprendere il processo attraverso il quale la realtà oggettiva diventa soggettiva, entrando a far parte della coscienza degli individui.
È questa la prospettiva che condivido riconoscendomi debitore dell’approccio fenomenologico, meta-teorico, per il suo carattere di radicalità e concretezza, anteriore ad ogni schematizzazione e rigidità dottrinale10.
Lo sviluppo di fenomeni sempre più diffusi di ricerca di identità attraverso forme di partecipazione e di appartenenza a gruppi, ha spinto la ricerca sociale ad interrogarsi sul tema dell’identità quale elemento costitutivo delle identità collettive.
Se diversi autori11 ritengono che il concetto di identità sia attribuibile solamente ad un soggetto individuale e non sia trasferibile ad un soggetto collettivo – se non come multiplo di identità individuali – altri12 evidenziano l’urgenza di intervenire in un ambito di studio pur problematico, quale quello delle identità collettive (etniche, religiose, razziali, associazionistiche, politiche, ecc.) anche in considerazione del rapporto complesso che lega l’identità collettiva all’azione collettiva. Questa ultima è oggetto di studi approfonditi, rilevandosi la crescente difficoltà – nell’attuale realtà sociale globalizzata – di analizzare e valutare comportamenti collettivi che appaiono fortemente instabili. Si è così evidenziato che l’instabilità dipende dal fatto che il tessuto che compone l’inconscio collettivo (ossia, l’insieme di caratteri su cui si basa l’identità culturale di ogni comunità) nelle società sviluppate non è più abbastanza forte e non consente di capire e di prevedere i mutamenti degli orientamenti collettivi, quantomeno utilizzando i metodi e i sistemi di misurazione di cui le scienze sociali attualmente dispongono.
Di qui, il convincimento, da parte di taluni studiosi13, della possibilità che si accentui la mutabilità nelle opinioni e nei convincimenti, a tal punto da giungere a livelli patologici di insoddisfazione, di insicurezza e di assenteismo. Proprio tale degenerazione patologica dell’insoddisfazione sarebbe alla base dei comportamenti anti solidaristici e anti sociali che caratterizzano una parte consistente dell’agire collettivo contemporaneo.
Le scienze umane – in particolare la sociologia e la psicologia sociale – non possono esimersi dallo studio delle poliedriche forme che assumono questi comportamenti di disaffezione e di spaesamento collettivo, anche presenti nelle forme di paura e di rifiuto con cui il cittadino globalizzato cerca di sfuggire alle angosce e alla solitudine della vita quotidiana14.
Ritorna dunque il problema della definizione di cosa sia, oggi, l’identità di gruppo, giungendo a constatare – come suggerisce Etienne Balibar15 – che sovente l’identità di un individuo, di un popolo, si desume attraverso il suo non essere, o meglio attraverso l’insieme dei suoi non essere, attraverso, cioè, marcatori negativi: «bisogna cercare coloro rispetto ai quali si è del tutto differenti per poter scoprire (o promulgare) l’evidenza della propria interna similarità»16. Peraltro, mentre l’identità rimane comunque catalogabile per differenze, l’identità culturale resiste al semplice cambiamento per assumere difensivamente forme di invarianza verso qualsiasi trasformazione.
Ma – dobbiamo chiederci – ha senso parlare, al giorno d’oggi, di identità culturale? Non è forse più ragionevole sottolineare la pluralità delle identità culturali che convivono sul pianeta e che – se è vera l’affermazione di Balibar a proposito dell’intrinseco carattere invariante di ogni cultura – si configurano anzitutto come differenze culturali?
Ed in effetti, la perdita di centralità di quelle concezioni filosofiche che fondavano la realtà ed il sapere sul postulato di una ragione universale e unitaria, ha indotto a porre l’accento sulla pluralità, sull’autonomia delle culture, sulle differenze culturali.
Negli anni Sessanta del secolo scorso, si sono affermati non solo il pensiero «sessantottino», ma anche i movimenti di donne e di omosessuali, fonte di rivendicazioni attorno ad un’identità di genere, e – su un piano affatto differente – i gruppi che ponevano il problema di un’identità regionale, contribuendo al cosiddetto ethnical revival17 o la variante ecologista, con le battaglie per la preservazione della natura. Ancora, la medesima volontà di riscoperta di una propria identità culturale si è manifestata nei settori della malattia, dell’handicap, della determinazione razziale (movimenti dei neri americani) o etnico-religiosa (esperienza degli ebrei della diaspora a confronto con lo Stato di Israele).
Elemento comune a movimenti e identità culturali tanto differenti era (e rimane a tutt’oggi) la volontà di invertire lo stigma, attraverso un processo che conduce un’identità – sino a quel momento nascosta e rimossa – a volersi affermare come identità culturale, assunta come connotativa18.
Negli anni successivi, tali richieste di riconoscimento si sono evolute in vario modo, caricandosi di una maggiore e più netta valenza sociale, sovente unendo significati religiosi ad aspettative sociali, ma sempre sottolineando la differenza culturale.
Nell’attuale società globalizzata, la differenza culturale assume sempre più marcatamente il connotato di differenza etnica, nel senso che spesso l’identità culturale viene confusa con l’identità etnica (etnicismo), anche se – parallelamente – sempre si affaccia l’intento di mettere in guardia contro i tentativi di ridurre forzatamente l’identità culturale a carattere nazionale. Ambivalenza, questa, particolarmente presente in contesti in cui si ricerca l’identità tra nazione e cultura (le istituzioni internazionali, ad esempio).
L’identità è sempre comunque in movimento, costruita e inventata: assistiamo, attualmente, ad un grosso fenomeno di enfatizzazione identitaria che sta producendo etnocentrismi, esasperazioni volte a rafforzare un’appartenenza di sé, in opposizione all’appartenenza degli altri19.
Il dibattito antropologico più recente si interroga e discute su questi problemi interpretativi: se vogliamo dare una definizione di identità, dobbiamo dire che l’identità è il precipitato della diversità; che non si può pensare un’identità senza la relazione con la diversità. Ecco – allora – il discorso sulle minoranze, o meglio sulle «comunità linguistiche». L’idea di minoranza è, nell’estensione stessa dell’uso semantico, debole ed inadeguata in una società che ha come modello e paradigma di riferimento il modello quantitativo, cioè il numero che genera il consenso.
L’identità è il prodotto del consenso, cioè della condivisione intorno a determinate idee, modelli di comportamento, visioni del mondo. Orbene, se il discorso sulle minoranze deve essere analizzato nelle sue profondità, non si può non affrontare tale tema. Nella società della globalizzazione ed omologazione planetaria, e quindi attraversata dall’ansia identitaria, si afferma sempre più il bisogno – da parte dei gruppi sociali, da parte di enclave dissidenti quali sono le minoranze (secondo la definizione dell’antropologa inglese Mary Douglas20) – di essere riconosciuti, di superare la «crisi della presenza», ovvero la paura di non esserci più, secondo l’anticipatrice visione di Ernesto De Martino21.
In una società dell’omologazione totale, che senso ha parlare di gruppi che si vogliono autodiversificare? È qui in gioco il meccanismo dell’autopercezione: l’identità va riportata all’ambivalenza tra come i gruppi si autopercepiscono e come sono eteropercepiti.
Il senso di sé, che un gruppo sociale o una minoranza etnica possiede, è spesso diverso, in alcuni casi contrapposto, rispetto a quello che l’etnoantropologo ricostruisce; si apre quindi una forbice tra l’identità autopercepita e l’identità eteropercepita, distinzione sulla quale occorre fermarsi a riflettere.
Nel mondo industriale moderno, la cultura alta non è più privilegio di una minoranza, ma patrimonio della maggioranza della popolazione. L’accesso all’alta cultura attraverso l’istruzione è – secondo Gellner22 – l’elemento che consente all’uomo moderno di comunicare al di fuori del ristretto gruppo della sua cerchia di appartenenza, rendendo la società moderna potenzialmente cosmopolita. Per contro, sottolinea ancora Gellner, la realtà attuale mostra un’enfatizzazione del sentimento nazionale che contraddice l’ipotesi dell’avanzare di una sorta di internazionalismo, di una fratellanza universale, resa possibile dall’estensione della cultura e dell’istruzione.
Il concetto alto di cultura, nell’accezione attribuita a questa espressione da John Tomlinson23, è la cultura come bene globale, che consente di approssimarsi all’altro, favorendo l’abbattimento degli steccati ed una più ampia solidarietà.
IDENTITÀ ALPINA
Alla luce dei più recenti dibattiti socio-antropologici è ancora lecito parlare di «cultura» t...

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