Tristi montagne
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Christian Arnoldi

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PREMIO ITAS 2010CARDO D'ARGENTOLe cronache raccolte in queste pagine, che raccontano follie e drammi di individui e di famiglie che vivono sulle Alpi, provengono da un lungo elenco di vicende in gran parte sconosciute, sconcertanti e persino misteriose. Messe una dopo l'altra, queste cronache costituiscono la guida a una montagna triste fatta di angosce e solitudini maturate per lo più dentro le mura domestiche e sepolte come segreti inconfessabili dentro i confini delle comunità e dei villaggi, mentre intorno frotte di villeggianti inseguono divertimenti, svaghi, relax, serenità e benessere. Questo lato segreto e oscuro delle Alpi, troppo spesso taciuto – che contrasta con l'amenità dei prati e dei boschi, la graziosità dei villaggi, la timidezza dei montanari – svela l'estrema ambiguità e complessità della realtà alpina contemporanea, là dove si rileva l'esistenza di una struttura antropologica profonda che è l'intermittenza esistenziale, generatrice inarrestabile di tragici spaesamenti.

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Information

Year
2011
ISBN
9788880685609
CAPITOLO II
INVENZIONE E IMMAGINARI GLOBALI
Un giorno dovremmo interrogarci in modo più
sistematico sul metodo che l’immagine segue nei suoi
meandri e nei suoi intrecci, ma si può, per il momento,
riconoscere con Edgar Morin che essa « è l’atto
costitutivo radicale e simultaneo del reale e
dell’immaginario ».
MICHEL MAFFESOLI, La conquête du présent.

IMMAGINARI E REALTÀ
Nel capitolo precedente, presentando le paradossali e multiformi facce della montagna nella contemporaneità, abbiamo più volte fatto riferimento al termine invenzione.
L’abbiamo evocato in riferimento al processo di costruzione della montagna senza però darne una definizione precisa. Per cominciare dobbiamo dire che si tratta di un concetto estremamente importante in ambito sociologico, antropologico e storiografico e che negli ultimi trenta-trentacinque anni ha avuto particolare diffusione nella letteratura specialistica e nel dibattito scientifico. Ne sono esempio il volume The Invention of Culture1 di Roy Wagner; The Invention of Tradition2 curato degli storici Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger; L’invention du Mont Blanc3 di Philippe Joutard; La construction de la mémoire dans l’oasis d’El Ksar e L’invention de l’autre di Mondher Kilani4; il saggio Defining Tradition: Variations on the Hawaiian Identity5 di Jocelyn S. Linnekin.
In queste opere, gli autori, attraverso una lettura accurata e dettagliata di fonti, documenti, testimonianze orali e immagini, presentano un’analisi rigorosa di alcuni casi di invenzione: « le tradizioni della monarchia britannica », « le rappresentazioni dell’autorità nell’India vittoriana », « la tradizione nell’Africa coloniale », « l’identità di massa in Europa », « il Monte Bianco », « la memoria nell’oasi di El Ksar », « la passione per la vacca nel Vallese », ecc. In questi lavori tuttavia il concetto di invenzione non viene chiarito del tutto e viene usato in senso generico, allusivo. Hobsbawm, per esempio, nell’introduzione al libro da lui curato, lo associa a una forma di collage e scrive che nel caso specifico delle tradizioni si tratta di un « processo di ritualizzazione e formalizzazione caratterizzato da riferimenti al passato »6, senza definire e analizzare il concetto in sé; anzi egli addirittura ammette che il vero e proprio processo di creazione è ancora in buona misura oscuro. Nonostante ciò, soprattutto negli scritti di Hobsbawm, della Linnekin e anche di altri, trapela una certa assonanza del termine invenzione con quello di finzione; certe tradizioni secondo Hobsbawm sono « inventate di sana pianta »7, il che presuppone che ve ne siano altre non inventate e quindi originali, autentiche. Ecco dunque che il concetto di invenzione, senza nemmeno esser stato definito, viene assimilato a messa in scena, simulazione, imitazione; viene riferito a qualcosa di non autentico, cioè di falso.
A questo punto però sorge spontanea una domanda: come può un prodotto della collettività, quale è una tradizione, una festa, un rito, un mito, un paesaggio, essere inautentico? E ancora, come possiamo distinguere tra rappresentazioni collettive vere e rappresentazioni collettive fasulle? Esse sono in ogni caso il prodotto di una collaborazione, di una rete di relazioni, di scambi, di negoziazioni, instaurate all’interno di una cerchia, di un gruppo, di una comunità, di una società. Non è plausibile ritenere che alcuni dei prodotti di queste collaborazioni siano originali e altri contraffatti. Forse a questo punto sarebbe più corretto tentare di dare al termine invenzione un significato diverso. A nostro parere, per esempio, potrebbe essere messo in relazione con il lavoro svolto dalla coscienza collettiva per costruire, anzi, per fondare il sociale. Potrebbe essere legato cioè al modo di prodursi e riprodursi dell’essenza stessa delle società. Come sosteneva Émile Durkheim, le società sono anzitutto un fatto morale, cioè un insieme di idee e di rappresentazioni. In una delle sue opere più celebri, Le forme elementari della vita religiosa, egli scriveva che « una società non può né crearsi né ricrearsi senza, nello stesso tempo, creare qualcosa di ideale. Questa creazione non è per essa una specie di atto supplementare, con cui si completerebbe, una volta formatasi; è l’atto con cui si fa e si rifà periodicamente »8. Durkheim nega l’esistenza di una contrapposizione tra la società ideale e la società reale, a suo parere sono un’unica cosa: « Lungi dall’essere divisi tra di essi come tra due poli che si respingono, noi non possiamo appartenere all’una senza appartenere anche all’altra. Una società non è costituita semplicemente dall’insieme degli individui che la compongono, ma, in primo luogo, dall’idea che essa si forma di sé »9. E la capacità di idealizzare, cioè la facoltà di rappresentare, non è qualcosa di oscuro e di misterioso, non è un capriccio o un lusso, neppure uno svago o un passatempo di cui si potrebbe far senza; essa è una condizione fondamentale dell’esistenza umana. L’invenzione a nostro parere è strettamente legata al lavoro della coscienza collettiva, ovvero alla produzione di rappresentazioni le quali, come scriveva ancora il sociologo francese, derivano da « […] una immensa cooperazione che si estende non solo nello spazio, ma anche nel tempo; per dar loro vita, molteplici spiriti diversi hanno associato, mescolato, combinato le loro idee e i loro sentimenti »10. E la centralità di tali fenomeni collettivi poggia sul fatto che l’uomo è un essere duplice, formato cioè da due entità tra loro distinte: una individuale, la cui base organica è costituita da un sistema di cellule; l’altra sociale, le cui fondamenta sono costituite da un insieme smisurato di rappresentazioni.
In altre parole, introducendo altri concetti derivanti dalle elaborazioni della sociologia durkheimiana, la nostra ipotesi è che l’invenzione sia qualcosa che appartiene all’ordine dell’immaginario sociale o, come preferiscono alcuni autori contemporanei, del mondo immaginale. Chiariamo subito che da un punto di vista socio-antropologico la nozione di immaginario, contrariamente a quanto ritiene il senso comune e anche una parte della comunità di sociologi e antropologi, non ha nulla a che vedere con il fantastico e con il regno della fantasia; non è sinonimo di fiabesco, di fantomatico, di illusorio, di inesistente; immaginario non può e non deve essere contrapposto a reale. Esso è una dimensione, per certi versi simile a quelle spazio-temporali nelle quali si consumano le nostre esistenze biologiche, all’interno della quale l’umanità si plasma, si modella, prende forma, assume le sue molteplici fisionomie. Qui l’essenza umana, che come abbiamo appena detto è eminentemente simbolica e metaforica, sprigiona le sue forze e le sue facoltà per generare ogni tipo di rappresentazione. Usando le parole di Gilbert Durand, uno dei massimi studiosi dell’immaginario, potremmo definirlo « la rappresentazione ineludibile, la facoltà di simbolizzazione da cui scaturiscono continuamente tutte le paure, tutte le speranze e i loro frutti culturali dai circa un milione e mezzo d’anni che l’Homo erectus si è drizzato sulla terra »11. Grazie alla dimensione dell’immaginario, che è poi anche quella della simbolizzazione, l’uomo crea e fa emergere un proprio mondo di significati, un proprio universo di simboli, attraverso i quali il reale, ovvero il mondo che ci circonda e gli eventi attraverso i quali esso si manifesta, diviene non solo visibile ma addirittura socialmente accettabile, sopportabile, da un certo punto di vista persino controllabile.
La dimensione dell’immaginario che contemporaneamente è anche quella dell’immaginazione oltre che del simbolico, ha infatti il potere straordinario di animare il mondo, ovvero di dare un senso a ciò che ci circonda, a ciò che è altro da noi, come i grandi determinismi della natura che sono là fuori da sempre, da molto prima che l’uomo facesse la sua comparsa su questo pianeta. È l’immaginazione che si assume questo compito; essa, come scriveva Gaston Bachelard, un altro filosofo dell’immaginario, « […] inventa vita nuova; inventa spirito nuovo; apre occhi che hanno nuove possibilità di visione […]. La freschezza di un paesaggio è un modo di guardarlo. Naturalmente bisogna che il paesaggio ci metta un po’ del suo, bisogna che disponga di un po’ di verde e di un po’ di acqua, ma è all’immaginazione […] che tocca il compito più faticoso »12. Essa opera a partire da tutto quanto gli uomini hanno visto e udito, ovvero percepito, nel corso delle loro esistenze e « la riserva – scriveva John Ruskin manifestando una sorprendente sintonia con Bachelard – comprende per i poeti anche le più leggere intonazioni di sillabe colte nell’infanzia, per i pittori anche i più minuti drappeggi e le forme delle foglie o delle pietre. L’immaginazione riflette e spazia su tutto questo enorme tesoro, incommensurabile e non inventariato, guidata però dal sogno, e riesce a raccogliere in ogni momento i gruppi di idee che meglio si associano gli uni con gli altri »13. L’attività metaforica prende le mosse dunque da tutto ciò che viene percepito dall’umanità che vaga su questo pianeta inospitale e indifferente e poi attraverso un impasto e una lavorazione genera simulacri, immagini, allucinazioni.
L’immaginario dunque è una sorta di sistema multidimensionale e dinamico in grado di produrre e di conservare simboli e immagini, quei simboli e quelle immagini che plasmano la vita di una comunità; che, richiamando le parole di Émile Durkheim, « creano e ricreano una società ». Questa è una delle idee più interessanti e feconde del pensiero durkheimiano, dal quale nascono tra l’altro le teorie dell’immaginario, riprese anche da alcuni sociologi contemporanei come Pietro Bellasi e Michel Maffesoli i quali sostengono che la produzione immaginaria e simbolica è lo stato nascente della « sociabilità ». Secondo Bellasi « […] l’immaginario opera un’attività di arbitrarietà metaforica, investendo la realtà oggettuale ed evenemenziale del mondo di una carica di interazione simbolica, tramite la quale il mondo stesso accede alla parola e può raccontarsi come protagonista della condizione umana. Si potrà parlare cioè […] di metabolizzazione di ciò che la realtà esterna presenta di indefinito e di indefinibile: le frontiere nomadi dello spazio […] o quelle del tempo […] la vertigine degli infiniti punti di fuga lungo quella retta impazzita da noi chiamata “la realtà”, che ci è possibile guardare solo se coperta dalla maschera di un “senso” sociale »14. Allo stesso modo Maffesoli sostiene che l’immaginario è la fucina dell’organizzazione sociale stessa; « prima che una società riorganizzi la sua vita materiale, prima che elabori una strategia dell’utilità, in breve prima che essa si dia un progetto politico-economico o costituisca il suo potere, ha bisogno di una potenza immateriale, del simbolico, dell’inutile, tutte cose che si possono riunire nel termine “immaginario sociale” »15.
L’invenzione dunque appartiene proprio a questa sfera dell’esistenza, ne costituisce uno snodo fondamentale la cui funzione è quella di organizzare e di integrare simboli e immagini in modo tale da far assumere ad ognuno di essi senso e significato proprio in relazione ai rapporti e alle connessioni che tra questi si instaurano. L’invenzione allora non ha nulla a che fare con la finzione, con il falso, con l’artificiale; non è affatto paragonabile ad una messa in scena, ad una simulazione; non è una copia che tenta di imitare ciò che è autentico; essa è la « realtà », essa produce « realtà ». In ultima istanza è un modo specifico di operare dell’immaginario, attraverso il quale quest’ultimo procede a una strutturazione, ovvero a una integrazione dell’insieme di elementi simbolici tra loro eterogenei all’interno di sistemi complessi e autonomi, perfettamente funzionanti. Si potrebbe a questo punto, a mo’ di esempio, fare un parallelismo con l’invenzione di una macchina, quella a vapore. Essa è il processo di assemblaggio di una serie limitata di pezzi (pistoni, cilindri, stantuffi, ingranaggi, trasmissioni) scelti tra tutti quelli a disposizione dell’inventore, attraverso il quale crea un sistema integrato di elementi capaci di funzionare, cioè di produrre degli effetti reali, in questo caso di muoversi.
Allo stesso modo l’invenzione immaginaria partendo da un insieme di forme elementari di riduzione simbolica del reale, procede alla costruzione di macchine che producono effetti di « realtà », servono cioè per fabbricare « realtà ». Si tratta di una modalità estremamente complessa che potremmo definire di secondo livello, nel senso che opera con rappresentazioni e riduzioni simboliche già costruite e immagazzinate, opera con elementi già elaborati e cristallizzati dall’immaginazione. L’invenzione assembla e integra forme simboliche tra loro eterogenee all’interno di sistemi articolati capaci di generare tra queste nuove connessioni e inedite relazioni, attivando significati prima sconosciuti. Le funzioni dei nuovi sistemi di rappresentazioni così ottenute, delle macchine simboliche che sono di per sé più reali del reale stesso, sono quelle di produrre realtà.
Per fare un esempio concreto potremmo ritornare proprio all’invenzione della montagna da cui siamo partiti. Essa è una costruzione che risale più o meno alla seconda metà del XVII secolo. In effetti, benché le Alpi siano abitate e attraversate da millenni16 e i montanari abbiano avuto da sempre contatti con le popol...

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