L'età dell'eccellenza
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L'età dell'eccellenza

Innovazione e creatività per costruire un mondo migliore

Mauro Porcini

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L'età dell'eccellenza

Innovazione e creatività per costruire un mondo migliore

Mauro Porcini

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Il nostro mondo è in costante, vorticoso cambiamento: nel giro di pochissimi anni social media, globalizzazione, nuove tecnologie, perfino una pandemia, hanno cambiato forma a tutto ciò che conoscevamo. Ma queste rivoluzioni hanno aperto le porte a una vera e propria "età dell'eccellenza", a un futuro in cui le menti più creative e brillanti potranno creare idee, progetti e oggetti straordinari, che mettano al centro l'uomo e i suoi bisogni. Una nuova società, più prospera e felice. Ma cosa serve per avere successo in questa nuova era? Mauro Porcini, Chief Design Officer di PepsiCo, ha fatto dell'innovazione il proprio mantra e ha modificato radicalmente il modo di lavorare di alcune delle più importanti e ricche multinazionali al mondo: in questo libro, fondendo teoria e pratica, business strategy ed esperienze personali, incontri tanto con guru dell'imprenditoria quanto con star della musica e dello spettacolo (Lana del Rey, Tiësto, Jovanotti), spiega cosa significa essere innovativi e traccia la via che individui e imprese dovranno seguire per prosperare nel futuro, per liberare energie creative e per creare un mondo migliore, con al centro, sempre più, gli esseri umani.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2021
ISBN
9788865769201
parte seconda
Il laboratorio dei sogni
3. Alice nel paese del business
Il design al servizio dell’innovazione
Ogni realtà di business sta cercando di capire come gestire questo nuovo panorama sociale ed economico. Come da manuale, per molte organizzazioni il primo passo in questo viaggio evolutivo è solitamente quello di affidarsi a modelli preesistenti, nella speranza di trovarvi soluzioni semplici ed efficienti, che siano accessibili e facili da implementare. Questi modelli, nel mondo dell’innovazione, sono generalmente gestiti dal binomio marketing-ricerca e sviluppo. E quindi a quelle comunità professionali le aziende – piccole, medie e grandi – si rivolgono, chiedendogli di evolvere il loro modo di operare, adattandosi al nuovo scenario. E così professionisti educati e abituati a «performare» secondo modelli predefiniti, radicati nel modus operandi dell’intera comunità di business, tentano di reinventarsi, di ridisegnarsi, cercando di comprendere come fare innovazione reale e radicale, applicata a prodotti, brand e comunicazione, spesso per la prima volta nella loro vita. E i risultati sono per definizione a dir poco inconsistenti. Per molte industrie, in particolare nel largo consumo, si tratta di territori nuovi, inesplorati, pieni di trappole inaspettate. Quella che in passato veniva chiamata innovazione, fatta di evoluzioni incrementali di prodotti e marchi, non è più sufficiente. Lavorare in mono-dimensione, facendo leva su un solo vantaggio competitivo – il brand per esempio, o un brevetto tecnologico o ancora la distribuzione su larga scala – e difendendosi poi con barriere all’entrata, non è più sufficiente. Una semplice variazione del vostro prodotto, una variazione di formula, di stile, di colore, di meccanica, confezionata per generare news ed eccitare il sistema, non è più sufficiente. La competizione è più aperta e aggressiva che mai ed è tutta focalizzata sull’utente finale, sulla persona, sull’essere umano. Vince chi crea soluzioni rilevanti a 360 gradi, su dimensioni multiple: il miglior prodotto, il miglior brand, accessibile attraverso la migliore esperienza, comunicato nel modo migliore, distribuito nel modo migliore, con un servizio che sia il migliore possibile. Tutto insieme. È sufficiente non investire su una dimensione per lasciare aperto un pericoloso varco d’entrata a qualsiasi concorrente: se non risolvete voi un problema per il vostro target audience lo farà qualcun altro al posto vostro. Non potete difendere la vostra mediocrità, l’eccellenza vincerà. Prima o poi vincerà. Il vostro prodotto può essere eccellente in svariate dimensioni, ma se esiste anche una sola area di insoddisfazione per l’utente qualcuno prima o poi la sfrutterà per penetrare. La vostra città avrebbe potuto avere qualche anno fa il servizio taxi più efficiente del paese, con le auto più comode e pulite, con i prezzi più vantaggiosi. Forte di quel servizio e di un assoluto monopolio, quella vostra città non aveva sviluppato un’applicazione che consentisse a chiunque di ordinare e pagare la propria vettura in modo più rapido, comodo e intuitivo, con tempistiche d’arrivo chiare e monitorabili, evitando attese interminabili in aree non servite e garantendo una sicurezza personale mai esperita prima. La vostra città non aveva sviluppato tutto ciò semplicemente perché farlo sarebbe stato troppo complesso, troppo costoso, troppo laborioso. E assolutamente non necessario, secondo molti. Uber decise invece che fosse sia fattibile che necessario. L’insoddisfazione dell’utente era diventata il varco di accesso per la start-up di San Francisco. La storia racconta che l’episodio che fece scattare l’idea fu una corsa in auto con conducente pagata 800 dollari da Garrett Camp, uno dei fondatori. La frustrazione di Garrett innescò un processo creativo e imprenditoriale che evidenziò una serie di insoddisfazioni ben più ampie rispetto al costo della corsa e che portò poi alla creazione di una delle imprese più note e di successo nel mondo del trasporto urbano moderno. Un’impresa che ha aggiunto valore concreto nella vita di milioni e milioni di persone in giro per il mondo.
Ma l’atto di innovare, seppur complesso, non è sufficiente. A rendere la sfida ancora più ardua si aggiunge il fatto che l’innovazione deve accadere con velocità estrema e con frequenza accelerata. In un mondo globale e globalizzato, la percentuale di potenziali attori che stiano sviluppando soluzioni che possano competere con la vostra è esponenzialmente maggiore rispetto al passato. Questo alza il livello di difficoltà e di complessità. Occorre muoversi in modo accelerato, occorre arrivare primi sul mercato. E quando il vostro prodotto sarà finalmente commercializzato, ci sarà un altro esercito di concorrenti pronti a sviluppare qualcosa di superiore con l’utente finale in mente: non ci si può fermare. A Uber sono seguiti Lyft, Gett, le applicazioni dei taxi nelle varie città. E Uber a sua volta inizia a competere in modo più o meno impattante con i servizi di consegna – di prodotti e di cibo, da dhl a Grubhub – facendo leva sulla propria piattaforma per entrare in altre industrie, con lo scopo di servire l’utente finale in modo olistico e completo. In questo scenario complesso occorre un modo nuovo di operare, di progettare, di pensare, che sia multidisciplinare, ma totalmente connesso e integrato, che sia visionario, ma anche pragmatico, aperto e flessibile, rapido ed efficace. I modelli tradizionali e i loro attori spesso non hanno l’agilità, la competenza, la mentalità e l’approccio adeguati alla nuova sfida. E mentre nell’arco degli anni le aziende del mondo tentavano di adattare e formare processi e talenti esistenti alle sfide emergenti, una nuova comunità professionale ha iniziato a fiorire, a svilupparsi, a crescere sempre più sulla terra fertile di queste nuove sfide. Una comunità che per anni ha vissuto ai margini del cosmo del business, in una specie di eden protetto e isolato. Una comunità che solo recentemente ha iniziato ad avanzare fuori dal proprio territorio, navigando in modo incerto e avventuroso nelle nuove galassie siderali di quell’universo inesplorato. Una comunità fatta di progettisti umanistici e poliedrici. Una comunità chiamata design.
Definizione di design: lo stereotipo della cosmesi
Alcuni si chiederanno cosa abbia a che fare il design con l’innovazione o con il business. Chi si fa questa domanda non ha idea di cosa sia davvero il design. Eppure, coloro che si pongono questo interrogativo sono numerosissimi. In questo contesto diventa quindi indispensabile spiegare innanzitutto cosa si intenda con questo termine, spesso frainteso e male interpretato da molte comunità, professionali e non. Il significato della parola design è stato discusso, investigato, vivisezionato e decifrato, nell’arco degli anni, da un numero indefinito di professionisti e teorici. Nell’accezione comune, nell’utilizzo che ne fa la gente della strada, il design viene solitamente associato a due concetti: il bello e il lusso. Un oggetto di design, un abito di design, un’auto di design sono solitamente manufatti ad alto contenuto estetico e ad alto costo. La dimensione estetica in particolare è assoluta, prioritaria, senza compromessi, al punto che dal prodotto di design talvolta non ci si aspetta nemmeno una reale funzionalità. La funzionalità in altre parole diviene solamente un valore opzionale – un nice to have per dirla all’inglese. Il divano di design può eventualmente essere poco comodo, la scarpa di design può eventualmente essere difficile da indossare, la casa di design può eventualmente essere organizzata in modo poco pratico. La mancanza di funzionalità è spesso accettata come prezzo da pagare in nome di bellezza e originalità. Perlomeno nell’accezione comune. Questa interpretazione del design si focalizza però su una sola dimensione della disciplina, quella nota, quella glamour, quella più celebrata. Si tratta di una definizione estremamente limitata e limitante, adottata nel linguaggio quotidiano creando un fraintendimento interpretativo che poi si propaga ineluttabilmente anche nel mondo delle imprese. Quante volte nell’arco degli ultimi venticinque anni, nella giungla del business, mi sono imbattuto nello stereotipo del design inteso come decorazione formale e costosa dell’oggetto, contrapposta alla praticità essenziale del prodotto di stampo pseudo-ingegneristico. È il concetto del lipstick on a pig come lo chiamano gli americani: il rossetto sul maiale, la cosmesi della funzionalità – a prescindere dal fatto che quella funzionalità sia effettivamente presente o meno. Un’operazione che secondo il parere di molti è assolutamente opzionale, idealmente evitabile, il più delle volte, nella maggior parte delle industrie. In 3m chiamavamo quell’approccio al design cake decoration, la decorazione della torta. E la combattevamo con tutte le nostre forze. Se volete investire milioni di dollari in una funzione di design e letteralmente bruciare i vostri soldi allora escludete i vostri designer dai processi di sviluppo, dateli in mano esclusivamente a marketing e r&d e poi coinvolgete i creativi nel ruolo di decoratori (della torta) alla fine del percorso, prima della produzione, per fare qualche ritocco formale, per rendere il prodotto più bello. Posso sentire il fruscio dei milioni di dollari che vanno in fiamme. E posso visualizzare quei designer-decoratori che come Minions arrivano in fila chiamati dall’ingegnere o dal marketer di turno, armati di matite, Photoshop e stampanti (3d), per abbellire il prodotto funzionale o il packaging efficiente. Perché il business leader poco illuminato interpreta i designer-decoratori proprio come dei Minions: «Galoppini dalla limitata intelligenza strategica, gran creatività e immenso cuore», certamente incapaci di aggiungere reale valore all’inizio del processo, chiamati a svolgere un ruolo che per anni è stato opzionale nella maggior parte dei settori industriali e che solo recentemente sta diventando sempre più necessario a causa di quelle che molti considerano delle velleità dell’utente moderno e viziato. Talvolta c’è più rispetto per il professionista e per la disciplina, ma anche in quei casi resta lo stereotipo del creativo tutta passione e poca strategia. Ed è incredibile invece quanto questa interpretazione si distanzi anni luce da quella che è la realtà del design e la definizione formale e formalizzata di un’intera categoria professionale, articolata e teorizzata in documenti ufficiali, nella letteratura professionale, in percorsi di formazione scolastica, in lauree e master universitari, nell’arco di decine e decine di anni.
Definizione di design: estetica e funzionalità
Nel 1994, all’inizio del mio quinquennio di studi universitari al Politecnico di Milano, ci avevano fornito una definizione tecnica che era esponenzialmente più amplia di quella condivisa dai non addetti ai lavori: il concetto di design si riferiva alla capacità di ideare, progettare e creare oggetti d’uso da prodursi in serie, bilanciandone gli aspetti estetici e quelli funzionali. La serialità era indicata come una delle variabili principali che distinguevano il design dall’arte. Al fattore puramente formale noto alle masse si aggiungeva il concetto di funzionalità: il designer lavorava su entrambe le dimensioni, non era solo il maestro della forma come credevano erroneamente i più. Sognava e plasmava forme, ma doveva essere anche in grado di comprenderne la fisica, la chimica e la meccanica, per miscelare estetica e funzione in perfetto equilibrio dall’inizio dell’iter progettuale fino al lancio del prodotto sul mercato. L’ingegnere entrava in gioco nel corso del progetto, in dialogo con il designer, per garantire la fattibilità e la producibilità dell’idea, nonché per generare successivamente i disegni tecnici per la produzione. Ricordo in quegli anni i miei docenti più poetici che privilegiavano forma, significato e filosofia di progetto, come Andrea Branzi o Alessandro Mendini, e altri più tecnici che priorizzavano funzionalità, fattibilità ed efficienza, come Alberto Meda o Makio Hasuike. Ma a prescindere dalla vocazione personale, questi maestri avevano tutti un comune denominatore che li connetteva: erano sempre in grado di padroneggiare con eleganza e mestiere i due ingredienti fondamentali dell’impasto progettuale, l’estetica e la funzione, l’emozione e la materia, la poetica e la meccanica. Erano gli esordi della prima università del design in Italia* e da studenti avevamo l’incredibile opportunità e il raro privilegio di lavorare con grandi progettisti internazionali, che a Milano vivevano e praticavano la professione e che nel Politecnico trovavano una piattaforma per ispirare e per trovare ispirazione, in questo scambio con giovani menti brillanti, fresche di energia e cariche di ingenuità. È letteralmente incomprensibile come intere comunità professionali, nel business e nella scienza, ignorassero allora e spesso ignorino tuttora, in modo così diffuso e radicato, quelli che sono i principi fondamentali della pratica del design, relegandola alla sola dimensione estetico-formale, senza considerare tutta la formazione sugli aspetti tecnico-funzionali.
Definizione di design: persona, tecnologia e business
Nell’arco degli anni dell’università mi resi poi conto che in realtà il design si muoveva su territori ancora più estesi. Il nostro curriculum di studi al Politecnico di Milano si articolava su tre dimensioni fondamentali, a cui ogni corso era poi riconducibile.
  • La prima di quelle dimensioni era quella tecnica. Si studiava fisica, matematica, scienza dei materiali. Ogni progetto doveva considerare fattibilità e tecnologie di produzione.
  • La seconda era la dimensione dell’essere umano e della società. Si studiava antropologia culturale, etnografia, semiotica e una serie di discipline legate alle scienze umane.
  • La terza era la dimensione del business. Si studiava marketing, branding, economia aziendale.
Ogni soluzione progettuale doveva considerare, amalgamare e bilanciare i tre territori: doveva essere desiderabile (persona), fattibile (tecnologia/fattibilità tecnica) e commercializzabile (business/fattibilità economica). Nel momento in cui anche uno solo dei tre territori fosse stato trascurato il progetto stesso sarebbe crollato. Le tre aree erano studiate indipendentemente al Politecnico, separate verticalmente, come fili distinti che durante l’anno venivano poi tessuti e intrecciati l’uno con l’altro sul telaio dei vari progetti assegnatici. Questa separazione era parzialmente voluta per consentirci un approfondimento più puro e verticale delle varie discipline, ma era anche parzialmente casuale, generata dalla totale novità del corso di laurea e dalla mancanza di sinergie reali e consolidate tra i vari docenti provenienti da mondi diversi, in una facoltà appena formata in Italia e mai esistita prima. Quelle sinergie sarebbero nate solo col tempo e con l’esperienza, negli anni successivi. Ma quella collisione di universi distinti in un’unica piazza educativa fu per me invece estremamente preziosa. Mi insegnò a navigare il caos dell’indefinito, a pensare in termini di analisi e sintesi, a riconciliare dimensioni diverse e frammenti disconnessi in visioni olistiche e unitarie. E diventò poi il cardine primario della mia interpretazione allargata del design.
Essere umano e società, scienza e tecnologia, marketing ed economia: a queste tre dimensioni, nel curriculum di studi, si affiancavano poi tutta una serie di corsi tecnici per apprendere il mestiere, dal disegno a mano al design digitale, dalla progettazione 3d alla prototipazione, dalla fotografia alla teoria del colore. Ogni anno lavoravamo su tre progetti, spesso con aziende partner, dal piccolo produttore locale alla grande multinazionale. Tre progetti all’anno per quattro anni e poi il tirocinio e il grande progetto finale di tesi al quinto anno: tredici progetti, gradualmente sempre più complessi, organicamente sempre più vicini al mondo reale delle imprese. In questi progetti l’obiettivo variava costantemente a seconda della natura del prodotto e dell’azienda, ma l’approccio restava costante: l’identificazione di un utente e dei suoi problemi o desideri e la creazione di prodotti o servizi che potessero risolverli o esaudirli, che fossero producibili in serie e che fossero commercializzabili. Persona, tecnologia, business. Desiderabilità, fattibilità tecnica, fattibilità economica. Le tre lenti di ogni proc...

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