Le madri della Costituzione
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Le madri della Costituzione

Eliana Di Caro

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Le madri della Costituzione

Eliana Di Caro

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Il 2 giugno del 1946 gli italiani scelsero la Repubblica. Soprattutto, la scelsero anche le italiane, che andarono per la prima volta alle urne per quelle storiche elezioni (dopo il turno delle amministrative a marzo). Tra i 556 parlamentari che scrissero la Costituzione c'erano ventuno donne, oggi dimenticate dai più: il loro ruolo nell'Assemblea Costituente fu decisivo nel riconoscere i principi che sanciscono la parità nell'ambito della famiglia e del lavoro, e più in generale nel fare in modo che la società di questo Paese si aprisse alla modernità. Le loro vite - tra la Resistenza, l'attivismo politico, le lotte sindacali, l'impegno nella scuola - parlano da sole: per questo bisogna conoscerle. Le vite vissute e convergenti di 21 donne
che volevano realizzare,
con la parità fra cittadine e cittadini,
la libertà e la dignità di ogni essere umano.
Emilio Gentile

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Information

Publisher
IlSole24Ore
Year
2021
ISBN
9788863458411

LE ALTRE ELETTE ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE

Marchigiana. Adele Bei nel 1948 entrò al Senato di diritto: come la legge prevedeva per tutti coloro che erano stati in carcere almeno cinque anni durante il fascismo (foto gentilmente concessa dalla nipote Anna Bei).
Marchigiana. Adele Bei nel 1948 entrò al Senato di diritto: come la legge prevedeva per tutti coloro che erano stati in carcere almeno cinque anni durante il fascismo (foto gentilmente concessa dalla nipote Anna Bei).

Adele Bei

1904 – 1976
Comunista

Contadina, militante, esule, partigiana, carcerata, confinata, sindacalista, costituente, parlamentare: la vita della marchigiana Adele Bei è stata intensa e ha racchiuso le esperienze più forti dei primi 60 anni del XX secolo.
Nasce il 4 maggio 1904 a Cantiano, piccolo centro in provincia di Pesaro (a ridosso dell’Umbria), da Davide e Angela Broccoli. La loro è una famiglia priva di mezzi e molto numerosa: lei è la terza di undici figli – sette maschi e quattro femmine – cresciuti dalla madre, mentre il padre fa il boscaiolo come tanti, in quella zona, e come faranno gli stessi fratelli di Adele. Che, a 12 anni, deve lasciare la scuola per fare la bracciante e aiutare la famiglia. Una vita dura, in cui l’ingiustizia e le disparità si sentono sulla pelle e danno forza alle idealità socialiste condivise da tutti loro e rinsaldate, in Adele, dalla conoscenza di Domenico Ciufoli.
Boscaiolo e iscritto al Partito Socialista, nel 1921 al Congresso di Livorno il giovane Ciufoli è accanto ad Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci, Pietro Secchia e Umberto Terracini nella fondazione del Pcd’I. L’anno dopo, appena diciottenne, Adele Bei sposa Ciufoli ma la coppia, dopo la marcia su Roma e l’avvento di Mussolini, è costretta a lasciare l’Italia. Così nel 1923 i due vanno prima a Charleroi, in Belgio, dove nasce Angela (1924) e poi in Lussemburgo, Paese in cui viene alla luce Ferrero (1926). Domenico lavora in miniera ed è assorbito dall’attività politica cui partecipa anche lei, all’interno del Soccorso Rosso Internazionale, la rete costruita per aiutare gli oppositori del regime e le loro famiglie.
Nel 1928 si trasferiscono a Marsiglia, quindi a Parigi; Adele di lì a poco matura la convinzione di voler partecipare pienamente alla lotta antifascista e nel 1931 si iscrive al Partito Comunista d’Italia: sarà uno dei “fenicotteri”, coloro che viaggiano sotto falso nome per portare in Italia informazioni e materiale di propaganda. Un ruolo pericolosissimo, quello del “corriere”, per il quale spesso si privilegiano le donne perché meno riconoscibili. Nel novembre del ’33, però, mentre si trova a Roma, Adele Bei viene identificata e arrestata. Non dice una parola sui compagni e la loro organizzazione, nonostante botte, insulti, minacce e cinque mesi in una cella di isolamento. Di fronte al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che cerca di fare leva sul senso di colpa del suo essere madre, ribatte sprezzante: «Non preoccupatevi della mia famiglia, qualcuno provvederà; pensate piuttosto ai milioni di bambini che soffrono la fame in Italia. Appunto perché sono madre, sento il dovere di lavorare per l’avvenire di queste creature; per questo mi trovo di fronte a voi». Parole coraggiose e pesanti come la scure della pena che si abbatte su di lei: è condannata a 18 anni di reclusione nel carcere di Perugia, dove il suo esempio di intransigenza e dirittura morale conquista le altre detenute. Sono anni in cui studia e legge, di tutto: dai classici russi a testi di economia politica e storia, fino a Le vite di Plutarco. Nel frattempo i figli erano andati a vivere in Unione Sovietica, nel convitto di Ivanovo (a 300 chilometri da Mosca), dove si trovavano anche i figli delle coppie Longo-Noce, Togliatti-Montagnana e quelli di molti dirigenti comunisti stranieri. Il marito, che si muove tra Mosca e Parigi, alla fine del 1939 viene arrestato e poi, nel 1944, internato a Buchenwald: farà ritorno in Italia dopo la Liberazione nelle condizioni che possiamo immaginare.
Per Adele, dopo sette anni in carcere, nel giugno del ’41 è disposto il confino a Ventotene, dove ritrova la prima linea del partito (Terracini, Secchia, Mario Scoccimarro e altri) e Giuseppe Di Vittorio, con cui instaura un buon rapporto tanto che, una volta eletto segretario della Cgil, sarà lui a indicarla alla Consulta nazionale. Gli anni di segregazione nell’isola non sono facili per la mancanza di cibo – dimagrisce dieci chili – e per le condizioni generali: vivono e dormono in camerate con 25 letti, l’igiene è approssimativa, l’acqua scarseggia. Con la caduta di Mussolini, anche i prigionieri di Ventotene sono liberi, “al canto dell’Internazionale” sbarcano a Formia, da dove Adele raggiunge Roma: è il 18 agosto 1943. Contatta le brigate partigiane del Lazio e riprende la sua battaglia, se possibile con ancora maggior intensità. È tra le protagoniste della Resistenza romana: organizza e coordina l’azione dei Gruppi di difesa della donna (Gdd) reclutando e motivando tante militanti di ogni ceto e orientamento nell’azione quotidiana contro i nazisti (alla fine del conflitto le verranno attribuiti il grado di capitano e la croce di guerra al valor militare). Centro logistico è la casa della partigiana Carla Capponi: lì si tengono le riunioni, si definiscono le strategie, si decidono gli interventi, si individuano altre compagne da coinvolgere nella lotta. Pian piano nascono diverse sedi clandestine nei vari quartieri, il movimento cresce. Nell’aprile del 1944 scatta il drammatico assalto ai forni, con l’assassinio di Caterina Martinelli, uccisa da un tedesco con sua figlia in braccio e una pagnotta ancora in mano. Finalmente, il 4 giugno, gli Alleati arrivano in una Roma che è l’ombra di se stessa. Adele Bei non perde un minuto. C’è da ricostruire, e capire come trasfondere i valori della Resistenza nello Stato che verrà.
C’è il lavoro, che per lei è la priorità, e ci sono le donne che non possono certo tornare alla condizione preesistente sotto il regime fascista. È questo il doppio binario di riferimento, per la comunista marchigiana. Nell’autunno del ’44 partecipa alla fondazione dell’Unione donne italiane (Udi), nel cui primo congresso sarà nominata dirigente. Nel 1945 entra a far parte della Consulta, unica fra le 13 rappresentanti a essere indicata da un organismo non politico. Nella stessa assemblea consultiva siede il marito Domenico Ciufoli, rientrato da Buchenwald, ma non è – e non sarà – l’unione di una coppia che si ritrovata dopo anni di lotta e sofferenze. Il grande dolore per la morte del figlio Ferrero, che era tornato in Italia con la sorella dall’Unione Sovietica, li allontana e divide la famiglia, già provata dalle pesanti vicissitudini.
Candidata alla Costituente dal Pci, Adele Bei viene eletta nel collegio di Ancona-Pesaro-Macerata-Ascoli Piceno con 7.549 voti. Le è quindi conferito l’incarico di segretaria della Terza Commissione per l’esame dei disegni di legge. La sua voce si farà sentire nel corso del biennio, sia cofirmando emendamenti proposti dalle colleghe, sia nella seduta del 18 febbraio 1947: nell’ambito della discussione sulle dichiarazioni del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, prende la parola contro la soppressione del ministero dell’Assistenza post-bellica, sostenendo che l’emergenza non si è certo esaurita e sottolineando quanto di buono e utile era stato fatto sino a quel momento: sul fronte delle colonie estive, delle cooperative per il lavoro di reduci e partigiani, delle scuole professionali, delle mense popolari. «Vogliamo assistere il popolo, perché vogliamo riportare la serenità nella famiglia, e la serenità non si porta solo a parole, ma si porta a fatti, si porta con l’assistenza fattiva», osserva con fermezza Bei.
Sempre nel ’47, al primo Congresso nazionale della Cgil, la politica marchigiana – che nel sindacato è responsabile della Commissione consultiva femminile – presenta la Carta della lavoratrice, dove viene enunciato il principio irrinunciabile che una lavoratrice gode degli stessi diritti di un lavoratore per ciò che riguarda il tipo di contratto, il salario, l’assistenza. Una mossa quasi rivoluzionaria, allora, accompagnata dal monito ai colleghi riuniti a Firenze: «Tenete conto, compagni, che molte di queste donne sono state ieri una forza decisiva per la cacciata del tedesco invasore dell’Italia, saranno oggi la forza decisiva per la ricostruzione del nostro Paese». L’anno dopo, Adele Bei lascia l’incarico all’interno della Cgil e si dedica all’Associazione donne della campagna (che fa capo all’Udi) della quale diventa presidente: nessuno può capire meglio di lei le ragioni delle contadine, il loro isolamento nelle case coloniche, la loro fatica. Si associano in 100mila.
Il lavoro, come si è detto, è centrale nella sua visione politico-sociale, per questo farà parte della commissione a esso dedicata al Senato, quando nel 1948 entra nella Camera Alta di diritto, come spetta a chi è stato in carcere per almeno cinque anni sotto il fascismo. Sia in questa, sia nel corso delle successive due legislature in cui è eletta a Montecitorio, Bei è molto attiva sul territorio marchigiano che rappresenta: ascolta casalinghe, braccianti e operaie ricordando agli uomini del suo Partito che c’è troppa disattenzione nei confronti delle donne, sempre trascurate nel dibattito pubblico. Saranno per queste ultime i suoi interventi in Parlamento, per esempio a sostegno della legge sul divieto di licenziamento di chi sta per sposarsi, o a favore delle provvidenze per le mondariso, sollecitando un intervento anche al Sud per le «raccoglitrici di olive, di castagne, di gelsomini, che lavorano per ore e ore giorno e notte per guadagnare poche lire in condizioni veramente disumane».
Sono le prove generali della grande battaglia che porterà avanti per le cosiddette tabacchine, cioè le addette alle piantagioni di tabacco per la selezione, l’impacchettamento e l’essicazione delle foglie. Ritmi massacranti, a temperature proibitive e senza neanche l’inquadramento tra i lavoratori dell’industria, che queste operaie invece rivendicano. Bei ci si dedicherà con tutte le sue forze, visitando stabilimenti in varie regioni, scrivendo articoli, concedendo interviste. È anche grazie a lei che le tabacchine otterranno, nel 1957, un aumento del salario e misure previdenziali simili a quelle degli altri lavoratori.
Con la chiusura della III legislatura (1958-1963), per Adele Bei finisce l’impegno parlamentare, del quale va ricordata anche la proposta di riforma del sistema carcerario (sapeva di cosa parlava). Ma non finisce il suo attivismo. Come ricorda la nipote Anna Bei, conserva un ufficio all’Anpi di Roma e da lì si mobilita per mille iniziative. Né manca di frequentare, naturalmente, la sezione del partito. La ferma solo la malattia, che la porta via il 15 ottobre 1976.
Anna, classe 1953, figlia di Giuseppe, il più piccolo degli undici fratelli e sorelle Bei, ha ricordi vivi di sua zia. «La nostra è sempre stata una famiglia unita, le sorelle maggiori hanno fatto da mamme ai fratellini perché la nonna morì presto. Il punto di riferimento era zia Adele con la quale poi mio padre e mia madre hanno abitato a Roma, a piazza Bologna, insieme a mia cugina Angela». Impossibile dimenticare «il piglio, la personalità… anche fisicamente lei era una persona imponente». Il primo ricordo di Anna risale a quando «da bambina, zia Adele mi portò per la prima volta alla sezione del partito, nel quartiere di Montesacro. Sentii cantare “bandiera rossa” e tutte le canzoni militanti, che lei poi mi ha insegnato. Era orgogliosa di portare la nipotina con sé». Il racconto si sofferma sulla drammatica vicenda familiare: «Mio cugino Ferrero rientrò in Italia con la sorella. Non stava bene, gli fu diagnosticata la tubercolosi ossea. La sua morte fu un grande dolore per gli zii e per la primogenita Angela che ne fu segnata profondamente».
Il rapporto tra Adele e la figlia sarà difficile. «Durante l’infanzia e l’adolescenza trascorse in Unione Sovietica, lontana dai genitori, Angela era solitaria, appartata, triste. Quando è tornata, si è legata sempre più al padre: condividevano la passione per l’arte, il cinema, il balletto cui lo zio si era dedicato una volta lasciata la politica. Lei sapeva le lingue, era traduttrice e giornalista, a Roma ha lavorato per l’agenzia di stampa “Ria Novosti”». Minori erano le affinità con la madre, di cui peraltro non apprezzava il nuovo compagno. Anna, oggi insegnante in pensione, ricorda anche i racconti del carcere, di zia Adele: «È lì che ha letto, ha studiato, lei che aveva dovuto lasciare la scuola dopo la terza elementare. Mi diceva che per le detenute politiche – tra le quali Camilla Ravera – le condizioni erano durissime».
Quando Anna si è iscritta al Pci (come anche Angela e vari altri membri della famiglia) e partecipava alle manifestazioni negli anni del Sessantotto, «zia Adele poi mi chiedeva com’era andata, se c’era stata partecipazione… e mi raccomandava sempre: “attenti agli estremismi che possono dividere il partito. Noi abbiamo lottato tanto per restare compatti pur nelle differenze”.
Un altro messaggio forte riguardava l’unità e lo spirito di collaborazione delle donne alla Costituente, presente anche tra comuniste e cattoliche: “in fondo, diceva zia Adele, ciò che predicava il cristianesimo è quello che vogliamo noi comunisti”».
Toscana. Bianca Bianchi era una delle due socialiste dell’Assemblea Costituente (insieme a Lina Merlin).
Toscana. Bianca Bianchi era una delle due socialiste dell’Assemblea Costituente (insieme a Lina Merlin).

Bianca Bianchi

1914 – 2000
Socialista

«Dal 1946, quando fui eletta deputato per la prima volta, mi chiedo ancora quale significato possa avere la presenza della donna nella vita politica, quale influenza possa esercitare nella logica del partito, fino a che punto le sia possibile sviluppare la libera iniziativa, le naturali qualità di intuizioni e di essenzialità, quanta responsabilità possa conquistare al centro del sistema e quanti problemi scomodi possa sollevare senza essere emarginata. Poiché gli uomini “maschi” controllano il potere, la “politica”. Alla donna che si avvicina al punto focale vengono chieste credenziali più pesanti e i ruoli che le vengono affidati sono circoscritti a settori considerati “prepolitici”, quasi una continuazione del “quotidiano”: la famiglia, la sanità, i servizi sociali, l’assistenza agli anziani e così via. (…) Non c’è una politica per gli uomini e una per le donne perché i problemi umani non hanno sesso»: in queste parole taglienti e disincantate – oltre che estremamente attuali – c’è l’essenza della socialista Bianca Bianchi, che qui (siamo nel 1988 e l’intervento è scritto per i 40 anni della Costituzione) sembra tracciare un bilancio negativo anche della propria esperienza. Eppure la parlamentare toscana non è stata certo inerte, nel corso di una vita all’insegna della tenace affermazione delle proprie ragioni.
Nasce a Vicchio, in provincia di Firenze, il 31 luglio 1914 da Adolfo e Amante Capaggi. Il papà è il fabbro del paese, la mamma casalinga, lei è la secondogenita dopo Margherita. Le difficoltà economiche non mancano, nella vita quotidiana, ma la situazione precipita quando muore Adolfo. Bianca, a sette anni, perde chi la capisce, chi le insegna cosa vuol dire il socialismo e stare dalla parte dei poveri. Amante e le due sorelle si trasferiscono a Rufina, a casa dei nonni materni. Nonno Angiolo, contadino antifascista, entra subito in sintonia con la più piccola, la stimola a studiare e grazie a lui Bianca si iscrive all’Istituto magistrale, a Firenze, e poi alla facoltà di Lettere e Filosofia, laureandosi nel 1939 (successivamente anche in Pedagogia). Il professor Ernesto Codignola la segue per la tesi, dedicata al pensiero religioso di Giovanni Gentile e pubblicata un anno dopo, a conferma delle spiccate doti della ragazza nell’uso della parola, virtù che più tardi dimostrerà anche nell’oratoria.
Bianchi trova subito lavoro nella scuola, ma dopo un peregrinare tra Genova e Cremona, viene spostata in Bulgaria, dove insegna lingua italiana: in piena epoca fascista, con le leggi razziali in vigore, la sua pervicacia nello spiegare ai ragazzi gli elementi della cultura e della storia ebraica non le era stata perdonata. L’esperienza oltreconfine dura un anno, Bianchi torna nel giugno del 1942 e, caduto Mussolini, dà il suo contributo alla Resistenza distribuendo volantini e trasportando armi.
L’urgenza della partecipazione alla vita politica si manifesta con la fine della guerra, durante un comizio a Firenze (dove nel frattempo ha ripreso a insegnare, al Liceo classico Galilei). Come racconta lei stessa, in uno dei suoi scritti, nella primavera del ’45 il democristiano Giancarlo Zoli stava parlando alla folla e anche lei era in ascolto: «Le cose che disse l’oratore mi spinsero verso orizzonti opposti. Non ero preparata. Ma quando lui finì e chiese se qualcuno voleva esprimere la sua opinione, io mi alzai e domandai la parola. Parlai con passione, entusiasmo: le sofferenze passate mi premevano dentro, lo chiamai “pompiere” perché mi pareva volesse spegnere il fuoco della speranza e di rinnovamento. La gente aveva bisogno di idealità. Voleva riconquistare la dignità umana, era disposta ad assumersi responsabilità faticose o almeno così credevo: sentivo di pormi gli stessi interrogativi di chi mi ascoltava, di parlare il linguaggio che avrebbero usato loro stessi». Risulta efficace e coinvolgente, Bianca Bianchi, tanto che le si avvicinano degli esponenti socialisti e la invitano ad andare alle loro riunioni. Il passo, da lì alla candidatura nel 1946 nel Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Psiup), è breve dopo che la giovane riscuote il consenso dei cittadini in tanti comizi, in città e in provincia.
Presto, però, arriva il primo schiaffo: se nel congresso provinciale viene indicata come capolista, da Roma il partito contrasta la scelta e impone la forte personalità di Sandro Pertini. Non solo: le presenteranno un foglio, racconterà lei tempo dopo, con le dimissioni “in bianco” da deputata (che ovviamente, indignata, rifiuta di firmare). La risposta degli elettori, il 2 ...

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