Chi ha paura dei vaccini?
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Chi ha paura dei vaccini?

Andrea Grignolio

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Chi ha paura dei vaccini?

Andrea Grignolio

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Il richiamo dell'OMS all'Italia per il pericoloso calo delle vaccinazioni e la pandemia da coronavirus che ha investito il mondo intero sono gli episodi più recenti che rendono quello dei vaccini un tema oggi cruciale che riguarda la società e il suo futuro.I vaccini sono fra le scoperte scientifiche più importanti per il genere umano, eppure continuano ad essere guardati con sospetto da parte dell'opinione pubblica, vittima di campagne di disinformazione, di strumentalizzazioni e di paure infondate. Queste credenze irrazionali hanno però una spiegazione evolutiva, senza la quale sarà difficile risolvere la crescente opposizione sociale."Chi ha paura dei vaccini?" fa luce sulla storia, la sicurezza e l'importanza delle vaccinazioni, ed è dedicato sia ai genitori sia a chi vuole capire il ruolo dei vaccini nella società contemporanea, in cui il facile accesso al sapere online è tanto una grande opportunità quanto una grande responsabilità. I capitoli si sviluppano attraverso una narrazione storica e si concludono discutendo le più?recenti teorie sui bias cognitivi per affrontare le resistenze verso le vaccinazioni.Edizione rivista e aggiornata, con un nuovo capitolo dedicato alla storia delle epidemie e al vaccino contro il COVID-19.Testi introduttivi di Riccardo Iacona e Paul A. Offit, postfazione di Gilberto Corbellini

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Information

Year
2021
ISBN
9788875789855

Capitolo 1

I genitori dei bambini non vaccinati

Gli anni Ottanta, l’inizio del declino
I movimenti antivaccinali hanno una storia lunga e istruttiva, che nasce in Inghilterra a fine Settecento assieme alla pratica della vaccinazione contro il vaiolo. Storicamente, quindi, non possiamo dire che l’opposizione alla vaccinazione sia una novità; piuttosto, oggi la novità è rappresentata dal numero sempre più alto di persone coinvolte e dal loro status sociale. Inoltre, stiamo assistendo per la prima volta a una regressione nella copertura vaccinale della popolazione dopo due secoli di lento ma inesorabile avanzamento: qualcosa dunque di ben diverso dall’opposizione alla vaccinazione avvenuta in passato da parte di alcuni gruppi marginali.
Stiamo perdendo la cosiddetta immunità di gregge (detta anche immunità di comunità, di gruppo o di branco) che permette alle malattie infettive di non diffondersi all’interno di una popolazione se una certa percentuale di individui (che varia dall’85 al 95 per cento, a seconda della contagiosità delle malattie) è stata vaccinata; un concetto centrale su cui torneremo più volte. Questo calo nelle soglie di copertura vaccinale non è facile da spiegare, ma la storia, come sempre, può aiutarci a capire.
In passato la pratica vaccinale era qualcosa di sconosciuto a cui le popolazioni, caratterizzate da un tasso di alfabetizzazione molto basso, dovevano sottoporsi, accettando una procedura che ai loro occhi non poteva non apparire controintui-tiva: inoculare un agente infettivo attenuato in persone sane per immunizzarle verso probabili epidemie future. Eppure durante l’Ottocento tale pratica riuscì a diffondersi da Londra, dove ebbe inizio l’inoculazione preventiva del vaiolo attenuato, verso l’Europa e gli Stati Uniti, complice (come vedremo nel Capitolo 5) l’attiva partecipazione di ampi strati della popolazione colta e soprattutto della nobiltà, insieme ovviamente ad altri fattori come l’alfabetizzazione e la promozione dell’igiene pubblica.
Dopo quasi due secoli di lotta al vaiolo, negli ultimi anni dell’Ottocento emersero i primi vaccini contro rabbia, carbonchio, difterite e colera, ma la vera esplosione delle vaccinazioni avvenne nel Novecento, che possiamo definire il secolo dei vaccini. Malattie ad alta mortalità (con nomi ancora oggi terrificanti: peste, tubercolosi, tifo, febbre gialla e vaiolo), che avevano falcidiato milioni di persone, iniziarono per la prima volta a recedere grazie alla profilassi vaccinale. Insieme al vaiolo, anche l’eradicazione della poliomielite – dopo aver raggiunto a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso la massima diffusione negli Stati Uniti e in Europa – fu un successo senza precedenti: nel dicembre del 1979 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (d’ora in poi OMS) annunciò la scomparsa globale del vaiolo, mentre nel 1979 e 1982 si registrarono gli ultimi casi, rispettivamente negli USA e in Italia.
Gli anni Settanta sono stati con ogni probabilità il punto più alto del successo e del coinvolgimento della popolazione, essendo anche il decennio in cui è stato introdotto il vaccino pediatrico trivalente (MPR) per il morbillo, la parotite (comunemente nota come orecchioni) e la rosolia, malattie che in genere colpiscono i bambini entro i cinque anni di vita e che, al contrario di quanto si crede, hanno un tasso di mortalità non trascurabile.
Nessuno, quindi, all’inizio degli anni Ottanta avrebbe potuto immaginare che da quel momento sarebbe iniziata una crescente sfiducia nelle vaccinazioni, sfiducia che oltretutto si sarebbe diffusa tra le fasce di popolazione più istruite e abbienti, e che vede oggi diversi Paesi occidentali, Italia compresa, avere intere regioni sotto la soglia di sicurezza per malattie quali morbillo, difterite, rosolia, parotite, pertosse e alcune forme di meningite. Detto altrimenti, per quali ragioni, dopo due secoli di successo contro terribili malattie infettive, a partire dagli anni Ottanta genitori appartenenti a democrazie avanzate, con un buon livello di istruzione e un discreto o alto status economico-sociale – tutte caratteristiche che di solito sono correlate alla longevità e a un efficiente rapporto con i migliori comportamenti medico-sanitari – mostrano un atteggiamento irrazionale verso le vaccinazioni, rifiutando questo trattamento per i propri figli?
Le ragioni di tale inversione di tendenza saranno discusse e articolate in modo dettagliato nel corso del libro, ma è bene qui accennare le principali, focalizzando l’attenzione sui genitori di bambini in età vaccinale (3 mesi-15 anni). Le ragioni sono fondamentalmente tre: neurocognitive, sociali ed evolutive. Iniziamo con le prime.
Una spiegazione neurocognitiva: istruzione e rischio
Le vaccinazioni sono una profilassi (dal greco prophylaxis, ovvero “prevenire”, “preservare”, da cui anche preservativo, inteso come profilattico maschile contro le malattie sessualmente trasmissibili), un trattamento preventivo fatto di norme e provvedimenti che si devono adottare, collettivamente o da parte di singoli, per la difesa contro la diffusione di determinate malattie, infettive e non. A differenza delle altre pratiche profilattiche, che rientrano nelle norme della medicina preventiva, quella vaccinale è piuttosto controintuitiva e quindi particolarmente difficile da comprendere. Prendiamo l’esempio di due casi noti come l’igiene orale o l’amianto. Lavarsi quotidianamente i denti con lo spazzolino e un dentifricio al fluoro fa parte della profilassi dentale per tenere sotto controllo la placca batterica e il tartaro, e per rimuovere residui di cibo e zuccheri. L’igiene orale è qualcosa di percepibile, oltre che una questione estetica e perfino culturale. Inoltre, chi la trascura va incontro a una progressiva infiammazione gengivale e infine a spiacevoli mal di denti; un processo patologico graduale e tangibile.
Meno evidenti, ma sempre ben comprensibili, sono le ragioni della profilassi dei luoghi di lavoro dove sono presenti polveri o particelle pericolose per la salute umana. Si tratta di casi in cui è nota l’alta incidenza di malattie da intossicazione, specie nella comunità dei lavoratori di determinate aziende chimiche. Sebbene l’agente da cui difendersi non sia visibile a occhio nudo e le patologie non siano a graduale insorgenza, come invece nel caso dell’igiene orale, la profilassi per l’amianto consiste comunque in procedure percepibili, come la bonifica degli ambienti di lavoro, la limitazione della produzione e della diffusione delle polveri nocive, e infine nella riduzione dell’esposizione umana tramite maschere, tute e aspiratori ecc.
Il caso delle vaccinazioni, ovvero della profilassi contro malattie infettive tramite inoculazione dell’agente patogeno a scopo preventivo (vedremo che ci sono anche vaccini terapeutici), è ben più complicato da comprendere e accettare. Occorre riflettere sul fatto che le vaccinazioni pediatriche sono un trattamento farmacologico che si applica non sugli adulti in contesti malsani, ma su bambini sani che vivono in ambienti (apparentemente) sicuri; si tratta di una differenza sostanziale. Per capirlo basta esaminare i casi di bambini affetti da gravi patologie causate dal cancro, dalle malattie autoimmuni o anche da traumi fisici rilevanti: in essi le resistenze dei genitori nei confronti di farmaci terapeutici o analgesici, che certo non sono privi di possibili reazioni avverse ed effetti collaterali, sono quasi nulle. Di fatto, quando si ha a che fare con la presenza di una malattia o del dolore fisico, la scelta dei rischi/benefici di un farmaco viene fatta su basi piuttosto razionali e pragmatiche.
A differenza degli altri farmaci, il vaccino si deve invece somministrare a un figlio in buono stato di salute: inoltre, da chi non ne conosce le procedure di produzione controllate, sicure e certificate da continui studi e organismi internazionali, esso è percepito come un trattamento farmacologico potenzialmente rischioso, essendo perlopiù noto come l’inoculazione di un agente patogeno a virulenza attenuata (come vedremo meglio nel Capitolo 5). Quello “vivo attenuato” è però solo uno dei possibili modi per produrre vaccini: vi sono anche i vaccini “inattivati” (in cui l’agente infettivo è stato ucciso), quelli a subunità e tossine patogene, e infine quelli costruiti con strategie molecolari a partire dal materiale genetico (i vaccini proteici ricombinanti, come per epatite B e meningococco B) o da porzioni proteiche dell’agente patogeno (vaccini ad antigeni purificati, come per la pertosse acellulare). Non è sempre facile per un genitore accettare che nel circolo sanguigno del proprio figlio venga iniettato un agente patogeno, o un suo derivato, a scopo puramente preventivo. Si potrebbe pensare che questa prima ragione di rifiuto da parte dei genitori non sia da ascrivere solo alle generazioni vissute negli anni Ottanta, ma tra poco vedremo come in realtà sia a partire da quel periodo che tv e giornali hanno iniziato a far circolare credenze errate e storie ansiogene a proposito dei vaccini, facendo aumentare nei genitori la percezione dei rischi della vaccinazione anziché delle malattie da cui essi ci proteggono.
Lo stesso concetto di prevenzione, inoltre, è fonte di grande confusione, e rimanda a un secondo problema di ambito neurocognitivo: al giorno d’oggi, in effetti, ci si vaccina in presenza di un rischio non osservato, ma solo immaginato. Per fortuna le malattie infettive sono pressoché assenti, ma i microbi che le causano non sono di certo spariti. A partire dagli anni Ottanta la scomparsa nelle vie delle nostre città di malati di poliomielite semiparalizzati, tubercolotici disfatti dalla tisi o di persone sfregiate dal vaiolo hanno anche rappresentato la perdita di efficaci allarmi sociali, di testimoni utili alla percezione del rischio collettivo. Anche in questo caso, non tutti i genitori sono disposti ad affrontare razionalmente un rischio reale ma non visibile. Non è raro poi sentir dire che nei Paesi occidentali le malattie infettive “gravi” sono ormai scomparse, o che malattie “minori” come morbillo, difterite, varicella, pertosse e tetano possano essere contratte naturalmente dai bambini non vaccinati senza rischi. In realtà, sia la patogenicità (la capacità di un microrganismo di infliggere un danno all’ospite e dare malattia) sia la contagiosità (la capacità di un microrganismo di trasmettersi naturalmente da un animale infetto, anche se portatore sano, a uno ricettivo) delle malattie infettive sono state attenuate proprio grazie alla diffusione dei vaccini (si rimanda ancora al Capitolo 5). Per questo, rispetto a trent’anni fa, oggi le malattie infettive di età pediatrica sono meno aggressive e comuni; prova ne è il fatto che il recente calo delle coperture vaccinali ha invertito tale tendenza, facendo riemergere ceppi molto virulenti che hanno causato diverse morti.
Solo per citare alcuni dati recenti e relativi ad aree geografiche a noi prossime, nel 2015 hanno perso la vita diversi bambini non vaccinati, in particolare: a marzo, una bimba di quattro anni all’ospedale Bambin Gesù di Roma, a causa del morbillo; a ottobre, una bimba di un mese – dunque vittima della mancata immunità di gregge, essendo priva di copertura perché in età prevaccinale – a Bologna, per la pertosse; a giugno un bambino di sei anni in Spagna per difterite (un allarmante ritorno a trent’anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1986!); infine in Toscana un focolaio di meningite ha portato al decesso sette persone. Tale epidemia nei soli primi tre mesi del 2016 ha già ucciso quattro persone sempre in Toscana, mentre tra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016 a Milano si è registrata un’emergenza sanitaria contro il morbillo: cinquanta casi e diverse ospedalizzazioni. Infine, a metà marzo 2016 in Belgio una bambina di tre anni, priva di vaccinazioni, è morta di difterite presso l’ospedale di Anversa, senza che i medici riuscissero a trovare i medicinali necessari (antisiero difterico) contro una simile malattia infettiva ritenuta, erroneamente, ormai debellata.
Vi è ancora un terzo ragionamento piuttosto complicato che sfugge ai genitori che si oppongono alle vaccinazioni: è l’idea che si possa evitare di vaccinare il proprio figlio in considerazione del fatto che tutti gli altri sono già immunizzati dalle vaccinazioni. Si tratta di un ragionamento sbagliato e moralmente discutibile, perché ignora un elemento centrale: le vaccinazioni funzionano come fenomeno collettivo, non individuale. Quando virus e batteri entrano in un individuo si moltiplicano a grande velocità, e nel farlo mutano in modo sensibile, modificando la propria conformazione e finendo per differenziarsi rispetto ai ceppi standard iniziali su cui sono stati costruiti i vaccini.
Un po’ come nel gioco del telefono senza fili, dove una frase detta al primo componente di un gruppo giunge all’ultimo destinatario piuttosto stravolta, così il virus, da infezione a infezione, modifica le proprie caratteristiche divenendo difficile da individuare. Ciò significa che se in una classe vi sono dei bambini non vaccinati, non solo, come è ovvio, loro stessi sono quelli più in pericolo nel caso in cui circoli un agente infettivo, ma, meno intuitivamente, essi rappresentano gli organismi ospiti (detti reservoir) in cui si sviluppano e diversificano i patogeni, che acquisiscono così la capacità di infettare anche i compagni vaccinati, il cui sistema immunitario non riconosce le forme mutate; è su questo meccanismo che si basa l’immunità di gregge. Se il 95 per cento di una classe è vaccinato (poniamo 19 bambini su 20), allora è improbabile che il virus si diffonda, perché anche qualora un bambino non vaccinato venisse infettato, il numero di trasformazioni (mutazioni) dell’agente patogeno incubato non sarebbero tali da stravolgerne i connotati: esso tenterà di infettare altri compagni, ma con ogni probabilità il contagio si arresterà perché il sistema immunitario dei vaccinati lo individuerà, e gli anticorpi lo elimineranno riconoscendolo come “fratello” del patogeno standard inoculato con la vaccinazione.
Se però nella classe vi sono due ragazzi (90 per cento) privi della copertura vaccinale, allora è probabile che l’agente patogeno riesca a infettare anche il secondo individuo, e nei due passaggi esso potrebbe trasformarsi abbastanza da non poter essere riconosciuto dagli anticorpi dei compagni immunizzati, che ne verrebbero quindi infettati. Ecco perché è privo di senso non immunizzare i propri figli pensando che possano godere della copertura altrui, e la soglia del 95 per cento è troppo alta perché qualcuno arbitrariamente si permetta il lusso di non rispettare questa regola di protezione comune. A ciò va aggiunta una considerazione etica che ricorda alcuni fenomeni di parassitismo biologico, che gli anglosassoni definiscono free-rider: è piuttosto scorretto godere dei vantaggi sociali dell’immunizzazione senza prendersi anche il carico dei rischi, per quanto rarissimi, delle reazioni allergiche talvolta causate dalle vaccinazioni. Nonostante la percentuale degli effetti avversi da vaccinazioni sia il più basso di tutti i farmaci oggi disponibili – si tratta all’incirca di un caso su un milione (come illustrerò nel Capitolo 5) – questo rischio deve essere condiviso da tutta la popolazione. Ne sono moralmente esenti solo gli individui in età prevaccinale, chi ha deficit immunitari, come per esempio i pazienti oncologici, chi è affetto da malattie autoimmuni o i pazienti che hanno subito trapianti; persone che quindi hanno estremo bisogno della copertura di gregge collettiva per poter sopravvivere.
Queste tre ragioni appena discusse, si diceva, sono tutte riconducibili a un’errata percezione del rapporto rischi/benefici, di cui si discuterà più approfonditamente oltre (nel paragrafo dedicato alla fecondità tardiva contenuto in questo capitolo e nel Capitolo 6). In realtà, la capacità di valutare l’equilibrio tra rischi e benefici è centrale non solo nelle vaccinazioni ma nella medicina tutta, ed è particolarmente rilevante anche nel mondo della finanza, in molte scelte politiche e in tanti altri ambiti dell’attuale società della conoscenza. In questa epoca di sovrapproduzione dei dati, ampia diffusione di personal computer e facile accesso a internet, una serie di informazioni complesse da decifrare che prima appartenevano a una cerchia ristretta di esperti – come, per esempio, gli articoli scientifici, o i rapporti della farmacovigilanza sugli effetti avversi dei farmaci e dei vaccini nella fase di controllo post-marketing – sono oggi alla portata di persone che, non avendo le necessarie conoscenze per inquadrarle e interpretarle, spesso le diffondono in modo allarmistico sulla rete, che a sua volta le raccoglie e rilancia in maniera acritica. Non si sta parlando della creazione di “bufale” pseudoscientifiche, un tema centralissimo nei vaccini, a cui verrà dedicato un intero capitolo (il Capitolo 3), ma semplicemente del fatto che, per un apparente paradosso, disporre di più informazioni non sempre porta a prendere le decisioni corrette, specie se esse comportano un rischio (Covello et al., 1986; Covello e Sandman, 2001; Morini, 2014; Gigerenzer, 2015).
Le ragioni di questo comportamento sono divenute chiare in anni piuttosto recenti grazie a una serie di pubblicazioni interessanti che riguardano le neuroscienze, l’economia comportamentale e la psicologia cognitiva, e che spiegano come la mente umana si sia evoluta in un passato contesto biologico che oggi la rende inadatta a valutare previsioni di lungo termine, a calcolare le incertezze e soprattutto i rischi. Questa “razionalità limitata” (dall’inglese bounded rationality, un tema che è valso il premio Nobel per l’economia allo psicologo israeliano Daniel Kahneman nel 2002), riguarda tutti gl...

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