La malattia da 10 centesimi
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La malattia da 10 centesimi

Storia della polio e di come ha cambiato la nostra società

Agnese Collino

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La malattia da 10 centesimi

Storia della polio e di come ha cambiato la nostra società

Agnese Collino

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Era il 30 dicembre 1911 quando il "Corriere della Sera" riportò per la prima volta un trafiletto su un «morbo misterioso»: la poliomielite. Una malattia dai molti paradossi, che era sempre esistita ma non aveva mai provocato epidemie prima di allora, sembrava stranamente preferire chi viveva in condizioni igieniche migliori e, pur non essendo l'infezione più frequente o mortale dei suoi tempi, rappresentò la più grande paura degli americani dopo la bomba atomica. La polio divenne il grande nemico da sconfiggere, grazie alla combinazione (fino a quel momento inedita) di un'importante spinta politica, di un'enorme attenzione mediatica e del forte impatto emotivo dei danni, talvolta gravissimi, di questa malattia. Agnese Collino ripercorre le tappe di questa storia – dalla rivoluzione nella beneficenza agli scienziati superstar, dalla corsa al vaccino alla nascita dei reparti di terapia intensiva – per mostrare come la lotta alla polio abbia generato innovazioni che ancora oggi fanno parte della nostra vita. A cavallo tra passato e presente, «la polio è stata una delle patologie nella storia della medicina che più ha cambiato la nostra società, anche se oggi non ce lo ricordiamo più».Prefazione di Giovanni Rezza

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Information

Year
2021
ISBN
9788875789831

Capitolo 1

Anche solo qualche spicciolo

Tutto è iniziato con un presidente

La sera del 10 agosto 1921 si buttò a letto esausto, in preda a dolori muscolari e brividi di freddo. Non vi badò granché. Del resto era stata una giornata pesante: nonostante il fuoco fosse da sempre la sua più grande paura, aveva aiutato a spegnere un piccolo incendio nell’isola accanto a Campobello Island, al di là del confine canadese, dove stava trascorrendo le vacanze con la famiglia, e solo un tuffo e qualche vigorosa bracciata in acqua avevano potuto rilassarlo dopo l’accaduto. I suoi figli l’avevano sfidato a fare una piccola gara, e lui adorava nuotare, nonostante già il giorno prima avesse trovato l’acqua piuttosto gelida. Sicuramente, la lombaggine di cui soffriva non aveva gradito.
La mattina dopo Franklin si svegliò in mezzo a forti dolori, febbre alta e uno strano torpore alla gamba destra. «Sono riuscito a trascinarmi per farmi la barba, cercando di persuadermi che si trattasse di un problema muscolare» rammentò successivamente (Paul, 1971, p. 12).
Il medico locale pensò che si trattasse solo di un acciacco dovuto a un esaurimento, ma il torpore iniziò a diffondersi a entrambe le gambe, e il dolore si fece così forte che anche il solo contatto con il tessuto del pigiama diventò insopportabile. A quel punto venne contattato il professor William W. Keen, un anziano chirurgo di Filadelfia che si trovava in vacanza nelle vicinanze e che, dopo avere visitato Franklin, comprese che stava insorgendo una paralisi. Pensò a una lesione alla spina dorsale di natura reversibile e prescrisse massaggi molto intensi, insegnando alla moglie del paziente, Eleanor, quali movimenti esercitare. Ma le cose non migliorarono.
Entro la fine della settimana Franklin era completamente paralizzato dalla vita in giù, e a ogni massaggio il dolore era indescrivibile. Venne dunque convocato uno specialista, Robert Lovett, professore di chirurgia ortopedica ad Harvard e al Children’s Hospital di Boston, che non ebbe dubbi: Franklin Delano Roosevelt, FDR, un robusto uomo di tentanove anni, candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti l’anno precedente, era stato colpito da paralisi infantile. Poliomielite.
La diagnosi lasciò l’illustre paziente scioccato, senza parole. Solo cinque anni prima New York era stata sconvolta da una violenta epidemia di polio che aveva colpito più di 27.000 persone in tutta la nazione, tra cui il figlio del suo cocchiere (cosa che aveva spinto Roosevelt a far disinfettare la cittadina di Hyde Park, dove il ragazzo aveva contratto la malattia). Solo tre anni prima Franklin era miracolosamente sopravvissuto alla Spagnola, un virus che aveva fatto più morti della guerra e che lo aveva contagiato durante il suo ritorno dall’Europa, al termine del primo conflitto mondiale. «È ridicolo che un adulto non debba superare una malattia infantile!» pensò Franklin (Piro e Fabbri, 1986, p. 32). Cosa gli sarebbe accaduto ora? Sarebbe riuscito a guarire? Che ne sarebbe stato delle sue ambizioni?
Come se non bastasse, il dottor Lovett riteneva che probabilmente gli energici e dolorosi massaggi che gli erano stati prescritti avevano peggiorato la situazione. Da quel momento, quindi, il paziente doveva soltanto riposare il più possibile, facendo qualche bagno caldo e qualche leggero movimento per evitare contratture muscolari. Poi, appena stabilizzato, doveva rientrare a New York per cominciare la riabilitazione. Ma per quanto il medico fosse cautamente ottimista, la strada era tutta in salita.
Fu Eleanor a prendersi cura di Franklin, notte e giorno. Lo lavava, aiutandolo con cateteri e clisteri per consentirgli di svuotare vescica e intestino, e lo muoveva nel letto per evitare l’insorgenza di piaghe. Teneva anche lontani i cinque figli per proteggerli da un eventuale contagio, e si raccomandava continuamente con loro di non fare parola della malattia del padre fuori di casa, per non suscitare il panico. Ma in quella piccola località di mare le voci corsero veloci, e non passò molto prima che le altre famiglie impedissero ai loro bambini di giocare con i Roosevelt.
La paura era tale che, quando in autunno il figlio maggiore di Franklin ed Eleanor dovette fare ritorno alla Groton School, il preside raccomandò a Eleanor di far indossare al ragazzo solo vestiti che non avesse usato a Campobello, e che prima di partire gli facesse fare un bagno avendo cura che si lavasse bene i capelli. E questo nonostante le rassicurazioni del dottor Lovett sulla non contagiosità del ragazzo (Goldberg, 1981, p. 43).
A dire il vero c’è chi, ai giorni nostri, ha obiettato che probabilmente quella che colpì Roosevelt non fu poliomielite, inconsueta all’età di FDR, ma probabilmente la sindrome di Guillain-Barré, una malattia autoimmune che colpisce i nervi e provoca sintomi simili a quelli della polio: debolezza muscolare, paralisi degli arti (solitamente a partire dalle gambe) e a volte anche dei muscoli respiratori, il tutto in un breve arco di tempo (Goldman et al., 2003).
Difficile, oggi, stabilire con certezza quale fosse la diagnosi corretta. Quel che è certo è che Franklin Delano Roosevelt credette sinceramente che il male che lo aveva colpito fosse la polio, così come i suoi cari e, soprattutto, i cittadini americani. E questo fece tutta la differenza.
Grazie al successivo ricovero all’ospedale di New York e al costante esercizio, FDR riacquistò presto la mobilità del tronco e delle braccia, e iniziò a muoversi su una sedia a rotelle. Tuttavia, nonostante i suoi sforzi, le gambe non sembravano migliorare, e fu solo grazie ai pesanti tutori ortopedici di metallo che le rivestivano fino al bacino e alle stampelle che riuscì a stare in piedi. Nei primi anni dopo avere contratto la malattia, riprendere a camminare diventò per lui una vera e propria ossessione. Sapeva che si trattava di un obiettivo cruciale, se voleva mantenere un’immagine di sé adeguata alla carriera politica, e inoltre sopportava malamente il fatto di dover dipendere dagli altri per le piccole necessità quotidiane.
«La casa che i Roosevelt avevano a Manhattan aveva quattro piani, e la sua camera da letto era all’ultimo. Anziché spostarsi in un’altra camera, preferì affrontare le scale, che voleva oltretutto percorrere velocemente, come avrebbe dovuto fare per salvarsi in caso di incendio: l’unica paura che gli rimase tutta la vita. “Seduto sullo scalino, con le mani sullo scalino superiore, si piegava all’indietro facendo forza sulle braccia, e portandosi sullo scalino successivo”» (Piro e Fabbri, 1986, p. 38).
Nell’estate del 1922 Roosevelt riprese a nuotare, e intuì come l’acqua, alleggerendo il peso delle gambe, fosse il mezzo ideale per esercitarsi evitando l’eccessivo affaticamento. Due anni dopo, il vecchio amico George Foster Peabody gli parlò di una sua piccola stazione termale in Georgia, a Warm Springs, dove a quanto pareva un uomo che aveva contratto la polio aveva guarito i suoi danni muscolari nuotando nell’acqua calda. A quell’epoca Roosevelt aveva già provato, senza ottenere alcun risultato, i rimedi più disparati, sebbene con ben poche evidenze scientifiche: luce ultravioletta, bagni nell’acqua salata, stimolazione elettrica, pensiero positivo, trattamenti “ad alta pressione atmosferica”. Il racconto di Peabody, quindi, suscitò la sua curiosità, tanto più che Roosevelt era già convinto dei benefici dell’idroterapia.
Fu un colpo di fulmine: l’acqua a 32 gradi e l’alta concentrazione di minerali che favoriva il galleggiamento erano quanto di meglio si potesse chiedere per chi faceva fatica a muoversi. FDR si innamorò di Warm Springs, e finalmente si convinse di poter recuperare l’uso delle gambe. Ci tornò anche gli anni successivi, attirando molti altri disabili speranzosi di potervi trovare giovamento. Quel luogo diventò così importante per Roosevelt che solo due anni dopo, nel 1926, decise di acquistare l’intera tenuta, investendovi due terzi del proprio patrimonio con l’idea di creare una struttura per sé e per chiunque soffrisse come lui.
Quando era tornato al lavoro al termine della convalescenza, Roosevelt aveva lasciato lo studio di avvocatura per cui al tempo lavorava e ne aveva aperto uno suo insieme a Basil O’Connor, un giovane e capace avvocato che aveva conosciuto durante i suoi precedenti incarichi e che era diventato il suo braccio destro, permettendogli di dedicarsi alla propria salute ogni volta che ne aveva la necessità. Fu proprio O’Connor a consigliare a Roosevelt di fondare un ente non profit nella nuova proprietà di Warm Springs, così da poter ricevere donazioni esentasse per sostenerla economicamente.
Nacque così la Georgia Warm Springs Foundation, un centro di cura per poliomielitici tanto caro al futuro presidente degli Stati Uniti che vi costruì una piccola abitazione personale, la quale negli anni a venire sarebbe stata chiamata la piccola Casa Bianca. Come vedremo più avanti, Roosevelt fece di Warm Springs la prima struttura specificamente dedicata alla riabilitazione dei poliomielitici e ideata per favorire il più possibile gli spostamenti e l’autonomia dei suoi ospiti. In altre parole, era priva di barriere architettoniche, anticipando un modo di pensare e di progettare edifici e strutture che sarebbe entrato nella riflessione sociale solo decenni dopo. Ancora oggi Warm Springs, nel frattempo rinominata Roosevelt Warm Springs Institute for Rehabilitation, è una struttura che accoglie disabili di diversa natura che hanno bisogno di trattamenti riabilitativi e servizi di vario genere.
FDR passava ormai la maggior parte del suo tempo lontano da New York, nel tentativo di riacquistare la capacità di camminare. Pertanto non stupisce che nel 1928, due anni dopo l’acquisto di Warm Springs, quando il Partito Democratico gli chiese di candidarsi per il governatorato dello Stato di New York, Roosevelt nutrisse più di una riserva: aveva pianificato di prendersi tutto il tempo necessario per la sua riabilitazione e per dare solide basi alla sua fondazione, e dunque di non riprendere la carriera politica prima del 1932. Ma alle prossime elezioni i repubblicani erano dati per favoriti, e le file democratiche, in cerca di un candidato forte, insistettero garantendo a FDR che i suoi incarichi sarebbero stati delegati, pur di dargli la possibilità di frequentare Warm Springs quando necessario, e avanzando sostanziose donazioni per assicurare alla struttura una certa stabilità.
Roosevelt accettò, impegnandosi in una campagna elettorale breve e incisiva, anche se resa difficile dalla sua disabilità, peraltro facile bersaglio degli avversari. «Un governatore non deve essere un acrobata. Noi non lo eleggiamo per la sua abilità nel fare il doppio salto mortale all’indietro» tuonò Al Smith, democratico e governatore uscente dello Stato di New York, in difesa del nuovo candidato. «Quello del governatore è un lavoro di pensiero, [e] non c’è alcun dubbio sul fatto che [Franklin Delano Roosevelt] sia in grado di svolgerlo» (Rivers, 1967, p. 41).
E fu così che Roosevelt vinse le elezioni, sebbene sul filo del rasoio. Fu l’inizio di un’ascesa inarrestabile: venne riconfermato governatore due anni dopo, all’indomani della Grande Depressione, e nel 1932 venne eletto come trentaduesimo presidente degli Stati Uniti. La sua fu la presidenza più longeva nella storia del Paese, perché restò alla Casa Bianca per altri tre mandati e morì all’inizio del quarto, nel 1945.

La filantropia ai tempi di Roosevelt: un mondo in evoluzione

Con l’elezione a governatore dello Stato di New York, nel 1928, Roosevelt sapeva che non avrebbe potuto più occuparsi di Warm Springs in prima persona. Scelse quindi di delegarne la gestione al suo fidato socio, Basil O’Connor: «[Roosevelt] diventa governatore dello Stato di New York e mi dice, con nonchalance: “Prenditi cura tu di Warm Springs, vecchio amico mio, l’incarico è tuo”» ricorda O’Connor. «Sono sincero: non avevo alcun desiderio che “l’incarico fosse mio”. Non ero mai stato un pubblico benefattore e non avevo aspirazioni di quel tipo» (Carter, 1966, p. 12). Ma alla fine l’avvocato dovette rassegnarsi e accettare, pur senza particolare entusiasmo: «La mia decisione non aveva un valore emotivo maggiore del farsi carico di svariate cartelle di pratiche che un collega non aveva potuto smaltire perché parecchio occupato in un nuovo progetto» (Heaton, 1953, p. 209).
Eppure si trattò di una decisione destinata a fare la fortuna della lotta alla poliomielite. A questo proposito Paul Allan Offit, professore di pediatria alla Scuola di Medicina Perelman dell’Università della Pennsylvania e direttore del Vaccine Education Center al Children’s Hospital di Filadelfia, ha scritto (Offit, 2005, p. 20):
La persona a cui più dobbiamo lo sviluppo di un vaccino [per la poliomielite] non è Jonas Salk, né Karl Landsteiner o Simon Flexner o Carl Kling o qualcuno dei tanti ricercatori, ufficiali di salute pubblica o epidemiologi che hanno dedicato le loro carriere allo studio e alla prevenzione della polio. La persona a cui più dobbiamo l’eliminazione della poliomielite dagli Stati Uniti, e successivamente da gran parte del mondo, è un avvocato di Wall Street di nome Basil O’Connor.
La prima preoccupazione relativa a Warm Springs era il sostegno economico. La retta settimanale per gli ospiti poliomielitici, pari a 42 dollari, non solo non bastava a dare concretezza al desiderio di FDR di ampliare la struttura, ma non era neppure sufficiente a coprire le spese di gestione correnti. C’era bisogno di donazioni, e all’epoca la filantropia era ancora patrimonio perlopiù esclusivo dei benestanti. Per questo O’Connor, per prima cosa, assunse Keith Morgan, un assicuratore che negli anni Venti aveva fatto una discreta fortuna e il cui compito sarebbe stato quello di “vendere” il concetto di Warm Springs a famiglie ricche che ancora non ne avessero sentito parlare. Non potevano sapere, O’Connor e Morgan, che di lì a poco un evento storico di enorme portata avrebbe cambiato le sorti degli americani, e che i loro tentativi di fundraising, ovvero di impiego di capacità tecniche e professionali allo scopo di raccogliere fondi, avrebbero dovuto compierli tutti in salita.
Il 24 ottobre 1929, il “giovedì nero” di Wall Street, segnò un improvviso tracollo dell’economia statunitense e l’inizio della Grande Depressione. Il prezzo delle azioni di alcune delle principali imprese americane precipitò, mandando in rovina banche, aziende e famiglie. I consumi crollarono, il tasso di disoccupazione impennò: una crisi profondissima, i cui effetti si sarebbero protratti per buona parte degli anni Trenta.
In questo scenario, le famiglie ricche e disposte a finanziare la causa della Warm Springs Foundation diventarono sempre meno. Le donazioni alla fondazione passarono da 369.000 dollari nel 1929 a 30.000 dollari nel 1932, e in queste condizioni la struttura non poteva neanche più accettare nuovi pazienti (Oshinsky, 2006, p. 47).
Non sapendo a chi altro rivolgersi, nel 1933 Morgan cercò l’aiuto di un suo amico, Carl Byoir, la cui fama nell’ambito delle pubbliche relazioni era in rapida ascesa. A quei tempi Byoir era noto per aver diffuso, tramite un’agenzia di franchising da lui creata, il metodo di insegnamento Montessori negli Stati Uniti, ma anche per avere evitato il fallimento di una nota rivista (“Cosmopolitan”), per aver fatto parte, durante la guerra, del Comitato di Informazione Pubblica, per aver gestito le relazioni pubbliche che hanno portato alla nascita della Cecoslovacchia e al riconoscimento della Lituania da parte degli Stati Uniti, e per aver perfino lavorato, negli ultimi anni, insieme al dittatore Gerardo Machado per stimolare il turismo statunitense a Cuba (Cutlip, 1990, p. 357-359).
Morgan sapeva che tra i clienti di cui Byoir curava le relazioni pubbliche e la pubblicità c’era anche un uomo tanto ricco quanto controverso: Henry L. Doherty, fondatore della Cities Service Company, uno dei maggiori distributori di gas, elettricità e petrolio negli Stati Uniti. Doherty era il tipico magnate spregiudicato che si era “fatto da sé” attraverso politiche aggressive ed eticamente controverse che negli anni avevano spesso fatto discutere. Sospettato di essere coinvolto in una tornata elettorale di dubbia validità a Denver, e criticato per alcuni movimenti che gli avevano portato ingenti guadagni alle spalle dei suoi investitori all’indomani della crisi del 1929, Morgan intuì, non senza cinismo, che un personaggio del genere avrebbe avuto tutto l’interesse a sostenere una causa benefica pur di “ripulire” la propria immagine (Cutlip, 1990, p. 360). Ne parlò chiaramente con Byoir, che accettò di combinare un incontro tra i due. Quando Doherty chiese a Morgan perché mai avrebbe dovuto aiutarli, lui senza mezzi termini rispose: «Perché potrebbe mandare un vecchio pirata [della finanza] come te in paradiso». Doherty lo fulminò con lo sguardo, per poi scoppiare a ridere e domandare: «Chi è il capo della tua organizzazione? Byoir dice che siete bravi. Parlerò con il direttore». Forse Doherty non si aspettava che di lì a poco Morgan l’avrebbe portato al cospetto del presidente degli Stati Uniti (Cutlip, 1990, p. 361).
Doherty si rese conto che contribuire a una causa nobile poteva fare al caso suo, tanto più se questo gli avrebbe permesso di fare qualche amicizia alla Casa Bianca. Accettò dunque con entusiasmo di sostenere la Georgia Warm Springs Foundation, e in particolare di finanziare una campagna di raccolta fondi per la fondazione nella speranza di moltiplicare il suo contributo economico. Restava soltanto da decidere come strutturarla: per salvare Warm Springs in tempi così difficili serviva un’idea davvero buona.
Fu Byoir ad avere l’intuizione giusta: una festa di compleanno per il presidente Roosevelt, in ogni Stato della nazione. La proposta, per quanto valida, suscitava qualche preoccupazione – qualcuno avrebbe potuto storcere il naso di fronte allo sfruttamento della carica di presidente, per di più con il supporto economico di un industriale aggressivo come Doherty –, ma alla fine FDR accettò e Byoir si mise subito all’opera: alla data dell’evento, il 29 gennaio 1934, mancava solo un paio di mesi. Non era un compito facile, ma i presupposti c’erano tutti: l’iniziativa si inseriva bene nello spirito di ottimismo che era un po’ il biglietto da visita di Roosevelt e del suo New Deal, il piano di riforme eco...

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