Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista
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Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista

a cura di Paola Cerana

Renzo Zambello

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Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista

a cura di Paola Cerana

Renzo Zambello

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In un’epoca in cui la quotidianità obbedisce alle regole sempre più frenetiche della comunicazione mediatica, una riflessione profonda su chi veramente “si È” appare quanto mai suggestiva e attraente. Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista è il diario di un uomo che ha avuto la tenacia e il coraggio di conquistare la propria esistenza, combattendo i mostri che sin dalla prima infanzia la ostacolavano. Il Dottor Renzo Zambello racconta la sua vita – dalle origini di una famiglia di campagna fino ai giorni trascorsi in studio accanto ai suoi pazienti – ricalcando con involontaria somiglianza la vita di Carl Gustav Jung, leggendario psicoanalista particolarmente attratto dal magico mondo dell’inconscio e della sfera spirituale. Una somiglianza che si riflette anche nel modo di pensare e gestire l’analisi, sensibile al linguaggio dell’invisibile, in cui la relazione con il paziente si concentra tutta sul preconscio, piuttosto che sulla verbalizzazione.
Ne emerge una autoanalisi coinvolgente rivolta anche ai non addetti ai lavori, che possa essere d’incoraggiamento a chiunque cerchi una via per trovare se stesso.

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Capitolo Quattro
L’anima dell’analisi
In studio: il mio setting analitico
Da quando la dottoressa Termini mi aveva ufficialmente riconosciuto come uno psicoanalista mi sono sentito di fatto libero di creare il mio ambiente: instaurare con i pazienti il mio setting analitico, proponendo me stesso, il mio atteggiamento e le mie parole come medicina per le loro sofferenze.
Ma ben presto imparai proprio da loro che le parole servono a poco. Devono essere centellinate e spesso si rivelano inutili se non dannose. Con il paziente si deve semplicemente stare, ascoltarlo, fare silenzio e vivere con lui lo spazio che si condivide. E proprio lì, isolati da tutto e tutti, dove il tempo si dilata o si restringe, è lì che la mia anima incontra quella del paziente e può avvenire la trasformazione.
Non seguo una tecnica, nel mio setting non ci sono molte regole da rispettare. Solo una… anzi due. La prima, dichiarata esplicitamente all’inizio quando si decide di lavorare assieme, è questa: dobbiamo vederci con la frequenza di una, due, tre volte alla settimana, in funzione della richiesta del paziente e delle mie possibilità. La seconda, che rimane nel mio cuore, è questa: sono lì solo per lui o per lei, in quello spazio, in quel momento, non esiste alcuna altra presenza. Stop. Il resto lo regolerà di volta in volta il nostro inconscio.
Per esempio, in studio ho il classico lettino slow long ma non invito mai i pazienti ad accomodarsi lì piuttosto che a sedersi sulla sedia e rimanere vis-à-vis. Ognuno sceglie di volta in volta liberamente di sistemarsi come l’istinto detta, per sentirsi il più possibile a proprio agio. Durante una seduta il paziente può preferire di rimanere di fronte a me, guardarmi dritto negli occhi, oppure sentire il bisogno di avvicinarsi un po’ di più quasi per abbracciarmi, altre volte può scegliere di sdraiarsi sul lettino, per cercare un posto lontano, per star solo, isolato e protetto dal muro su cui appoggia.
Ho avuto una paziente che cercava regolarmente il lettino ma lo usava in maniera tutta sua, sdraiandosi su un fianco, in posizione fetale, in modo da potermi comunque guardare in viso nonostante io fossi fuori traiettoria. Ricordo anche che avvertiva il calore del lettino quando il paziente precedente si era alzato da lì poco prima e me lo sottolineava quasi con fastidio, come se fosse gelosa di quel “suo” spazio usurpato.
Attualmente, ho un paziente che preferisce stare in piedi durante quasi tutta la seduta. Si sbraccia camminando su e giù per lo studio. Sente evidentemente il bisogno di recitare e riempire tutto di se stesso. Io allora mi faccio piccolo, accovacciato sulla sedia e lo aspetto rassicurandolo di non temere se cerca il suo spazio: gli trasmetto così la certezza che non lo lascerò solo a causa di questo suo bisogno.
Durante le sedute il tempo non esiste, tutto è legato alla storia del paziente e anche i minuti prendono il ritmo soggettivo abbandonando l’oggettiva linearità. Ogni storia personale si dissocia facilmente dalla realtà esterna e pesca nel suo mondo interiore costellato di fantasmi e angosce dove esiste solo la verità del paziente, quello che lui o lei ha provato e prova ora lì, in seduta con me. Il resto non mi interessa. Non sono un giudice, non premio né condanno, tanto meno cerco un racconto storico. Devo solo permettere al mio paziente di capire se stesso e, se riesce, di perdonarsi.
Il dottor Pauletta, la dottoressa Cattaneo, il dottor Casati e poi la dottoressa Termini mi hanno fatto capire che bisogna stare col paziente dimenticando se stessi. Jung mi ha insegnato a non temere di confondermi con lui. Io cerco il mio paziente in fondo, nell’anima, per questo non ho bisogno di carta e penna, nessun appunto, nessun taccuino, solo noi due, dall’inizio alla fine. Il nostro stare assieme è un immergerci nell’inconscio sapendo di poterci incontrare là dove fino a quel momento la verità era nascosta a entrambi.
Francesco: da paziente a padre
Una volta il professore Augusto Romano, fondatore dell’arpa a Torino e autore di importanti testi di psicoanalisi, mi chiese se fossi innamorato di Jung. Non so se l’espressione “innamorato” mi si addica e sia giusta. Sicuramente lui è stato più fortunato di me se ha saputo riferire a Jung sentimenti così nobili. Devo però dire che mi sento un suo conoscitore, spesso ho pensato, e forse è vero, di aver ricalcato più o meno consapevolmente la sua strada. Certo, con la fortuna che lui l’aveva già percorsa. Buona parte della mia vita è stata illuminata da lui.
Non ho dubbi, oggi come allora riconosco alla psicoanalisi, e in particolare a Jung, il merito della mia formazione personale e professionale. Però, altrettanta riconoscenza la devo ai miei pazienti.
Scriveva proprio Jung: «L’incontro tra due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche: se c’è qualche reazione, entrambe si trasformano». Ogni lavoro terapeutico con un paziente è per me un incontro dove metto in gioco me stesso. Incontro il paziente là dove lui mostra la sua sofferenza: spesso, alla fine, il paziente si sente capito e allo stesso tempo io mi arricchisco nel costatare come il dolore possa mutarsi in energia rigenerante.
Trovo straordinario e rimango sempre stupefatto davanti alle soluzioni, alla creatività dell’inconscio dei miei pazienti. Ogni volta mi dico: «Meno male che non ho suggerito niente e non ho dato consigli di nessun tipo. Quando mai sarei riuscito a immaginare una soluzione così originale? Mai». Ecco, questa è la gioia di vedere che il bene vince sul male ma non schiacciandolo e annullandolo, bensì trasformandolo, utilizzandolo positivamente. Ciò è per me, tutti i giorni, un vero cibo per l’anima.
Il primo paziente che mi insegnò questo, mostrandomi anche i giusti tempi di quella che è una crescita personale, non solo verso il superamento del sintomo o della gestione delle proprie pulsioni, ma verso l’individuazione di Sé, fu Francesco.
Quando venne da me, aveva quarant’anni. Francesco soffriva di attacchi di panico. Lui, un uomo di quasi un metro e novanta, spalle larghe, fisico asciutto, espressione seria e posata, si presentò subito come uno sportivo a livello semiprofessionistico. Grande cultore di arti marziali e amante della montagna. Ed era stato proprio su una di queste, mentre saliva una ferrata, che improvvisamente, a ciel sereno, venne colpito dal primo attacco di panico. Non riusciva più né a salire né a scendere. Se ricordo bene, hanno dovuto chiamare l’elicottero per portarlo via. Ricoverato in un pronto soccorso, gli fecero gli esami del caso, ecg e sierologici e tutto era negativo. Gli diedero 15 gocce di Lexotan e venne dimesso.
Passarono dieci giorni, stessa situazione, fortunatamente non più su una ferrata ma su un percorso verso una baita, Francesco cadde in uno stato di angoscia terribile, sudorazione, tachicardia, paura di morire e non riuscì più ad andare né avanti né indietro. Alla fine, arrivò il soccorso con la barella e lo portarono in un altro ospedale. Solito protocollo ma finalmente qualcuno gli suggerì di andare da uno psicoterapeuta. Francesco era una persona estremamente intelligente e se pur con molte resistenze capì che doveva fare qualcosa. Forse i medici avevano ragione. E così ruzzolò nel mio studio.
Aveva una personalità un po’ rigida.
Nella sua vita tutto era passato attraverso un unico canale: la volontà. Aveva infatti una volontà ferrea e una personalità di tipo ossessivo. Però, fino a quel momento aveva funzionato. Sembrava dirsi quasi con sorpresa: «Come mai ora questo inciampo, cosa mi è successo?».
Alla prima seduta, lo ascoltai e non commentai quasi nulla. Lui si soffermò soprattutto, come peraltro fanno tutti gli ex traumatizzati, nel descrivermi nei minimi particolari l’accaduto e i suoi sintomi. Ogni tanto si fermava durante il suo racconto quasi a chiedermi il permesso di poter continuare. Lo rassicuravo: «Lei può dirmi quello che vuole. Questo è il suo spazio. Lo può utilizzare come crede».
Prima di lasciarci, alla fine della prima seduta, suggerii a Francesco l’idea che l’attacco di panico, per quanto brutto e sgradevole, potesse non essere stato solo un evento negativo. Così come la lampadina rossa si accende sul cruscotto della macchina perché manca l’olio, l’attacco di panico poteva essere un messaggio di allerta ma non un danno. Certo fastidioso, che obbligava a fermarsi, ma cosa sarebbe successo se non fosse scattato, se non si fosse accesa la lampadina rossa? L’attacco di panico è infatti un sintomo, forse un’occasione per cambiare qualcosa.
Lui mi ascoltò ma percepivo la sua perplessità di fronte alle mie parole. Faticava a credere che quell’esperienza così terribile potesse essere un’occasione positiva. Ma era tempo di lasciarci, lui si alzò e andò verso l’uscita. Aprì la porta e la tenne ferma, socchiusa, mi guardò e mi disse: «Lei mi ha detto che le posso dire quello che voglio».
«Certo».
«Secondo lei il fatto che mia moglie sia ancora vergine potrebbe avere a che fare con l’attacco di panico?».
«Non lo so, vedremo».
«Buongiorno».
«Buongiorno».
Da buon sportivo e con la volontà che si ritrovava, Francesco non si sottrasse dall’affrontare la sua triste situazione affettiva. In effetti lui non aveva mai avuto un rapporto sessuale, si considerava impotente e di fatto lo era. In realtà, però, le cause della sua impotenza non erano, come lui riteneva, organiche ma psicogene. Su mio suggerimento fece infatti tutti gli esami del caso in un reparto di urologia e l’esito fu: impotenza psicogena.
Lavorammo molto sulle cause della sua impotenza, le tralascio qui perché insignificanti rispetto all’evoluzione. Dico solo che gli attacchi di panico scomparvero quasi subito. Rimase in lui una memoria fisica dell’attacco che sapeva ben gestire. Affrontò invece il problema della sua impotenza e soprattutto il rapporto che aveva con la moglie.
Era vero, la moglie era ancora vergine. Per dirla come lui semplificava: «La venerava come una Madonna». Sì, ma con la Madonna non si fa l’amore. Poi, venne il giorno in cui decisero di avere un rapporto. Tutto ok, funzionò, riuscirono a fare l’amore e ci presero gusto. Forse alla fine lo facevano più spesso di quanto mediamente lo facciano le coppie della loro età. Dovevano recuperare.
C’era però un problema: il calendario biologico della moglie. Francesco durante l’analisi aveva affermato più volte che non amava i bambini. Ma ora che poteva averne uno, non aveva dubbi: lo desiderava con tutte le sue forze.
Divenne padre due volte.
Forse molti, e tra questi mi ci metto anche io, si sarebbero aspettati che Francesco a questo punto chiedesse di chiudere con la terapia, avendo apparentemente risolto tutti i suoi problemi. E invece no. Non solo non esprimeva questo desiderio ma continuava a portare in seduta tanto materiale, tanti sogni e una sensazione soggettiva da me condivisa che ci fosse qualcosa di non risolto nella sua vita.
Francesco si definiva ateo e per sua ammissione non aveva alcuna sensibilità religiosa. Quindi, per tutta la prima parte dell’analisi, direi che mai si parlò di valori trascendentali e tanto meno di una religione professata. Credo covasse anche qualche sentimento anticlericale. ...

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