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Daniela Marcone

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Non a caso si diventa vittime innocenti di mafia.Perché non è mai il caso a premere il grilletto o a programmare un attentato neanche quando casualmente si muore perché si era lì in quel momento. La mafia che uccide non lo fa mai per caso.E il ricordo di ognuna delle vittime non può legarsi all'idea che sia accaduto per un puro caso del destino. La memoria parte da questa chiarezza. E dalla consapevolezza che ricostruire il vissuto di ognuno, raccontarlo, ci è indispensabile per non cadere noi nel dubbio che casualmente accadono delitti mafiosi.Queste pagine nascono dall'esigenza morale di cominciare a costruire ed avere memoria comune delle vittime pugliesi di mafia. Non sono poche. Alcune uccise nella loro stessa città, altre in città dove lavoravano a fianco di nomi noti delle lotte alle mafie. Ognuna di loro era con lucida consapevolezza dall'altra parte rispetto a coloro che li hanno ammazzati. Non sono morti per caso. Non devono essere morti invano.È un libro a più voci, con nomi e storie di uomini e donne, ragazzi che "non sono morti per una targa, una lapide, un discorso commemorativo, ma per un ideale di giustizia che sta a tutti noi realizzare.Queste pagine ci dicono che ricordare non basta: occorre trasformare la memoria in memoria viva, ossia in impegno a costruire una società diversa, formata da persone che si oppongono, non solo a parole, macon le scelte e i comportamenti, alle ingiustizie, alle violenze, alla corruzione".I racconti, gli autori, le vittime• La festa patronale di Nicola Lagioia, racconto su Emanuele Basile• Il poco che resta di Eduardo Savarese, racconto su Rosario Di Salvo • La pietà di Beatrice Monroy, racconto su Renata Fonte• La 500 gialla di Laura Costantini e Loredana Falcone, racconto su Sergio Cosmai• L'ingegnerino di Piergiorgio Pulixi, racconto su Donato Diego Maria Boscia• I rumori della notte di Elisabetta Liguori, racconto su Giovanbattista Tedesco• Capaci, 1992: tra il cielo e la terra di Marilù Oliva, racconto su Antonio Montinaro• La divina tragedia di Marco Vichi, racconto su Giovanni Panunzio• Mezz'ora di Giovanni Dello Iacovo, racconto su Francesco Marcone• Hyso che non doveva di Francesco Minervini, racconto su Hyso Telharaj• Primavera di Alessandro Cobianchi, racconto su Alberto De Falco e Antonio Sottile• Gaetano è amico mio di Gabriella Genisi, racconto su Michele Fazio e Gaetano Marchitelli• Un'altra vita di Romano De Marco, racconto su Nicola Ruffo• Gli occhi di Piera Carlomagno, racconto su Giuseppe Mizzi• La ballata di Marcella di Mauro Marcialis, racconto su Marcella Di LevranoAppendiceBreve storia delle mafie in Puglia di Antonio Nicola Pezzuto

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Information

Year
2017
ISBN
9788861536319

BREVE STORIA DELLE MAFIE IN PUGLIA

di Antonio Nicola Pezzuto18

Scorrendo l’elenco delle vittime di mafia emergono nomi e storie di uomini e donne, morti per non essersi piegati a chi voleva sopraffarli. Il tributo della Puglia è stato versato per opera di diverse organizzazioni di stampo mafioso, la cui distribuzione geografica varia a seconda delle province. A partire dal Salento, in cui è attiva la Sacra Corona Unita, soprattutto nelle province di Lecce e Brindisi; alcune propaggini lambiscono la provincia di Taranto, nella sola zona di Manduria. Salendo nel barese diversi clan mafiosi, legati a territori e quartieri, si spartiscono la gestione di traffici e affari illeciti. Infine nella Capitanata si distinguono la Società foggiana e la mafia garganica.

La Sacra Corona Unita

Genesi, struttura e distribuzione territoriale
La Sacra Corona Unita (Scu) è stata fondata da Giuseppe Rogoli – con l’aiuto di “compari diritti”19 – il 1° maggio 1983 nel carcere di Bari dov’era detenuto, come risulta da un’agenda trovata in suo possesso. Originariamente quest’organizzazione criminale aveva i suoi interessi in tutta la regione ed era stata creata per arginare l’avanzata delle altre mafie sul territorio, soprattutto della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
Il Rogoli, vicino ai boss della ’Ndrangheta Umberto Bellocco e Carmine Alvaro, aveva subito assunto il ruolo di leader del sodalizio criminale, dotato di leggi interne molto rigide che prevedevano dure punizioni per gli affiliati che le avessero trasgredite.
Contemporaneamente, Salvatore Rizzo, altro personaggio di spicco nel panorama criminale salentino, fondava la Famiglia Salentina Libera sempre allo scopo di “proteggere” il territorio dall’ingerenza di organizzazioni criminali provenienti da altre regioni.
La mafiositĂ  di queste due consorterie criminali non venne riconosciuta subito dai giudici che le processarono. Fu cosĂŹ che pericolosi criminali ebbero modo di riorganizzarsi sul territorio mentre la Famiglia Salentina Libera fu inglobata nella piĂš forte Scu.
La svolta giudiziaria avvenne il 23 maggio 1991, nel processo “De Tommasi + 133”20, quando la Corte d’Assise di Lecce riconobbe la Sacra Corona Unita come associazione di stampo mafioso. Negli anni che precedettero questa sentenza la Scu mostrò tutta la sua efferatezza, macchiando il Salento con il sangue di numerose vittime e rendendosi protagonista di attentati dinamitardi di inaudita gravità. Solo per puro caso non accadde il peggio e si evitarono vere e proprie stragi. Furono quattro gli episodi eclatanti.
Il primo si verificò il 7 luglio 1990, poco prima delle 2.00, quando una bomba esplose all’interno dell’edificio che ospitava la scuola media “IX nucleo” di Lecce. I responsabili dell’attentato erano entrati nella scuola scavalcando un muro di cinta e avevano collocato l’ordigno all’interno del fabbricato. L’esplosione causò un grosso buco nel pavimento e danneggiò gravemente gli infissi e il soffitto dell’aula. Fu subito chiaro che l’attentato era finalizzato a ostacolare i lavori di ristrutturazione della palestra della scuola, situata nella zona retrostante l’edificio e destinata a diventare la famosa aula bunker del primo maxi-processo alla Sacra Corona Unita.
Il secondo atto intimidatorio ebbe luogo la notte del 20 novembre 1991 alle 0.40. Nell’occasione fu fatto esplodere un ordigno collocato lungo il perimetro del Palazzo di Giustizia di Lecce. Lo scoppio provocò gravi danni alle strutture portanti degli uffici giudiziari, la rottura di vetri e infissi, il danneggiamento degli impianti idrici ed elettrici nonché di alcune autovetture di servizio che si trovavano parcheggiate nel garage dell’edificio. Anche l’adiacente Palazzo Parlangeli, sede di alcuni istituti dell’Università di Lecce, fu coinvolto nell’effetto detonante. Il giorno precedente, alla segreteria del consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce, situata proprio all’interno del tribunale, era arrivata una telefonata che preannunciava la presenza di una bomba, ma i controlli delle forze dell’ordine non avevano sortito alcun risultato.
Dieci giorni dopo, verso le 2.00 dell’1 dicembre 1991, fu preso di mira ancora una volta il Palazzo di Giustizia dove esplose una seconda bomba. Questa volta l’ordigno era di maggiori dimensioni rispetto al primo. La deflagrazione causò lo scardinamento di un’inferriata di metallo, il danneggiamento di finestre, strutture murarie, diverse autovetture e di alcuni edifici circostanti.
Ma l’episodio più grave si verificò alle 21.04 del 5 gennaio 1992 quando fu fatta esplodere una bomba collocata sotto la rotaia sinistra del binario ferroviario che collega la stazione di Lecce a quella di Brindisi, nei pressi di Surbo, esattamente in corrispondenza di un cavalcavia che consente l’intersezione tra la strada ferrata e la statale 16.
La deflagrazione produsse un cratere di circa un metro di diametro e la rottura di quattro traversine in cemento; un pezzo di quella rotaia della lunghezza di quasi un metro fu tranciato di netto determinando una soluzione di continuità nel percorso. Pochi minuti dopo, lungo quel binario, transitò il treno n. 388 – composto da un locomotore e da dodici veicoli trainati – partito da Lecce e diretto a Zurigo e Stoccarda, sul quale viaggiavano circa mille passeggeri (la gran parte emigrati che, concluso il periodo delle feste natalizie, stavano tornando nei posti di lavoro). Il treno era partito da Lecce con circa tre minuti di ritardo rispetto all’ora prevista delle 21.00 e passò dal luogo dell’esplosione alle 21.08/21.10: sicché fu facilmente intuibile che gli autori dell’attentato avevano previsto che lo scoppio potesse avvenire proprio mentre il treno stava transitando in quel posto21.
Questo è quanto scrissero i giudici nella sentenza del secondo maxi-processo. Questo è il racconto di una scena che sarebbe potuta diventare apocalittica, di una strage evitata per puro caso.
La Sacra Corona Unita, sin dalle sue origini, è stata molto attiva nei vari settori dell’economia criminale: traffico di sostanze stupefacenti, gioco d’azzardo, rapine, estorsioni, contrabbando rimpinguavano le casse dell’organizzazione criminale e contribuivano al mantenimento degli affiliati detenuti.
Da quel lontano 1° maggio 1983, giorno in cui Pino Rogoli fondò la Scu, tanto tempo è passato. L’incisiva azione della magistratura e delle forze dell’ordine ha assestato duri colpi a questa organizzazione mafiosa che, negli anni, ha cambiato pelle e struttura. Nella relazione della Direzione Nazionale Antimafia datata 2015 si evidenzia la sua progressiva trasformazione
da organizzazione tendenzialmente verticistica – come era almeno nelle aspirazioni originarie dei suoi fondatori e come per qualche tempo si è mantenuta – ad organizzazione reticolare, nella quale sono frequenti, soprattutto per effetto dell’azione di contrasto efficacemente posta in essere dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce e dalle Forze di Polizia operanti sul territorio, i passaggi da un gruppo ad un altro e le riorganizzazioni dei gruppi, essenzialmente finalizzate a conservare il controllo delle attività criminose sul territorio22.
Attualmente, in linea di massima, la Scu adotta una strategia di basso profilo, finalizzata a concludere affari in silenzio, senza attirare l’attenzione degli inquirenti, cercando il consenso della popolazione. I contrasti tra i vari clan vengono tendenzialmente risolti in modo incruento, sebbene alcuni recenti episodi fanno pensare che la pax mafiosa viva di equilibri precari.
Le indagini e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia hanno consentito di inquadrare con una certa precisione la distribuzione geografica dei gruppi appartenenti alla galassia in cui orbita la Sacra Corona Unita.
Nella città di Lecce il clan di Roberto Nisi è stato gradualmente assorbito in quello di Pasquale Briganti, detto Maurizio, attualmente dominante sul territorio leccese e nel sodalizio capeggiato dalla famiglia De Matteis.
Nelle zone a nord-ovest di Lecce, come in tutta la provincia, si registra l’evoluzione dell’originaria struttura unitaria della Sacra Corona Unita in una rete orizzontale di clan mafiosi riconducibili a Sergio Notaro e Gianni De Tommasi (Campi Salentina), ai fratelli Pellegrino e a Marino Manca (Squinzano), “tutti esponenti storici dell’associazione che, con le loro azioni criminali, ne hanno caratterizzato la storia e le vicende fin dal suo nascere”23.
L’indagine “Baia verde” del 2014, che ha avuto come epicentro il territorio di Gallipoli, ha evidenziato l’ascesa nel panorama criminale di Angelo Padovano, figlio del defunto boss Salvatore, che sta riorganizzando il gruppo storicamente capeggiato dalla sua famiglia.
A Matino, Parabita e nelle vicine Casarano, Taurisano, Ugento e Acquarica del Capo è attivo un gruppo criminale guidato da Tommaso Montedoro. L’altro leader del sodalizio, Augustino Potenza, è stato assassinato la sera del 26 ottobre 2016. Montedoro riconosce una specie di autonomia operativa al clan di Marco Giannelli, figlio di Luigi, da sempre operativo nei territori di Parabita e Matino proprio in virtù del “rispetto” dovuto a un esponente “storico” della Sacra Corona Unita come Luigi Giannelli.
Di rilievo gli scossoni che si sono registrati negli ultimi anni a Monteroni e nelle zone limitrofe dove è egemone il clan capeggiato da Mario Tornese e da suo fratello Angelo, storici esponenti della Scu. L’assetto unitario di questo sodalizio sembra vacillare a causa del cambiamento dei rapporti con il gruppo dei fratelli Politi ritenuti vicini al clan Tornese. Lo dimostrano due fatti accaduti nell’estate del 2015. Ad agosto, a Leverano, territorio controllato dai Tornese, venivano affissi manifesti pubblici annuncianti “la prematura scomparsa del finanziere Davide Caracciolo” e si sottolineava che “la comunità intera rende grazie a Dio per il lieto evento”24. Davide Caracciolo, cognato di Mario Tornese, è ritenuto confidente della Guardia di Finanza. A distanza di pochi giorni viene incendiata la macchina di sua moglie, Antonella Caracciolo. I due episodi sono evidentemente legati tra loro e sembrano un chiaro avvertimento proveniente dal clan Tornese, a dimostrazione del graduale cambiamento in atto all’interno della struttura del gruppo dove “un assetto a rete si va sostituendo all’originaria struttura verticistica”25.
Sin dal lontano 1998, nella provincia di Brindisi, la Sacra Corona Unita è “saldamente strutturata” intorno a due gruppi: la consorteria mesagnese capeggiata da Antonio Vitale, Massimo Pasimeni, Daniele Vicientino e quella tuturanese “che si rifà allo storico fondatore Giuseppe Rogoli, a Salvatore Buccarella e a Francesco Campana, attuale capo indiscusso”26. In questi due sodalizi sono ormai confluiti anche quei clan che ancora usufruivano di una certa indipendenza in seno alla Scu, come il gruppo della famiglia Bruno di Torre Santa Susanna e quello dei fratelli Brandi di Brindisi, duramente colpiti da condanne irrevocabili che ne hanno compromesso l’autonomia.
Anche nella zona di Brindisi i due clan egemoni hanno deposto le armi per non suscitar...

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