A scuola con le emozioni
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A scuola con le emozioni

Paola Scalari

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A scuola con le emozioni

Paola Scalari

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"La scuola sta vivendo una fase complicata, contraddittoria, emergenziale. Tutti, più o meno, sono scontenti di come funziona. Ognuno, tanto o poco, si prodiga per cambiarla. La scuola, infatti, saturata da problematiche sociali, rischia di smarrire il suo compito di luogo deputato all'apprendimento se al suo interno non convergono prestazioni sociali e psicologiche che, con continuità, l'affianchino nella cura dei giovani.L'arrivo in massa degli alunni stranieri l'ha messa di fronte alla diversità non solo culturale, ma anche linguistica e relazionale. L'aumento dei ragazzi "difficili" l'ha sottoposta a scenari dove violenza, bullismo, rivalità hanno affossato il valore dei legami sociali e umani che connotano negativamente il gruppo classe.La pluralità degli stili educativi l'ha resa impopolare tra madri e padri che, stanchi e demotivati, molte volte non hanno la forza di allearsi con gli insegnanti.La frequente mancanza di formazione nei professionisti dell'insegnamento ha reso sterile, meccanico, burocratico un fare scuola che è poco gradito sia agli alunni che ai loro genitori.La noia impera perché non circolano emozioni.Per contrastare questa triste indifferenza, queste pagine raccolgono spunti che ridanno vitalità alla vita della classe. In comune i docenti, pedagogisti, consulenti, psicoterapeuti ed esperti che hanno contribuito alla stesura del testo, testimoniano la convinzione che sia necessario incrementare, promuovere, salvaguardare una scuola dove l'apprendimento sappia coniugare il sapere cognitivo con quello emotivo."

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Information

Year
2012
ISBN
9788861532380

PARTE III

Educare, educarsi,
essere educati

image

11.

Il patto generazionale

di Francesco Berto
Forse è un po’ come dire che i bambini saranno meno a disagio se gli adulti potranno essere un po’ meno a disagio… Ad ognuno è richiesto di far trasparire, di rendere più visibile la centratura sui bambini e sulle loro relazioni e quindi di rendere più chiara la propria relazione con l’attività specifica e con l’attività svolta insieme.
Franca Olivetti Manoukian

11.1 IL TRIANGOLO EDUCATIVO

Osservare il triangolo educativo che si compone collegando i tre vertici segnati dall’alunno, dal mondo scolastico e infine dalla famiglia è sicuramente complesso poiché implica analizzare una molteplicità di relazioni che si intrecciano.
Possiamo allora guardare questi tre vertici e il perimetro che li unisce.
La difficoltà del rapporto tra il mondo scolastico e i ragazzi con le loro famiglie è dovuta all’importante cambiamento sociale di cui siamo tutti partecipi.
Gli insegnanti infatti stanno educando le nuove generazioni in un tessuto sociale complesso per la grande accelerazione che hanno i cambiamenti tecnologici, da cui derivano poi i mutamenti culturali, ma anche negli stili di vita delle famiglie e quindi dei giovani. In tale continuo mutare delle certezze è davvero difficile capire come dare un senso al futuro delle nuove generazioni.
L’adolescente, soggetto per definizione mutevole, inquieta allora perché, come adulti, a nostra volta non ci sentiamo insediati in posizioni certe.
Alle già incerte trasformazioni dei ragazzi corrispondono nel mondo dei grandi tante insicurezze.
Tutto queste incertezze che s’incrociano fanno sentire ognuno fragile, incerto e timoroso.
E i ragazzi rischiano di smarrirsi, essere lasciati soli, non ancorarsi al sapere umano.
Sapere che è conoscenza teorica, ma anche conoscenza dell’importanza dei legami tra le persone.
Sono molti gli insegnanti che si stanno chiedendo: “Insegnare oggi cosa vuol dire?”.
In passato l’insegnante aveva una posizione di prestigio e questo lo consolidava nelle sue relazioni sia con gli alunni che con le loro famiglie.
La società lo considerava infatti un professionista importante. Oggi invece le cose sono radicalmente cambiate. Maestri e professori osservano, con rammarico, il ruolo, molto svilito, che gli altri attribuiscono loro e si sentono squalificati sia dagli alunni che dai genitori. Tutti sappiamo quanto faccia male essere visti con poca considerazione.
Lo stesso però accade all’adolescente; infatti, per ogni ragazzo è molto importante come gli altri lo guardano, e troppo spesso lo si osserva come uno stravagante alieno.
Forse è un po’ d’invidia per la sua giovinezza.
Forse ci sono anche giovani strani che non riusciamo proprio a capire.
Certamente però ci sono anche adolescenti belli, affascinanti, interessati a imparare, a conoscere e a discutere.
La scuola questo deve ricordarlo, altrimenti rischia di perdere quella che è la sua grande ricchezza: l’insegnamento a chi è lì per imparare.
Insegnare è trasmettere le diverse discipline attraverso la figura dell’insegnante. Le caratteristiche che affascinano i giovani sono proprio l’amore del docente per il sapere, la sua perizia nel sedurre con ciò che spiega, la sua abilità di narratore, fabulatore, incantatore.
Se l’insegnante se lo dimentica presta il fianco a chi chiede di tutto al mondo scolastico. E la scuola rischia di essere caricata di impegni che non le appartengono come curare o assistere.
Eppure basterebbe ricordare come la conoscenza sia una delle cose che “guariscono” di più.
L’appassionare i ragazzi alla scoperta del sapere permette loro di essere vivi e vitali. Sani.
L’insegnante allora stabilisce una relazione con lo studente attraverso un oggetto specifico che è la sua materia di studio. E se imparare fa cambiare e crescere, cioè cura gli allievi, questo è solo un effetto che osserviamo sempre con grande piacere. È infatti molto avvincente vedere le loro menti formarsi, i loro ragionamenti divenire complessi, le loro idee moltiplicarsi.
Alle volte, è però anche difficile entrare nel loro mondo interiore. Gli alunni non sempre si lasciano coinvolgere.
I docenti allora devono avere tanta passione per ciò che insegnano e dall’altro lato devono trovare il modo per lasciar transitare quello che dicono.
Può tornare a questo punto valida l’idea di dare vita a gruppi di discussione nella classe quali momenti importanti per coinvolgere i ragazzi. Ma il vero punto cruciale del valore che in una scuola assume l’apprendere, sono le relazioni tra il gruppo degli insegnanti della classe.
Com’è quel gruppo?
Può essere capace di condividere la tensione verso la trasmissione del sapere, può essere impegnato a offrire solidarietà umana, può essere in grado di dare cioè il buon esempio, ma può anche essere molto conflittuale fino a dare il cattivo esempio.
Intervenire sulle difficoltà di apprendimento dei giovani significa allora fare tra colleghi, con chi perlomeno ne ha voglia, un percorso collettivo che permetta di discutere e confrontarsi.
Il tema da analizzare tra colleghi è proprio come capire, dare significato e interrogarsi sul modo di sentire di ogni studente.
L’insegnante può infatti trovare canali mentali aperti, ossia ragazzi disponibili che si lasciano coinvolgere e canali chiusi, ossia ragazzi che hanno delle dighe che non permettono a nessuno di entrare.
Quando si trovano queste barriere esse sono il frutto della storia di vita degli adolescenti.
Troviamo storie familiari ed educative che non hanno determinato la possibilità per questi ragazzi di fidarsi e di affidarsi.
Il problema del rifiuto scolastico sta allora nell’accettazione, da parte degli allievi, della dipendenza.
Sono gli adolescenti che, in apparenza, si atteggiano come più autonomi quelli che invece hanno maggiormente bisogno d’imparare a dipendere. Sono cioè gli studenti che non si applicano, che non fanno mai i compiti, che non ascoltano nessuno, che sono arroganti e presuntuosi, quelli che hanno più paura di lasciarsi andare.
Ma questi giovani hanno timore di affidarsi agli altri perché hanno incontrato degli adulti che non hanno offerto loro, con continuità e con sicurezza, una valida dipendenza.
Nessun adulto è stato dunque sufficientemente d’aiuto alla loro crescita negli anni precedenti.
Adesso si potrebbe provare facendoli studiare. Rammentiamo infatti che la dipendenza può essere allenata anche nello studio e non è quindi un effetto solo dei rapporti umani.
Leggere quello che ha detto un altro, fare spazio nella propria mente per le conoscenze altrui implicano infatti saper dipendere da quegli autori oltre che dall’insegnante che li propone.
Pensiamo alla materia che ci è piaciuta di più o di meno. Non è forse vero che ci piaceva o non ci piaceva il professore di quella disciplina?
Se i ragazzi non vogliono imparare allora è perché hanno paura che qualcuno entri in loro.
Hanno paura di amare.
Hanno timore di ospitare chi è loro estraneo.
Allora osteggiano ogni relazione.
Come superare però l’ostacolo?
Bisognerebbe trovare una giusta misura tra l’insegnante che vuole continuare col suo programma disinteressandosi dei ragazzi che non lo seguono e il docente che invece passa l’ora di lezione a parlare con gli studenti dei loro problemi dimenticandosi di far scuola.
Nessuno di questi due estremi corrisponde infatti a un modello d’insegnamento valido.
Ma la misura tra istruire a oltranza e relazionarsi con eccessivo coinvolgimento è difficile da trovare.
Gli insegnanti allora, a loro volta, stanno maturando nuove competenze.
E, come degli adolescenti, stanno passando un’“adolescenza professionale” fatta dalla scoperta di nuovi strumenti e nuove prospettive di lavoro.
Mentre fanno questa ricerca vivono però un periodo di dubbi in cui è necessario che oscillino tra le diverse posizioni e quindi devono accettare di non sapere già come regolarsi.
La vera risorsa in questo senso per affrontare la crescita dei ragazzi è l’essere in ricerca.
Significa disponibilità a muoversi di fronte alle diverse situazioni.
Significa decidere sul campo.
Significa non assumere atteggiamenti inflessibili, rigidi, indiscutibili.
La risposta è allora flessibilità, ricerca, accettazione dell’incertezza. Torna in mente il ragazzo con tutta la sua insicurezza su come arrivare a definirsi, a sentirsi se stesso, a differenziarsi.
L’adolescenza è allora un periodo buio perché si è in ricerca, ma è anche un periodo luminoso perché porta a nuove scoperte.
L’adolescenza è infatti un momento di rifondazioni di un progetto di vita.
E se penso agli insegnanti credo di poter immaginare che siano in un’epoca di rifondazione del senso del loro mestiere.
L’importante è che ne parlino tra di loro per trovare parole con le quali dialogare con gli alunni.
Penso infatti che gli adolescenti più sono in difficoltà meno sanno parlare.
Agiscono allora con il loro corpo e sul loro corpo.
Basti pensare a quanta sofferenza può creare la trasformazione del corpo puberale con tutte le metamorfosi che porta con sé.
Quando è troppo difficile crescere compare magari l’anoressia o la bulimia.
Quando è troppo difficile non sapere chi si è, compaiono piercing esagerati e tatuaggi invasivi.
I ragazzi oggi sono anche confusi nel processo della differenziazione di genere. Non sanno come interpretare la loro identità sessuale. Vivono un confuso modo di identificarsi con il maschile e il femminile.
E quando sono disorientati raccontano le loro inquietudini di essere omosessuali o di essere lesbiche.
Quindi i ragazzi hanno dei corpi che parlano delle loro sofferenze e che le mettono in evidenza.
Ma gli adolescenti ci narrano di se stessi anche con i loro comportamenti.
Pensiamo al fenomeno del bullismo. Consideriamo quindi l’adolescente che fa del male a un compagno senza avvertirne vergogna. Questa cattiveria gratuita si colloca nella loro impossibilità d’immedesimarsi nei panni dell’altro.
I ragazzi, forse, stanno troppo davanti alla televisione che fa loro provare delle emozioni malgrado non siano percepite da chi è al di là dello schermo.
Le persone che stanno davanti al video sono eccitate o sconfortate senza che nessuno se ne accorga dall’altra parte.
E questi giovani non si abituano a percepire la necessità di proteggere l’altro dalle loro angherie poiché questi altri sono percepiti come dietro a un video insensibile.
La realtà del bullismo è allora molto figlia di un oggetto chiamato televisione che in apparenza parla, ma che non ascolta essendo impossibilitata a immedesimarsi nel suo spettatore.
Pensiamo anche a tutti quei comportamenti di negazione del rispetto verso gli altri. Sono questi dei ragazzi che parlano sempre e che disturbano in modo provocante. Essi, attraverso il loro comportamento, cercano di essere nominati, visti, chiamati. Voluti. Ma non sanno e non possono chiedere aiuto perché temono il rifiuto. Se i giovani paventano troppo il disconoscimento diventano anche ragazzi che vogliono negare totalmente la loro dipendenza dalle persone e che, per negare tale dipendenza, passano all’uso di sostanze e alla dipendenza da queste.
I ragazzi ci parlano così con il corpo, con i comportamenti e con gli abusi sempre e solo delle loro paure.
Sono questi ragazzi però anche dei figli spaventati.
Figli che hanno vissuto precocemente delle separazioni intrise di disconoscimento, disinteresse, rifiuto.
Ossia hanno avuto madri e padri molto occupati in qualcos’altro e si sono sentiti lasciati soli.
Questi atteggiamenti dei genitori hanno portato i ragazzi a una grande paura di fidarsi. È come se dicessero: “Se non c’è mai stato nessuno a prendermi per mano perché devo affidarmi?”.
Ecco perché molto spesso i ragazzi non si fidano dei loro professori, hanno paura della “fregatura” e mettono i docenti alla prova per vedere se effettivamente sapranno restare al loro posto.
Ciò che potrebbe allora fare la scuola è garantire la continuità nella presenza degli insegnanti.
La possibilità di creare un rapporto di fiducia è anche quella di essere professore di un ragazzo per molti anni. La possibilità viene infatti molto limitata se il docente cambia classe ogni anno.
I ragazzi per affidarsi devono avvertire allora di meno il pericolo d’allontanamento.
È questo un allontanamento del docente dalla scuola, un allontanamento dello studente dall’ambiente scolastico, un allontanamento emotivo dell’adulto o dei compagni.
Bisogna allora creare dei dispositivi per non perderli di vista.
È con questo obiettivo che è utile stabilire un’alleanza con la famiglia.
Dobbiamo però avere in mente quanto è difficile oggi la funzione genitoriale perché la famiglia non è più quella di una volta.
I genitori non sanno più come impersonare il loro ruolo.
Ci sono infatti dei cambiamenti epocali anche nella realtà strutturale delle famiglie (genitori separati, divorziati, famiglie ricomposte). Persino la famiglia tradizionale non è più la stessa, basti pensare al padre affettivo e alla madre in carriera. Queste trasformazioni hanno creato delle gravi incertezze da cui sono emerse eccessive vicinanze e lontananze dai figli.
Parlare con madri e padri non è allora semplice.
L’idea che i docenti possano occuparsi delle famiglie apre il triangolo educativo.
Esso rappresenta un nuovo spazio relazionale che diventa luogo di accoglienza per un nuovo patto tra insegnanti e genitori.
Affermando questo penso agli insegnanti che comprendono le realtà dei ragazzi e che raccolgono i fantasmi dei giovani che sono anche i fantasmi dei loro genitori. Nessuno sta in classe solo con i ragazzi, ma sta anche con i genitori di questi studenti. Sono mamme e papà che si materializzano negli atteggiamenti degli adolescenti. Bisogna decidere allora di voler vedere e di voler dialogare con i genitori degli studenti.
Certo esiste il ricevimento dei genitori, ma quella è un’altra cosa. L’insegnante per poter pensare di parlare con i genitori di un alunno deve aver trasmesso a quello studente la fiducia verso di lui.
È la relazione di fiducia che permette di parlare con la famiglia. Non la minaccia di chiamarla in causa.
Sarebbe opportuno che al colloquio con i genitori partecipassero, alle volte, anche gli alunni.
L’insegnante non convoca la famiglia per giudicarla, ma per mettere insieme il triangolo.
Conosco la fatica di far venire al colloquio i genitori.
C’è però anche una fatica da parte del genitore che se sente di andare a “prendere le botte” non viene.
Se si fa sentire al ragazzo che siamo alleati con lui è però più semplice che anche i suoi familiari vogliano parlare con l’insegnante del figlio. L’incontro allora deve avvenire nel momento in cui lo studente si sente sicuro di far vedere la sua famiglia ai docenti. E la famiglia va dagli insegnanti quando ha una positiva rappresentazione di essi attraverso il figlio.
Creando climi fiduciosi si rassicura la famiglia che non viene a parlare con l’insegnante per sentir dire male del figlio o, ancor peggio, per essere colpevolizzata dei comportamenti del ragazzo. Umanamente cerchiamo di evitare di farci del male e quindi anche i genitori rifuggono gli incontri che li mortificano.
Bisogna cercare allora che il clima del colloquio con madri e padri non sia mai attraversato dall’idea del giudizio o della colpa, ma sia ricolmo di un’attenzione che permette di porsi dei problemi. Innanzitutto il colloquio deve essere riparato.
Lo spazio dove allora avvie...

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