Ho scelto le parole
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Ho scelto le parole

Genitori, dolori, rivoluzioni

Alessandra Erriquez

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  1. 92 pages
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Ho scelto le parole

Genitori, dolori, rivoluzioni

Alessandra Erriquez

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"Ho intrapreso un viaggio, faccia a faccia col dolore. Non il mio. Un viaggio in posizione di domanda: qual è il confine tra il nostro potere e la nostra paura? Cosa s'offre a un figlio che soffre?Ho trovato risposte diverse, tutte vere. Dinanzi alla propria storia ognuno sceglie le sue parole."

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Information

Year
2018
ISBN
9788861536715

UNA CICATRICE VALE PIÙ DELL’ORO

Nel bel mezzo dell’inverno, ho scoperto che vi era in me un’invincibile estate.
(Albert Camus)
Ruggero e sua figlia si sono messi in viaggio, destinazione Elba. Le vacanze si fanno lì da sempre. Lui guida e le passa le cuffie. Lei, musica a palla, si mette a dormire non prima della frase di rito: Mi ritiro in pace. Si sveglia solo a fine viaggio, urlando di stupore che il giocatore di basket Alessandro Gentile ha iniziato a seguirla su Instagram. Ruggero le risponde ma lei nemmeno lo sente, ha ancora le cuffie e sta parlando da sola. Con quel suo brio speciale, quello che solo Bebe Vio. Bebe la campionessa di scherma e di vita, Bebe che senza gambe può andare ovunque e senza braccia può prendere la vita a piene mani. Bebe del selfie con Obama, del discorso alle Nazioni Unite, Bebe che prima ancora di vincere a Rio 2016 ha scritto un libro che si intitola: “Mi hanno regalato un sogno”. Avrebbe potuto scegliere milioni di altre parole e invece no, il titolo della sua vita parla di sogni e di regali. Poi conosci Ruggero e scopri che quelle parole hanno radici che affondano in una grande famiglia.
Bebe è la seconda di tre figli. Nicolò è molto pacato, Bebe è il suo contrario. È sempre stata così. Da piccolina era perennemente agitata, piangeva spesso, non stava mai ferma, era pericolosa. Dopo un figlio Cicciobello non te l’aspetti una così, finché non lo provi pensi che i figli siano tutti uguali. Volevamo tre bimbi molto vicini, ma dopo Bebe mia moglie disse basta. C’è voluto qualche anno prima che la voglia tornasse e arrivasse Sole. Ma insomma Bebe è cresciuta così, mai ferma. La malattia è stata solo un incidente di percorso che l’ha rallentata per meno di un anno.
Ecco da chi ha imparato Bebe a scegliere le parole. Da uno che definisce la meningite di sua figlia, quella che le ha tolto tutti e quattro gli arti, un incidente, solo un incidente di percorso. Un percorso bellissimo quello di Bebe brio, sempre curiosa, sempre protesa verso gli altri. A otto anni insisteva per entrare nel Consiglio comunale dei ragazzi per realizzare le piste ciclabili: suo fratello andava a scuola in bicicletta e la strada era pericolosa. A nove, entrata per caso in un asilo nido, iniziava a lavorarci. Ogni estate ad accudire, lei bambina, piccoli dai 6 ai 18 mesi, a dar loro da mangiare, a farli dormire, a insegnare a camminare.
Io ho sempre detto che il suo mestiere più sentito è assumersi responsabilità. Lo faceva a scuola, quando c’era da organizzare feste o comprare regali alle maestre. Mi diceva: Papà, qualcuno lo deve fare, lo faccio io. È ancora così. Quello che faceva da piccola, oggi lo fa col mondo paralimpico, la disabilità, le vaccinazioni. Lo stesso modo di agire e di assumersi responsabilità, ora lo fa con cose molto più grandi, importanti, impegnative, perché lei è più grande. Quando dice che nel 2028 vuol diventare presidente del Comitato paralimpico e poi del Coni e unire i due mondi e far crescere lo sport è la stessa cosa di quando a otto anni voleva far realizzare le piste ciclabili. È la sua natura.
Oggi, ancor più di prima, Bebe non si ferma. Se fino a ieri la sua vita erano le tre S: scherma, scout e scuola, ora corre tra allenamenti, gare, convention, associazione, un mare di impegni pubblici che deve conciliare con la sua vita privata, le pizze in famiglia, lo spritz con gli amici.
Ieri tornando da Milano aveva già annunciato che di sera sarebbe andata a Venezia per un aperitivo con i suoi amici. In treno con la mamma è crollata, arrivata a casa si è buttata sul letto e si è svegliata stamattina. Altro che spritz, arriva un momento che il fisico ti abbandona. L’unico vero difetto di Bebe è che non sa limitarsi, non sa dosare le forze. Dopo la malattia per cui doveva morire e invece è viva, lei dice: posso fare tutto, devo fare tutto, per me, per gli altri. Ormai si considera invincibile.
Era una sera di novembre quando Bebe chiamò la mamma, era agli allenamenti di scherma e aveva mal di testa. Ruggero era all’estero per lavoro, casualmente tornava quel giorno. Teresa andò a prendere Bebe, undici anni e febbre alta. La sorellina aveva avuto l’influenza pochi giorni prima. Tutto regolare, tachipirina e via. La mattina dopo il respiro si fece strano e comparve una macchia sul viso di Bebe. Ti hanno dato una fiorettata sulla fronte? Chiese Teresa. Non poteva essere, certo, gli schermidori tirano con la maschera eppure sembrava proprio il livido di un colpo di fioretto. Era un trombo, il primo di una meningite fulminante.
Alle dieci erano al pronto soccorso e alle 10.30 iniziò la crisi settica, quel momento in cui le vene scoppiano e la pressione crolla e il cuore cede. È lì che muoiono tutti. A un certo punto Bebe aveva la pressione a 17 su 32. Comunque le somministrarono subito antibiotico e le fecero continue trasfusioni. Era stata trasferita all’ospedale di Padova che è un centro di riferimento.
Lei sentiva tanto freddo e noi non capivamo nulla ma pensavamo, ok, hanno capito di che si tratta, la stanno curando, qualche giorno e si torna a casa. E invece a un certo punto non la vediamo più, e la sera arriva un medico e ci dice: Al novanta per cento vostra figlia muore.
Cosa? Non avete bloccato tutto?
Sì ma non c’è più circolazione.
Ok grazie, me ne mandate un altro per favore?
Lo mandai via. Non ci potevo credere. Perché non ci credi. La sera prima tirava di scherma e ora mi dicono che non arriva a domani.
Bebe arrivò a domani ma di lì in poi fu un calvario. Continue infezioni la mettevano in pericolo di vita e allora cominciò la camera iperbarica. Quaranta sedute, due ore al giorno. La prima volta con Teresa, poi sempre con papà Ruggero. Quella macchina faceva un rumore infernale, faceva paura. Ruggero la intratteneva leggendo fiabe, si chinava attaccato al suo orecchio e urlava fiabe. Poi usciva e, per via della pressione bassa, sveniva, tutte le volte. E Teresa gli portava la cioccolata calda. Bebe si godeva quelle scene di tenerezza fra loro, e le coccole tutte per lei.
C’è una parte bella in tutto quello che abbiamo vissuto. Sono stati tre mesi e mezzo difficilissimi eppure ci sono stati momenti divertenti, così intimi per la nostra famiglia, le pizze sottobanco, gli aperitivi di nascosto in terapia intensiva, che ci hanno unito e ci hanno aiutato ad andare avanti. Straordinariamente Bebe ricorda solo quelli, forse era piccola o forse non vuole ricordare, ma a parte le due volte che le hanno strappato la centrale e il sangue è schizzato sui muri come nel peggiore dei film horror, lei ricorda le cose belle.
Poi arrivò l’amputazione. L’avevano intuito Ruggero e Teresa, vedevano quelle manine seccarsi, provavano a scaldargliele, a muoverle, con l’ingenuità cieca di un amore grande. Ma sapevano che quel momento sarebbe arrivato. Non seppero quando. Un giorno la portarono in sala operatoria per uno dei suoi tanti interventi e ne uscì senza avambracci. Si infuriarono. Molti non vogliono saperlo, dissero i medici. Molti non ce ne frega nulla, rispose Ruggero. Lei è nostra figlia e voi dovete dirci tutto. Era necessario per salvarle la vita e lo stesso fu dopo un po’, con l’amputazione delle gambe. Una sotto il ginocchio, l’altra sopra. Una loro amica fisioterapista consigliò di non far tagliare il ginocchio, si poteva recuperare, era importante tenerlo. Il chirurgo plastico, primario, perse la testa quando si sentì dire cosa fare sotto indicazione di una fisioterapista. Io salvo vite, cosa ne sapete voi? Fu uno scontro così duro che Teresa ebbe un mancamento.
Quando da solo non ce la fai, hai bisogno di aiuto, di un consiglio. È chiaro che un fisioterapista non ha le competenze di un chirurgo plastico ma se il fisioterapista è tuo amico e ti dice: Fidati, tu ti fidi. E firmi pure una carta per cui se Bebe muore è colpa tua.
Firmarono quella carta e Bebe si salvò, e anche il suo ginocchio. Ci son voluti due anni per recuperarlo ma è grazie a quello che Bebe oggi corre.
La parte brutta è arrivata dopo. La cosa pazzesca di questa malattia veramente cattiva è che ogni volta ne capita una peggiore. Ora muore, poi le infezioni, poi tagliano un pezzo, poi un altro. E tu dici: Finito? No, adesso c’è il problema dei trapianti di pelle.
Quel che restava di braccia e gambe aveva pelle viva a rischio infezioni e la pelle sintetica non poteva coprire superfici così vaste. Ci volevano gli autotrapianti. Tagliavano pezzi di pelle dalla pancia, dalla schiena e dall’interno coscia per riattaccarla sui monconi. Era terribilmente doloroso. Come sempre, il peggio venne dopo, quando si resero conto che i farmaci somministrati fino a quel momento avevano danneggiato il fegato della bambina. Non si potevano più darle anestetici e così proposero la terapia del dolore: pranoterapia e ipnosi. Non funzionava e Bebe urlava chiedendo “la medicina bianca”, un anestetico che le avevano dato fino a quel momento. Fu lì che Ruggero iniziò a entrare in sala operatoria.
Tu sei lì, vedi tua figlia che soffre come una pazza e devi tenerla calma. In realtà funzionava abbastanza, no, non è vero, non funzionava abbastanza, soffriva come un cane e io cercavo di estraniarmi. Le raccontavo barzellette, sembra ridicolo ma i medici ridevano, ’sti coglioni! Cercavo di tenerla tranquilla per quanto potessi, qualcosina facevo. Una volta di colpo si addormentò. Madonna che bravo che son stato, pensai, l’ho fatta addormentare. Poi mi girai e vidi una dottoressa ancora con la siringa in mano. È stato più forte di me, disse, non ce la facevo più a vederla soffrire. Persi la testa. Se dà fastidio a lei, pensi che effetto può fare a me che sto con mia figlia devastata da tutto quello che le sta capitando, l’operazione era quasi finita, impari a fare il suo mestiere o si faccia sostituire.
È proprio allora, superata la fase del pericolo di vita quando sei troppo preso dalla paura e tutto va bene pur di salvarla, è allora che arriva la crisi.
Che vita farà? Si può vivere senza gli arti? Che vita faremo? Ti dici: È finita, non rideremo più. È per questo che quando ci chiamano per dei casi di meningite andiamo negli ospedali a far visita. Per dire che si può, che c’è un dopo. Per dire: Guarda qua, guarda che bella.
Dopo 104 giorni tornarono a casa, senza arti e senza un libretto di istruzioni. Le ferite erano ancora aperte ed era presto per le protesi. Bebe rientrò subito a scuola, in effetti non l’aveva mai lasciata per quel suo senso di responsabilità. Una volta a settimana i professori le facevano lezione e lei studiava tutti i giorni per non perdere l’anno. Anche quando stava malissimo. Ruggero l’avrebbe mandata a quel paese, Teresa le diceva: È giusto, brava. Il senso di responsabilità l’ha preso da lei. Tornò a scuola e agli scout. Ma le medicazioni quotidiane erano sempre molto dolorose. Bebe era stanca. Una mattina sbottò. Ruggero la medicava e lei era stesa sul suo letto, un baldacchino che era stato di sua madre da ragazza, un letto degli anni Sessanta, più alto del normale. In preda al dolore Bebe urlò: Basta, fa troppo male, io mi ammazzo. E si buttò di testa giù dal letto. Ruggero la prese al volo. Bebe, intanto mettiamoci d’accordo, le disse. Se tu ti butti giù da qua, al massimo ti fai un bernoccolo. Così poi mi rompi i coglioni due volte perché ti fanno male le gambe e ti fa male la testa. Se vuoi ammazzarti, ti attacchi alla carrozzina e ti butti giù dalla finestra, lì magari ti ammazzi e allora fai una cosa fatta bene. Per farla male, ti prego, non farla.
Lei rimase di stucco: Papà, mi stai prendendo per il culo?
Bebe, certo che ti prendo per il culo. Con tutto quello che hai passato, hai superato prove ben più difficili di questa. Goditi la vita, ti rendi conto che è una figata? Ora dobbiamo ripartire, Bebe, non buttarci giù. Dobbiamo solo ripartire.
Fu un passaggio cruciale. Fu lì che rinacque Bebe brio. Facendo sua quella frase del papà. La vita è una figata. Non ci pensò più di tanto, Ruggero, è che lui davvero la vita la vede così. Preziosa, divertente. Con quel suo modo scanzonato di affrontare anche i problemi. È crollato anche lui in quei giorni devastanti d’ospedale, come Teresa. Ma si sono alternati a crollare e sempre si sono fatti forza. Lei con la sua fede e il suo compito di tenere unito e alto il senso della famiglia. È a lei che Bebe ha dedicato il libro: “Collante della famiglia e della nostra vita”. Ruggero è in ogni pagina, in ogni sfida, in ogni vittoria.
Quando Bebe parla con i bambini amputati dice sempre che li aspetta una vita pazzesca. I disabili si dividono in due categorie, quelli rancorosi e quelli solari. I primi sono quelli che si chiedono sempre perché. Ma non c’è un perché, cosa vuoi risponderti? Perché sei stato sfigato. Ma non è una risposta. Poi ci sono Bebe, Alex Zanardi, Giusy Versace, Martina Caironi, Francesca Porcellato, persone che hanno visto il brutto della vita e da lì in poi tutto il bello. C’è tanta gente che si perde per poco. Penso a quelli che si suicidano per un video finito su internet. Dài, ho sbagliato ma la vita non finisce lì. È un...

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