I dubbi e le sfide del medico. Per un'etica nella salute
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I dubbi e le sfide del medico. Per un'etica nella salute

Giuseppe Ferrara, Filippo Anelli

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I dubbi e le sfide del medico. Per un'etica nella salute

Giuseppe Ferrara, Filippo Anelli

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L'aziendalizzazione delle strutture ospedaliere rappresenta un cambiamento formale e sostanziale che non solo coinvolge le strutture territoriali di gestione sanitaria, ma incide anche profondamente nella mentalità del medico e nel suo rapporto col paziente. Sono entrati nel linguaggio e nei comportamenti dei sanitari vocaboli, atteggiamenti e parole estranee alla pratica medica (budget, controllo di gestione, dirigente, costi, ricavi, clienti, domanda, offerta, eccetera) mentre la sofferenza del malato rimane sempre identica a se stessa. Si sta arrivando al paradosso che il modello industriale, basato sulla domanda e l'offerta, è accettato come il modello ideale e unico possibile di relazione tra richiesta di prevenzione, cura o assistenza ed erogazione di un servizio medico assistenziale.Le domande cui i medici sono chiamati a rispondere nell'esercizio della loro professione si fanno più profonde. Questo libro è il risultato di un lavoro di formazione e approfondimento tra l'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della provincia e Bari e l'associazione Cercasi un fine. Un percorso con l'obiettivo di salvaguardare il rapporto di fiducia che lega il medico al cittadino come strumento di garanzia del diritto alla salute in un paese democratico.

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Information

1 L’OSPEDALE: UN LUOGO, I VOLTI E LE STORIE

Tommaso Fiore*

Nel corso degli anni ho fatto una serie di riflessioni sull’ospedale, come luogo di cura e contemporaneamente di sorveglianza, come luogo nel quale, mentre si sviluppa una parte dell’attività medica, la società costruisce una delle sue istituzioni totali, realizzando un meccanismo attraverso il quale si gestisce il controllo politico e ideologico della società.
Bellino, nel recente libro di bioetica, Pensare la vita (2013), afferma:
La società medicalizzata ha affidato ai medici il potere di determinare la vita, anche la vecchiaia è diventata una malattia, la medicalizzazione sta determinando una società in cui aumenta l’incertezza e cresce la coscienza delle proprie imperfezioni e malattie. Il soggetto perde la gestione della propria vita, rifiuta la fragilità, si affida sempre più alle tecniche mediche e alla farmacologia. Il confine salute-malattia diventa sottile e labile e, superando i propri limiti, la medicina diventa biocrazia e i medici diventano biocrati creando dipendenza, insoddisfazione, illusioni e delusioni. La cultura eupsichica dello stare bene, della salute ad ogni costo è la parola d’ordine che domina la vita, le attese e i modi di ESSERE di sentire dell’uomo contemporaneo. Sempre più si vive nell’angoscia di una malattia imminente con la sensazione di pericolo che ci spinge a sottoporci a divieti, a privazioni, ad affidarci a vari specialisti e monitorare ogni singolo organo del nostro corpo. La salute a ogni costo e la sorveglianza del nostro corpo hanno fatto scoccare l’ora del desiderio di sicurezza, l’ora in cui ci sentiamo continuamente come bambini troppo cresciuti, costantemente in pericolo. La preoccupazione per la salute e per la sorveglianza testimonia cambiamenti nelle strutture stesse della nostra società, cambiamenti che corrispondono all’emergere del biopotere. Michel Foucault lo considerava una forma di potere sulla vita che spiegava il ruolo culturale attribuito alla medicina nella nostra società: caratteristica del potere e del sovrano era il diritto di vita e di morte sui sudditi. Foucault lo ha definito come: diritto di far morire e di lasciar vivere. Nella biopolitica, si verifica un mutamento di queste dinamiche, si afferma un potere fondato sul diritto esattamente opposto: il diritto di far vivere e di lasciar morire.
Questa lunga premessa ci permette di comprendere la riorganizzazione dello Stato. Lo Stato sovrano si riorganizza e si trasforma in Stato moderno con le sue forme di welfare e di sicurezza. È un meccanismo attraverso cui si sviluppano attività di aiuto nei confronti delle persone, ma contemporaneamente anche attività che consentono la sorveglianza totale dell’individuo, della sua libertà non soltanto di pensiero, ma anche libertà di gestione del proprio corpo. Il potere è totalizzante, non esiste un potere che non abbia l’ambizione o non cerchi di sviluppare iniziative che entrino nel biologico, oltrepassando gli aspetti di propaganda, e realizzino un meccanismo di controllo. Esiste un corpo specializzato, i medici, che esattamente come le guardie all’interno delle carceri, compiono questo tipo di operazione e dentro questo aspetto, definito da Bellino di “biopolitica”, c’è ovviamente anche un ragionamento e un’attività dedicata ai luoghi dove questo meccanismo deve essere più facilmente sviluppato. Esiste questo elemento di contraddizione tra luogo di cura e luogo di sorveglianza o, per alcuni aspetti, tra luogo di cura e luogo di nascondimento e di esclusione.
Quello che ora si chiama ospedale ha cambiato caratteristiche nel corso del tempo: nasce come concezione di ospitalità, di luogo di accoglienza per i pellegrini che dovevano avere un posto dove fermarsi la notte a dormire; per secoli l’Europa è stata attraversata da persone: le varie vie, i pellegrinaggi, i giubilei sono meccanismi antichissimi di viaggio alla ricerca di se stessi che esistono ancora, non solo nella nostra tradizione giudaico-cristiana, ma anche nella tradizione islamica, come il viaggio alla Mecca. Da questo elemento, ancorato agli aspetti religiosi, si sviluppa un’evoluzione progressiva e, nel momento in cui cambia la concezione della malattia, nel Rinascimento, c’è un primo processo di riappropriazione del corpo. La malattia non è più un evento che capita perché in qualche maniera si è violata qualche regola: inizia il riconoscimento in qualche modo della causa biologica di quello che succede. Ovviamente cambia anche il luogo delle cure, si trasforma, arriva la fase di formazione e di nascita della clinica (ampiamente studiata nel secolo scorso da Foucault). La nascita della clinica rinascimentale è fondamentale per capire la modernizzazione dell’organizzazione delle cure, ma soprattutto la nascita degli ospedali moderni come luogo di osservazione e formazione.
Cambia il ragionamento di tipo architettonico: non è la stessa cosa costruire un ospedale orizzontale o un ospedale verticale. Dietro questa scelta ci sono meccanismi di governo e di potere e meccanismi di organizzazione culturale da parte dei “biocrati”, cioè dei medici, che sono profondamente diversi nel corso dei secoli. Per fare un riferimento a questi ultimi anni, tutta la discussione sugli ospedali organizzati per intensità di cure, piuttosto che per specialismi, riconduce a un altro elemento di ridiscussione del luogo e non semplicemente a un problema di centralità del paziente. In pratica, quando diciamo che vogliamo fare dei cambiamenti, noi diciamo che è sempre perché vogliamo il bene del paziente; nessuno dichiara che facciamo operazioni di costruzione in verticale, piuttosto che in orizzontale, perché così ci piace e perché diventiamo più potenti o meno potenti secondo il genere di costruzione.
L’appropriazione da parte dei medici delle regole costruttive di un luogo chiamato ospedale non è indifferente a una discussione epistemologica sulla medicina come la intendiamo e come si voleva farla tra Otto-Novecento. Faccio un esempio clamoroso per tutti: il biologismo nel rapporto con il disturbo psichico porta alla costruzione dei padiglioni ortofrenici, poi evoluti in manicomi. L’individuazione del luogo, oltre che dei sistemi di sicurezza, si svolgeva in base a considerazioni di salubrità dell’aria, di ventilazione, di possibilità di policlinico. Ovviamente, anche il meccanismo di arruolamento dei medici all’interno dell’organizzazione del potere degli stati moderni è un argomento molto etico; il medico può fare un’operazione di adesione a questi modelli oppure può tentare di rovesciarli, praticando un’operazione culturalmente antagonista.
Il luogo può essere analizzato attraverso le forme con cui tradizionalmente si analizzano le istituzioni totali: ci sono delle regole, degli orari per regolare l’accesso dei visitatori, l’orario per il colloquio con il primario, ecc. Da questo punto di vista, quindi, mi sembra di potere affermare, in maniera strutturale, che il meccanismo, dal punto di vista del paziente ricoverato, è di reclusione. Il malato, quando entra in un ospedale, deve a sua volta rispettare una serie di regole. La condizione del ricoverato è di perdita di tutti i diritti, tranne quello di fare il paziente, cioè sostanzialmente di patire.
Ora, perché si fa questo? Qual è l’elemento di controllo? È esclusivamente un meccanismo di potere oppure c’è un meccanismo di nascondimento?
Questi aspetti vanno insieme: è l’elemento indicibile della sofferenza e della morte, che non è comunicabile in una società avanzata e produttivistica e, quindi, ha una necessità assoluta di individuare riti e miti in ambienti chiusi e separati.
Questo è il luogo, la sua costituzione fisica e le modalità attraverso cui si articola; è un punto di riflessione fondamentale per cercare di capire come è cambiata, nel corso dei secoli, la professione antichissima del medico e quali sono i suoi rapporti che di volta in volta cambiano non solo per aspetti culturali generali, ma anche per i poteri costituiti, che non sono il partito maggioritario al governo in quel momento, ma percorsi storici molto più lunghi e forme di organizzazione della società.
Questo tipo di operazione può essere messo in discussione? Le varie proposte di ospedale aperto, per esempio, hanno un senso oppure no rispetto a questo problema? Sono operazioni puramente democraticistiche oppure in realtà hanno l’ambizione di tentare di dare una qualche risposta a questi elementi di separatezza e di organizzazione di un’istituzione totale come l’ospedale?
È un punto aperto di discussione, ma il nascondimento principale è quello della morte, che è non solo indicibile, ma da abolire e da derubricare a malattia e, come tale, potenzialmente risolvibile attraverso cure adeguate. Ne consegue che, nel momento in cui la vita si conclude con la morte, è stato perché la cura è stata inadeguata. Abbiamo sviluppato progressivamente i meccanismi di costruzione del pensiero nella società, e ne siamo rimasti vittime, perché l’argomento che comunque la morte non esiste, ma esiste soltanto la malattia che è curabile, porta a un’esplosione del contenzioso: se è morto vuol dire che non è stato curato bene.
C’è un elemento di contraddizione ed esiste un luogo particolare dove si fa quest’operazione di nascondimento – ecco perché è un argomento che mi ha sempre incuriosito fin da quando ero giovanissimo – è la mitica Terapia intensiva, la Rianimazione, le cui unità non bastano mai e ce ne vogliono di più perché i letti di terapia intensiva sono insufficienti. Il Paese moderno ed evoluto è quello in cui il 3% dei posti letto ospedalieri sono di terapia intensiva, ma noi che ne abbiamo l’1,5% siamo un Paese arretrato?
Questo è il luogo massimo di nascondimento nel quale il malato più grave cambia la sua natura da paziente a semplice fonte di segnali vitali. Quando Bellino dice che l’uomo si affida sempre più alle tecniche mediche, ciò è concepibile o possibile attraverso una progressiva trasformazione della medicina in tecnomedicina, in cui l’aspetto tecnologico non è più un’applicazione della scienza, perché téchne è l’applicazione della scienza. Ad esempio nessuno di noi pensa che l’invenzione della staffa per montare a cavallo sia scienza, fu un’invenzione tecnica che permise a un guerriero in sella a un cavallo di diventare più stabile, una sorta di carrarmato. Nessuno pensa che l’invenzione della staffa sia stata un elemento scientifico: è un elemento di tecnica. Oggi, invece, siamo in una situazione completamente diversa: la tecnica è diventata di per sé scienza sia perché si è perso il rapporto di partenza, sia perché ci serve per fare un’operazione in cui la persona è trasformata in fonte di segnali e immagini, per cui il meccanismo di cura efficiente, buona e di qualità si misura sulla base del numero degli esami eseguiti, della diagnostica d’immagine effettuata, della sua modernità (Tac, risonanza, Pet) e sulla quantità di segnali che provengono dal paziente. Il paziente è gestito attraverso la sua scomposizione che avviene in un luogo, l’ospedale, che deve perdere le sue caratteristiche di ospitalità per avere, invece, le caratteristiche assolute di tecnocrazia e di regole interne.
Un esempio politico è quello dei piccoli ospedali: sotto di un certo numero di posti letto, sono chiusi e tale processo è partito in tutto il mondo. In Italia è stato fatto da alcune regioni – che sono definite avanzate – mentre si considera come una forma di arretratezza nell’Italia meridionale il fatto di averli tenuti in piedi per molto tempo. Bisogna procedere verso la modernità, che consiste nel tenere poche strutture iperattrezzate e ipertecnologiche, dove più efficiente potrebbe essere il percorso di cura. Ivan Illich ha scritto di queste cose alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso: era un sociologo cattolico che aveva anche delle posizioni, secondo me, estremiste perché proponeva la chiusura di tutto. Però, il fatto di lavorare all’interno di una struttura di questo genere, che si chiama ospedale, ha bisogno di possedere degli elementi che consentono di essere in una posizione critica nei confronti di ciò che avviene all’interno del singolo medico, nei rapporti con gli altri colleghi, nel rapporto con gli infermieri, con i tecnici, con il personale ausiliario, ecc. Il problema non è quello di eliminare l’ospedale, ma di vivere l’ospedale con gli elementi sufficienti di conoscenza critica della sua storia, dei modi attraverso cui la sua organizzazione si è creata storicamente, delle regole attraverso cui si sviluppa l’attività quotidiana; essere in grado di capirne le origini dal punto di vista culturale e costruire dei percorsi che consentano in ogni momento di sapere dove si sta e di ragionare su possibili modelli alternativi, su possibili modalità che riposizionino i vari attori del sistema in una posizione differente, in un atteggiamento differente, spesso, persino, in una predisposizione mentale differente. Pezzi di questo percorso sono stati fatti e se ne discute molto, come per esempio dell’empatia, del cambiamento del nome del malato da “paziente” a “esigente”; si tratta di problemi di cui si parla da almeno trent’anni, c’è una letteratura immensa e c’è uno sforzo per cercare di capire in qualche maniera come si possa fare.
Diciamo che la riflessione sul luogo è di straordinaria rilevanza e interesse, e non riguarda soltanto chi esercita medicina ospedaliera ma, proprio per la sua pervasività di modello, riguarda tutti, ovviamente soprattutto i medici, ma anche i cittadini.
Nelle pratiche di cura il punto essenziale è la relazione tra medico e paziente; è un rapporto che si fonda su un’asimmetria strutturale che ha una serie di meccanismi di riduzione che possono essere praticati in vario modo. L’ospedale è il luogo dove c’è il massimo dell’asimmetria, proprio per la maniera strutturale attraverso cui è organizzato e per il ricorso avanzato e orientato alle tecnologie. È il medico che decide quali esami praticare e quando, ma il meccanismo si complica progressivamente per la moltiplicazione dei volti e degli attori. Se è vero che all’interno dell’ospedale la relazione costitutiva della nostra professione, quindi la relazione medico-paziente nelle pratiche di cura, è quella dove si conserva il massimo dell’asimmetria del rapporto, è anche vero che contemporaneamente questo potere è ormai sfidato apertamente e si riorganizza per la moltiplicazione dei soggetti. Questo è un punto rilevante che non ha ancora avuto una ricaduta nel ribaltamento del rapporto, tranne che in qualche luogo ma esclusivamente per atteggiamenti opportunistici.
Per esempio, se mi trovo ricoverato in ospedale perché ho una patologia e so che chi deciderà gli esami da farmi, l’impostazione della terapia, ecc., è il medico, la persona che mi ha in cura, con questa persona io ho una relazione necessariamente asimmetrica, anche se è vero che posso utilizzare il medico amico che va a chiedere informazioni, mentre gli altri attori, quali gli infermieri, i tecnici, gli ausiliari appaiono secondari in questo tipo di processo. Se a un certo punto il paziente decide di fare un’operazione di alleanza con tutto ciò che non è medico ed è numericamente cospicuo all’interno di questo reparto – e in questa maniera ribaltare il rapporto e imporre una serie di scelte – teoricamente è possibile, ma non si fa perché è difficile, perché questa fascia intermedia di operatori pensa che, facendo un’operazione di questo genere, assumerebbe responsabilità maggiori e quindi potrebbe pagarne le conseguenze: in definitiva è un’operazione di puro opportunismo.
In realtà i meccanismi della moltiplicazione dei volti e dei ruoli professionali sono in pieno sviluppo e noi non sappiamo che cosa succederà fra dieci anni e come evolverà la situazione. Ora c’è un meccanismo che crea delle gerarchie esterne all’organizzazione del reparto per fare da contraltare alla stessa organizzazione. Ad esempio c’è l’ufficio infermieristico, per cui non hai più i tuoi infermieri, ma dipendono da un ufficio esterno al tuo reparto, con il quale devi confrontarti per i trasferimenti, le punizioni, le incentivazioni, lo straordinario.
Non c’è dubbio che nell’ambito di quest’articolazione l’elemento centrale è il rapporto nelle relazioni di cura, che dovrebbe partire da una consapevolezza d’inconoscibilità, soprattutto per quanto riguarda alcuni elementi non sufficientemente comunicabili; si cerca di quantificare il dolore attraverso scale, ma noi sappiamo benissimo che è un’approssimazione indecente, perché il dolore, meccanismo biologico primigenio, non è comunicabile per definizione e quindi è inconoscibile. Dentro questo gioco di rapporti e di relazioni i volti chiusi in una struttura devono essere in qualche modo meditati e studiati: sono il volto della sofferenza, della disperazione e della speranza.
Come costruiamo un modello relazionale che riesca a riposizionare le nostre competenze, cioè a renderci disancorati dalla tecnica e contemporaneamente in un luogo di leadership e non di “caporalato” di giornata, all’interno di una struttura sanitaria?
Non ho risposte, ma penso che bisogna andare per tentativi e sono certo che non bisogna dare per scontato i modi attraverso cui noi, dentro un ambiente confinato, abbiamo stabilito le regole delle relazioni: di questo sono certo, ma non ho la ricetta per cambiare il modello, bisogna andare molto per tentativi, anche per buonsenso, recuperando questo aspetto filosofico del buonsenso.
In questo contesto irrompono le storie e non possiamo pensare realmente di regolare le storie attraverso la moltiplicazione di comitati. Faccio un esempio: se un paziente è candidabile a un intervento di chirurgia vascolare per aneurisma, ma per la conformazione particolare anatomica di questo aneurisma, è ritenuto inopportuno da parte dei medici fare un’endoprotesi di quelle che si fanno ordinariamente e, in alternativa, non è neanche indicato a un intervento chirurgico a cielo aperto, la possibilità diventa quella di utilizzare un device di nuovo tipo, di nuova configurazione per eseguire un intervento endovascolare particolare. Se, però, questo tipo d’intervento non è mai stato eseguito da quei medici si pone un problema classificato come etico: cioè è giusto o sbagliato eseguire per la prima volta una procedura chirurgica? Pensiamo di essere in grado di farlo, però si consulta il comitato etico. Allora, un problema clinico, è stato trasformato in un problema etico, però manca la definizione con la quale dichiarare etico un problema. Ho la responsabilità, ma non ho la soluzione del problema del paziente, posso solo aiutarlo indirizzandolo o accompagnandolo in una struttura dove quell’intervento è stato già praticato.
Le storie sono infinite, però noi – e qui possiamo fare un atto di orgoglio – abbiamo alle spalle una storia bimillenaria. Siamo, forse, l’unica professione che ha una storia così lunga, infatti il nostro statuto epistemologico è antichissimo e abbiamo dei principi che non sono mai cambiati. Questi principi sono l’elemento che può ricondurre all’unicità il problema della molteplicità delle storie: il principio base è non fare del male alle persone e possibilmente fare del bene. Dobbiamo riflettere a lungo sugli elementi fondanti della forza della nostra professione e riuscire a distinguerli dalla progressiva stratificazione delle forme politiche e storiche attraverso cui essa si è articolata.
* Tommaso Fiore è stato professore ordinario di anestesiologia e rianimazione presso l’Università degli Studi di Bari.

2 ANTROPOLOGIA DELLA MEDICINA NELLA NOSTRA SOCIETÀ POSTMODERNA

Bernard Ars*

Le utopie attuali sono: salute perfetta, performance fisica, perfezione plastica, integrazione o trapianto di vari dispositivi in grado di aumentare le capacità sensoriali e cognitive, eliminazione della vulnerabilità. Tuttavia le stesse sono anche ingannevoli illusioni poiché fanno credere che l’identità umana possa essere dominata e plasmata. Ci troviamo in un momento di frattura antropologica; non abbiamo più la stessa concezione né della persona, né del senso della sua esistenza, né del senso della sua realizzazione professionale e personale. Il centro del mio discorso è prendersi cura della fragilità dell’uomo. L’espressione “fragilità umana” non è né necessariamente positiva di per sé, né esclusivamente negativa. L’accettazione e l’ammissione della fragilità, infatti, partecipano alla costruzione della nostra identità e rivelano una dinamica propria della nostra natura. La fragilità si manifesta come realtà onnipresente che accompagna l’uomo in tutto il suo percorso della vita, dalla nascita alla morte.
La nozione di fragilità che abbiamo oggi è imprecisa, ma allo stesso tempo incredibilmente attuale, essa coinvolge ciascuno di noi e tutti i settori della nostra società. Spesso diciamo che la società occidentale di oggi è in crisi o che la società globale avverte delle profonde spaccature geopolitiche, socioeconomiche, biomedicali, culturali e ambientali, e la lista potrebbe continuare.
La nostra società non è in crisi, è in trasformazione. I cambiamenti geopolitici dimostrano che il mondo non ruota più attorno alla sola Europa. I cambiamenti socio-economici, la mondializzazione e la globalizzazione, che dovevano generare un senso di consolidamento e stabilizzazione internazionale, hanno al contrario creato un mondo fragile e convulso. La rivoluzione, se non proprio, mutazione genetica ci consente di disporre oggi del pericoloso potere di agire direttamente sui meccanismi che sottendono alla vita. La rivoluzione digitale o informatica, dalla radio alla televisione, dal cellulare a internet, contribuisce alla consapevolezza di far parte di un mondo che è intrinsecamente fragile. La rivoluzione ecologica ci fa comprendere che un progetto di crescita infinita, in un mondo di cui vediamo sempre con maggior chiarezza i limiti, non è più concepibile.
La tematica della fragilità coincide con l’evoluzione anche quantitativa delle società umane. Il primo periodo di espansione demografica coincide con la rivoluzione del Neolitico, in cui l’uomo è passato dallo stadio di predatore allo stadio di produttore; da una decina di milioni di abitanti, la popolazione aumenta fino a 250 milioni di esseri umani all’inizio della nostra era: un raddoppiamento medio della popolazione ...

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