L'estetica dell'oppresso. L'arte e l'estetica come strumenti di libertà
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L'estetica dell'oppresso. L'arte e l'estetica come strumenti di libertà

Augusto Boal

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L'estetica dell'oppresso. L'arte e l'estetica come strumenti di libertà

Augusto Boal

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Lamentiamo spesso che nei paesi poveri, e tra i poveri dei paesi ricchi, sia tanto elevato il numero di cittadini che non godono di pari diritti per il fatto di non saper leggere né scrivere. Più deplorevole però è che molti cittadini non siano educati all'Estetica o non godano dell'arte. È questo un genere di analfabetismo ugualmente grave, se non peggiore: essere esteticamente ciechi, muti e sordi riduce individui potenzialmente creatori alla condizione di meri spettatori. La "castrazione" estetica rende i cittadini vulnerabili e più facilmente plasmabili dai messaggi imperiosi dei media. Questo libro, che possiamo considerare l'eredità di Augusto Boal, ci consegna un'idea forte: il pensiero sensibile, che produce arte e cultura, è essenziale alla liberazione degli oppressi, poiché accresce e approfondisce le capacità cognitive. Soltanto da cittadini che, con tutti i mezzi simbolici (parola) e sensibili (suoni e immagini), si rendono coscienti della realtà in cui vivono e delle sue possibili trasformazioni, potrà sorgere, un giorno, una democrazia reale. Come conclude lo stesso Boal: "In passato ho scritto che essere umano è essere teatro. Vorrei ora ampliare il concetto: essere umano è essere artista! Arte ed Estetica sono strumenti di libertà".

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PARTE SECONDA
Dal pensiero artistico alla concretezza dell’Arte
La soggettività dell’Arte
Insiemi analogici, insiemi complementari
La natura non produce mai due esseri identici: né due granelli di sabbia, due peli della mia barba o due gemelli siamesi; né impronte digitali o due gocce di rugiada; né alberi della foresta, rami e foglie; né le striature di ogni foglia… Niente è uguale a qualcos’altro. Tutte le cose inanimate, tutti gli essere viventi sono unici, irriproducibili, anche se clonati.
Per gli esseri mobili, umani ed animali, con un minimo di vita psichica, sarebbe impossibile vivere (muoversi) in questa infinita diversità se non potessero organizzare la propria percezione del mondo e semplificarla.
Rimarremmo paralizzati se dovessimo vedere ed avere coscienza di tutto quello che guardiamo; ascoltare ed essere coscienti di tutto ciò che sentiamo; toccare ed essere coscienti di tutto ciò che palpiamo, respiriamo e proviamo. Un tale accumulo torrenziale d’informazioni ricevute sarebbe catastrofico. La natura è vertiginosa: non siamo in grado di vivere completamente questa vertigine.
Per fortuna, la natura ci permette di creare versioni semplici di realtà complesse, attraverso la costruzione immaginaria d’insiemi analogici e insiemi complementari.
Anche se le semplificazioni escludono le complessità, noi realizziamo un processo psichico di formazione d’insiemi per poterci orientare e vivere in questo mondo e nella società. Siamo obbligati a distanziarci dalla realtà per essere capaci di comprenderla, anche se in modo approssimativo.
Nel momento della nascita, notiamo che i nostri occhi perlustrano senza vedere nulla: solo tonalità di grigio. Dal momento in cui il nostro nervo ottico comincia ad essere stimolato dalla luce e dall’ombra, organizziamo la nostra percezione visuale distinguendo rette e curve, profondità e colore. Quando smettiamo di osservare tutto allo stesso tempo, cominciamo a vedere realmente, vediamo insiemi: curve e rette, profondità e colori. Nessun pesce è uguale ad un altro, ma tutti si assomigliano: è il branco. Una rosa è una rosa, ma tutte si assomigliano, rosse, bianche e gialle: è un roseto. Nessun colore è omogeneo per tutta l’estensione dell’oggetto colorato, ma possiamo estrarre le differenze che al microscopio appaiono evidenti e profonde.
La foresta non è contenuta in nessuno degli alberi che la compongono, ma non esisterebbe senza di loro. La città non è nessuna delle sue strade o piazze, ma, senza di loro, non esisterebbero le città. La Via Lattea non è nessuna delle sue stelle. Un astronauta ha detto che la terra è azzurra; noi diciamo che la notte è scura, che rosso è il sangue che scorre nelle nostre vene e color piombo è il cielo minaccioso di pioggia… Sappiamo che non è vero: nessun millimetro è uguale ad un altro. Per analogia, con tutto, possiamo capire e creare insiemi analogici, omogenei, che includono esseri simili, ma non uguali – ovvero, unicità1 – in un complesso maggiore, come un corpo di danza o un coro di un’opera, un plotone di soldati o la farina dello stesso sacco.
Possiamo percepire anche insiemi eterogenei, fatta di elementi complementari. Non esistono due fiumi uguali nel proprio percorso, ma in tutti scorre acqua, nell’imponente Rio delle Amazzoni e nel torrente Ipiranga. I loro argini sono diversi, ma tutti contengono l’acqua che ci scorre dentro. Le pietre, nel loro letto, sono differenti in peso e forma, ma simili anche quando composte da materie diverse, organiche o minerali.
Argini, acque, pietre, piante, fiori e pesci formano un agglomerato di cose inanimate ed esseri vivi, eterogenei, che possono essere percepiti come un insieme: possiamo vedere questo fiume senza dover analizzare ognuno degli elementi unici che lo compongono.
Possiamo chiamare fiume tutti questi insiemi, intendendoli simili. Tutti i fiumi hanno l’identità dei fiumi e sappiamo di quale componente geografica stiamo parlando quando parliamo del Nilo egiziano o del Arroyo de La Sierra2 di José Martì, differenti nel volume delle acque, nell’altezza degli argini, nell’irruenza o pacatezza del proprio scorrere.
Possiamo percepire la foresta come un insieme di alberi simili, anche sapendo che non sono uguali: il pascolo, insieme di animali della stessa specie, ognuno con il proprio carattere, il proprio grugno e la propria fame; la moltitudine, insieme di esseri umani, sebbene nessuno di loro sia uguale a nessuno di noi. Inoltre, ogni individuo, ogni cosa è un insieme eterogeneo fatto di elementi complementari: abbiamo testa, collo, tronco e membra, arterie e vene, capelli e pelle; una pietra ha molti colori, anche se grigia: ricche variazioni di toni e forme nella sua superficie, anche se arrotondate.
Semplificando la nostra percezione della Natura e della società, possiamo vivere senza sorprese: unicità possono essere sistematizzate in insiemi analogici di esseri e cose simili, o insiemi complementari di cose ed essere differenti.
In questa semplificazione si perde la ricchezza delle differenze e dell’identità che, essendo infinita, è inaccessibile. Questa semplificazione, opera del nostro immaginario e non della Natura variegata, funziona come una corazza riducendo il nostro accesso alle sole apparenze del reale3.
Per poter comunicare, gli insiemi devono essere denominati: denominiamo montagna tutte le protuberanze della terra che baciano il cielo, anche sapendo che nessuna montagna è uguale ad un’altra montagna, nessuna nuvola è uguale ad un’altra nuvola, nessun sogno è uguale al mio.
Denominiamo mare – un mare di persone ubriache a Capodanno, un mare di fiori al vento, un mare di onde minacciose – tutte le agglomerazioni ondulate dell’acqua, di girasoli o di persone.
Denominare significa un tentativo di fissare. Il nome è una determinazione nel tempo e nello spazio, di ciò che è fluido e non può fissarsi né essere fissato né nello spazio, né nel tempo.
Tutto è transitorio in questo mondo: ognuno di noi e qualsiasi impero, Romano o dei Mille Anni; ogni nazione sul mappamondo, tutto sempre muta: io stesso mi sento mutevole, quando mi chiamano Augusto Boal. Quale? Quello che ero prima di scrivere quest’ultima riga o quello che ancora non ha scritto la prossima? Sono un fiume di Cratilo4: in me, scorrono acque che non scorrevano. Altre scorreranno e giammai risaliranno il fiume, andando a gettarsi in mare. “Come cambia il calendario, cambia tutto in questo mondo”, canta Violeta Parra.
Il mondo vive di guerre e confronti tra individui e gruppi umani, come il nostro corpo, un campo di battaglia: si alimenta della natura e con essa combatte lotte fatali, di vita o morte. Nessuno può vedermi due volte come sono in ogni istante fugace della mia vita, già che fugaci sono gli istanti… e la vita. Giammai sarei lo stesso, secondo dopo secondo che passa. Quelli che mi vedono in questo momento, mai saranno uguali a se stessi in due secondi diversi sulla traiettoria del proprio percorso.
Non sono: sto essendo. Viandante, diventerò. Non sto: vado e vengo.
Esito: verso dove? Scelgo il mio cammino, se posso; proseguo muto, se sono forzato! Non esiste un porto sicuro perché tutti i porti stanno in alto mare e la nostra nave non ha ancore. Navigare è necessario, poiché navigare è vivere5 e smettiamola di scherzare: vivere è necessario, certo! È piacevole e utile.
I nomi denominano ciò che sarà e ciò che già fu. Non quello che è, perché niente appena è! L’universo è gerundio.
Parole come veicoli
Le parole sono pericolose, attenzione! Designano insiemi ma ignorano unicità. Negri e bianchi, uomini e donne, proletari e contadini sono insiemi creati dal pensiero e dall’immaginazione, ispirati da realtà sensibili ma inesistenti, come concretezza fisica. Sono, ma non esistono. Ciò che esiste in forma corporea è questo negro e quella bianca, questa donna e quell’uomo, questa contadina e quell’operaio.
Gli insiemi sono transitori come i loro componenti: pietre e fiori, tu ed io. Non si può attribuire agli individui caratteristiche che appartengono esclusivamente al suo insieme, né viceversa. Il più valoroso soldato non è un esercito, né la più delicata ballerina è un corpo di ballo.
Le trasformazioni che avvengono negli individui modificano gli insiemi ai quali essi appartengono e viceversa, questi alterano quelli. L’interazione è permanente, il che significa che tutto è in permanente trasformazione: niente rimane mai uguale a se stesso.
La bellissima arringa di Enrico V nell’opera omonima di Shakespeare6, quando esorta i soldati delle sue malconce truppe a comportarsi come eroi contro i francesi, prima della Battaglia di Agincourt durante la Guerra dei Cent’Anni, è un lucido esempio di questa interattività. Ricordiamo che gli happy few (pochi fortunati) inglesi vinsero la battaglia… Né l’individuo né il suo insieme esistono “in se stessi”.
Una società, in una dato momento storico, contiene la propria Storia ed aspirazioni, distribuite per classi e caste. Niente è eterno, neanche l’eternità: un bel giorno si esplode e non ci sarà l’indomani. Solamente lo spazio che la nostra vista raggiunge e il tempo che il nostro corpo dura, sono eterni: questo è il nostro campo di battaglia.
Gli insiemi, data la forza che li unifica, possono reagire come se fossero unicità: un comando militare o una squadra di calcio, una famiglia unita, un sindacato operaio in lotta o il sistema solare. Un insieme è sempre qualcosa di più che la somma di due unità – è sinergia! Assomiglia alla seconda struttura di corde della chitarra: corde musicali che vibrano anche se non sono toccate dal musicista, ma solo dalle onde sonore che le prime corde producono.
Quel qualcosa in più, forza creata dalla sinergia degli elementi congiunti, appartiene all’insieme ma si riflette su ogni individuo rendendolo più complesso e potente, come succede con gli operai in sciopero o i calciatori in campo. Possiamo parlare di proletariato, famiglia, patria, ecc., per designare proprietà specifiche di questi insiemi – rimanendo coscienti, però, della loro transitorietà. Non possiamo rendere eterno un concetto fatto di parole che perpetuano insiemi che non sono eterni. Il proletariato cui si riferiva Karl Marx nel secolo XIX non è uguale al proletariato americano del secolo XXI. Esistono somiglianze certo, ma anche immense differenze.
Le parole sono indispensabili al dialogo. Esse sono, però, significanti polisemici che, quando vengono percepiti dal ricettore, perdono parte dei significati che avevano motivato l’emittente del messaggio. Pronunciati dall’emittente, le parole sono significanti con significati carichi delle sue esperienze, desideri e immaginario: nel tragitto verso il ricettore, questi significanti cambiano di significato, come un camion che, nel tragitto da una città all’altra, sostituisce il suo carico: a destinazione, le parole saranno cariche delle esperienze del destinatario, non del mittente.
Per comprendere una parola, qualsiasi, dobbiamo conoscere il percorso di vita dell’emittente. Mille persone usano la stessa parola – libertà, per esempio – dandole mille significati diversi. Ascoltando qualsiasi affermazione, la nostra risposta dovrebbe essere sempre una stessa domanda: “Che cosa volevi dire?”.
Anche nel caso in cui il messaggio arrivasse a destinazione con il carico intatto, il ricettore possiede i propri sistemi di ricezione-traduzione che traducono e tradiscono il messaggio ricevuto. Traduttore, traditore – dicono gli italiani –. Traduciamo e tradiamo tutto ciò che leggiamo e ascoltiamo, principalmente quando è detto e scritto nella nostra lingua, poiché essa possiede una storia e una preistoria che risalgono al tempo in cui apprendemmo le parole, nei primi mesi di vita. Al di là di quello che significano universalmente, esse suscitano significati inconsci in ciascuno di noi. La lingua straniera, imparata più tardi, si vale appena della storia di vita a partire dal momento del suo apprendimento tardivo.
L’emittente fa parte del messaggio. Lo psicoanalista brasiliano Hélio Pellegrino diceva: “Se Giuda Iscariota passasse una petizione in solidarietà a Gesù Cristo, io non la firmerei!”. Messaggio ed emittente sono strettamente connessi.
Le parole sono mezzi di trasporto, come un autobus e un camion. Come gli autobus trasportano persone e i camion il loro carico, le parole trasportano idee, desideri ed emozioni. Con la stessa parola si può dire esattamente il contrario di quello che predica il dizionario, utilizzando la sintassi nella frase scritta e, nella parlata, la voce.
Mai ho voluto
Dire una parola così pazza.
Il vento mi colpì in bocca
E in seguito colpì il tuo orecchio.
Trasportò solo la parola
Lasciando lì il significato.
Il significato è custodito
nel viso con cui ti guardo,
in questo sospiro perso
che ti segue allucinato,
nel mio sorriso sospeso,
come un bacio sventato.
Cecília Meireles, Canzone
La prima cosa che un mezzo di trasporto trasporta è se stesso: possiamo apprezzare la bellezza di una navicella spaziale o di una parola inusuale ma, per comprenderle, dobbiamo esaminare ciò che trasportano – un esame sensibile e non appena simbolico –.
La parola è un tutto che non è niente. Un solco che tracciamo nella sabbia; un suono che, come scultori in delirio, scolpiamo nell’aria. Tracce che le onde cancellano; suono che si dissolve nella brezza. La sabbia la sentiamo nella mano; il vento, sul nostro viso. Le parole, dove stanno? In nessun posto, poiché non esistono: appena sono. Le parole non stanno in nessun posto in particolare e in tutti i posti al tempo stesso. Sono il vuoto che riempie il vuoto esistente tra un essere umano e l’altro. Il mio corpo è materia; quello che penso, è energia. La parola è un ponte. Non esistono ponti in alto mare, tra acque agitate: si appoggiano agli argini che siamo noi, che attraversiamo il Ponte delle Parole in cerca di qualcuno. Siamo gli argini e siamo anche il ponte: siamo parole.
Solcando la sabbia o scolpendo l’aria, in questo spazio ancora vuoto noi depositiamo le nostre vite: la parola. Riempiamo il niente con tutto quello che siamo: le parole che diciamo – noi stessi, trasformati in suoni e tracce –.
Questo libro non è una testimonianza di vita: è la mia vita7!
Per far sì che le parole acquistino un significato meno elastico è bene “vestirle”: nella tragedia greca, con maschera, coturno e mantello; nei templi, con fasto e liturgia; nell’esercito, con schemi disciplinari; al cinema, con riflettori, angoli e lente. Nella vita quotidiana, con gli abiti indossati, i gesti, un timbro speciale, un ritmo della frase, espressioni fisionomiche. La parola scritta indossa la sintassi e lo stilo dello scrittore.
Perché siamo capaci di apprendere l’unico e non appena gli insiemi ai quali appartiene, altre mediazioni si fanno necessarie per evitarci la scorrettezza di dare lo stesso nome, di bue, ad ogni bestia della mandria, poiché il bestiame è composto di unicità bovine e non da massa da macello. Ogni vacca ha la sua personalità: Mimosa, Stella, Esmeralda… insieme, sono vacche. Una mandria è sinergica.
Le parole sono opera e strumento della ragione simbolica, non della ragione sensibile: dobbiamo trascenderle, cercare altre forme di comunicazione che non siano appena simboliche ma anche sensoriali: comunicazione estetiche. Attenzione: questa trascendenza estetica della Ragione è la ragione del teatro e di tutte le arti.
Non possiamo separare ragione e sentimento, idea e forma, parola e voce. Ragione simbolica e ragione sensibile sono una coppia solida anche quando litigano e s’azzuffano. La parola scritta è una voce percepita o immaginata.
L’artista e la sua Arte, artista-individuo e cittadino-artista
L’artista, come siamo noi, è capace di vedere insiemi laddove analogie o complementarietà unificano oggetti disuguali; per questo, egli può vivere in società come un comune mortale. Sa riconoscere la strada dove circolano le macchine e ciò lo salva dall’essere investito. Controlla il conto del supermercato e non permette equivoci. È un essere sociale.
Dato che, però, non si limita alla percezione comune che costruisce insiemi analogici o complementari – neanche dinanzi alle immagini prefabbricate, ai suoni scontati e alle parole vuote che esprimono il Pensiero Unico dominante – l’artista avanza, sente, tocca, vede e ascolta la potenza, non solo l’atto; ...

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