La fede ribelle
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Alberto de Sanctis

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Nessuno conosce "il punto di vista di Dio". Quindi non è legittima la pretesa dell'uomo di farsi Dio. Per questo bisogna opporsi all'attitudine che induce a sostituirsi a Dio, rigettare la ragione propensa a creare nuove schiavitù, rispondere a un potere che si va disumanizzando.Si ritiene, specialmente nel contesto italiano in cui il cattolicesimo è maggioritario, che la religione predisponga ad un atteggiamento accomodante se non addirittura connivente rispetto al potere. Ma così si rendono marginali tutti quegli aspetti del cristianesimo che muovono da un'irriducibile conflittualità col potere. Per questo si è spesso trascurata la rilevanza di una critica religiosa del potere – anche di matrice cattolica – che ha svolto invece una funzione sociale e politica importante.Proprio muovendo da presupposti religiosi, questa critica ha saputo contrastare il potere, ogniqualvolta abbia rivestito i panni del totalitarismo e dell'autoritarismo. Nell'opporsi a queste due tipologie di potere degenerato, la critica religiosa ha individuato come suo bersaglio sia le deviazioni imputabili alle chiese e ai cleri, sia quelle dovute a certi approcci politico-ideologici. Il perno intorno cui ruota questo volume, inconsueto e spiazzante, è l'analisi del fattore religioso o della religiosità come critica del totalitarismo e dell'autoritarismo. Come una guida essenziale e, dunque, indispensabile, i contributi raccolti, che coprono un arco temporale compreso tra la prima metà dell'Ottocento e la fine del secondo millennio, passano in rassegna le coscienze libere che hanno osato, non solo in nome di una fede liberante ma anche contro ogni soggezione complice col potere. Si tratta di figure più ortodosse e altre meno scontate, come Romano Guardini, Luigi Sturzo, Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, poi ancora Mirza Agha Khan Kermani, il movimento Cartista, Ernesto Buonaiuti, Carlo Rosselli, Simone Weil, Aldo Capitini, Samuel Ruiz, Pier Paolo Pasolini e Fabrizio De André.

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Information

Year
2011
ISBN
9788861532359

PARTE SECONDA

Critica religiosa dell’autoritarismo

Mirza Agha Khan Kermani

di Pejman Abdolmohammadi

Quella di Mirza Agha Khan Kermani (1853-1896) è una figura chiave al fine di comprendere come l’incontro tra culture diverse – nella fattispecie quella persiana e quella occidentale – possa rivelarsi fecondo. La via religiosa tracciata da Kermani sa infatti aprirsi all’Occidente senza mai smarrire quel filo che gli consente di tessere un mosaico identitario tipicamente persiano.
Dell’Occidente Kermani ammira il progresso scientifico e tecnologico, stima il culto dei diritti umani. Ne considera tuttavia deprecabile la propensione ad investire nella colonizzazione di popoli ritenuti inferiori. Ciò trova in parte la sua giustificazione anche nell’esportazione di una idea di sviluppo fondata sul culto di una ragione, che si vorrebbe imporre ad altri.
Al contrario, è l’idea di ragione limitata ad ispirare il percorso di Kermani: una ragione che non cade mai nella trappola dell’antistoricismo. Ereditata da Montesquieu, essa si esprime al meglio soltanto nella misura in cui è intrisa di storia. Né l’Occidente deve assolutizzare se stesso, pensando di potere prescindere da ogni contaminazione con mondi diversi. Né la Persia può cedere alla tentazione di chiudersi in un isolamento, che la condannerebbe all’arretratezza. Una ragione limitata, così come la recepisce Kermani, è lo strumento più idoneo a prospettare una sintesi in cui la religiosità è destinata a svolgere un ruolo cruciale.
Il fattore religioso è suscettibile di presentarsi come un’arma a doppio taglio: o concorre al progresso oppure diviene il baluardo della conservazione. Attraverso lo studio delle religioni pre-islamiche, Kermani si convince della estraneità dell’Islam rispetto ad un contesto come quello persiano, da sempre connotato dalla presenza di un marcato pluralismo religioso. Se, per Kermani, le religioni devono adeguarsi ai vari ambiti storici – calandosi in luoghi culturali differenti, le stesse devono altresì assecondare il mutamento dei tempi. Kermani ci restituisce l’immagine di una religiosità estremamente dinamica.
Egli individua nell’irrigidimento e nella preponderanza del tradizionalismo il principale indicatore di un decadimento religioso che, scalzando l’elemento umano, inevitabilmente si arrocca nella difesa dell’esistente. Ad essere imputabile di tradizionalismo è sicuramente l’Islam sciita, la religione cui si appoggia la monarchia assoluta dei Qajar1, che domina la Persia del XIX secolo, e che incarna, per Kermani, il prototipo del dispotismo.
Giudicato pericoloso a causa della sua eterodossia, Kermani viene espulso dal territorio persiano.
Costretto a lasciare la Persia, raggiunge l’Impero ottomano. Come diversi intellettuali iraniani di quel periodo si rifugia a Istanbul, dove vive per alcuni anni (1886-1896), scrivendo varie opere e collaborando ad un importante quotidiano: “Akhtar”2. Ad Istanbul Kermani studia le lingue straniere.
Può così ormai leggere direttamente nelle loro lingue originali testi di Platone, Cartesio, Darwin, Voltaire, Kant, Rousseau e, soprattutto, Montesquieu.
Per Kermani, l’uomo naturale è debole e senza difese: oltre agli animali, teme anche i suoi simili.
È l’istinto sessuale, insieme alla necessità di proteggersi dai pericoli, ad indurlo ad aggregarsi ad altri dando vita ad una comunità. L’uomo presociale di Kermani è solitario e non tende di per sé ad unirsi. È il suo inarrestabile bisogno di conoscenza a convincerlo ad abbandonare la condizione naturale, facendolo accedere al Rousahnestan (il luogo illuminato) della razionalità. È quindi la sete di apprendere e di sapere il principale incentivo che spinge l’uomo ad evolversi, trasformando uno stato di natura infelice e solitario in una società civile basata sul contratto3.
Sembrerebbe trattarsi di un contratto che, ponendo l’accento sull’importanza dell’elevazione morale dell’uomo come conseguenza della sete di conoscenza, risulta essere più facilmente accostabile a quello kantiano piuttosto che a quello descritto da Rousseau. Analogamente a quello kantiano, il contratto di Kermani parrebbe inoltre avere carattere normativo più che storico, cioè incline a delineare il dover essere della società. Kermani osserva come “tramite il contratto e la legge si stabilì l’ordine nelle diverse realtà umane del mondo”4.
Un ordine che, secondo il pensatore persiano, deve tradursi in un’organizzazione sovrana capace di governare: “questo è il momento in cui le nuove società civili costituite creeranno due organi sovrani: un governo civile e un governo religioso. Il primo eserciterà la propria sovranità sul mondo materiale e il secondo sul mondo spirituale”5. Se sulla scia di Montesquieu, Kermani abbraccia il principio della relatività delle leggi sostenendo che, solo se in armonia con i costumi, la storia e la natura dei popoli, il potere civile può contribuire al progresso dell’uomo e alla promozione della pacifica convivenza, egli estende però lo stesso criterio anche alla religione.
Per Montesquieu, infatti, la religione è solo una delle componenti che, assieme ad altre, quali il clima e la conformazione del territorio, costituiscono quell’insieme di relazioni da lui definito “spirito delle leggi”. Diversamente Kermani attribuisce alla religione la medesima rilevanza che Montesquieu riconosce alla legge. Come Montesquieu del resto Kermani considera la religione non come un valore in sé bensì in vista del bene che la collettività può trarne.
Il governo civile e quello religioso sono, per Kermani, entrambi creazioni dell’uomo, miranti a potenziarne lo sviluppo sociale e morale. In caso contrario, entrambi possono dar luogo al dispotismo. Al fine di corroborare la sua tesi, Kermani cita la storia persiana, ricordando che “quando il governo, nell’epoca di Ciro, ha seguito la natura del suo popolo, è riuscito a realizzare un governo così virtuoso che è rimasto ben noto nella storia. Mentre quando i governi persiani in altre epoche hanno dimenticato la natura del loro popolo sono caduti nell’oscurità della tirannide”6. Il fanatismo religioso del clero, insieme al dispotismo dei governanti, sono considerati da Kermani i peggiori mali che possano abbattersi sulla società umana7.
Per porsi in sintonia con il momento dell’illuminazione o razionalità la religione deve piegarsi alla natura specifica del popolo cui è indirizzata. La religione zoroastriana risponde ai caratteri del popolo persiano. Diversamente quella islamica è pensata per gli arabi8.
Una religione è solida e perfetta soltanto quando sia conforme alla natura della popolazione e al suo stile di vita; in tali circostanze la religione può causare lo sviluppo culturale e morale di quel determinato popolo9.
La religione è come una medicina che può curare la malattia di una nazione. Per cui, in quanto medicina, (la religione) sarà adatta ad una specifica malattia e dovrà essere consumata in un determinato momento. Come per ogni malattia si richiede una specifica medicina, anche ogni nazione necessita della sua specifica religione. Di conseguenza una religione che cura una nazione, può risultare nociva ad un’altra popolazione. Anzi, a volte può trasformarsi in veleno10.
Anche il tempo riveste un ruolo fondamentale per giudicare della funzione politica svolta dalle religioni: “le religioni sono relative alla natura dei popoli e sono soggette al fattore tempo”11. Le religioni monoteistiche abramitiche quali l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam non sono, per Kermani, adatte ai tempi moderni. Indagando sulla relazione tra dispotismo e religione, Kermani concentra ora la sua attenzione s...

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