Monsignor Romero martire per il popolo.  I giorni ultimi nel racconto del diario
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Monsignor Romero martire per il popolo. I giorni ultimi nel racconto del diario

Francesco Comina

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Monsignor Romero martire per il popolo. I giorni ultimi nel racconto del diario

Francesco Comina

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Quella voce era di monsignor Oscar Arnulfo Romero, che si convertì e abbracciò, come diceva San Paolo, il cammino della croce.Romero subì le incomprensioni di una Chiesa che si rifiutava di prestare ascolto alle sue richieste e alle sue denunce. Posizioni ideologiche e informazioni fuorvianti su ciò che stava effettivamente accadendo in Salvador produssero una distanza tra lui e il Vaticano. […]Era cosciente delle minacce di cui era oggetto, ma la forza del Vangelo e il suo impegno verso il popolo salvadoregno erano per lui un imperativo morale.Sono trascorsi molti anni e il Santo d'America, Oscar Romero, illumina il cammino della Chiesa.

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Information

1979

Il massacro di El Despertar

La legge che concede ai carnefici licenza di uccidere non viene minimamente scalfita dal lavoro portato avanti da monsignore. Romero si ritrova a raccogliere il cadavere di un altro prete, fatto a pezzi nella chiesa di San Antonio Abad. Nella parrocchia c’è un locale, che funge da punto di incontro, di ritrovo di gruppi di catechesi, di iniziazione cristiana, di approfondimento biblico, di comunità di base e dove si trova anche il dispensario medico che serve la zona. Lo chiamano El Despertar (il risveglio). Spesso si fa festa, si ride, si scherza e si prega in quel locale di campagna, come la sera del 18 gennaio 1979. Trentasette ragazzi si incontrano per stare insieme, mangiare, ballare e cantare. C’è anche padre Octavio Ortiz Luna, ha trentaquattro anni ed è il parroco di San Francisco, nel quartiere di Mejicanos, a cui è stata affidata anche la chiesa di San Antonio Abad con il suo dispensario. È un prete che ama i campesinos, che vede nei loro occhi la luce di un Vangelo che continua a essere scritto con il sudore e il sangue dei poveri. Octavio è immerso nei problemi di questa gente: discute con loro, ne ascolta i lamenti, ne condivide le piccole gioie feriali, prega e spera con loro. El Despertar è un locale pieno di vita, di movimento. I ragazzi dormono la notte con il cuore vivido, di chi sogna ancora i momenti felici della festa passata. Ma all’alba alcuni rumori assordanti li travolgono nei letti ancora caldi. Subito si sentono con chiarezza degli spari provenire da fuori, poi sempre più vicini. Il terrore li schiaccia contro il muro. Improvvisamente si trovano di fronte i corpi di sicurezza e gli uomini armati della guardia nazionale. E sperimentano l’orrore. I militari con le autoblindo scardinano il cancello esterno, abbattono la porta della casa con la dinamite e cominciano a sparare all’impazzata.
Marianella Garcia corre insieme a monsignore per raccogliere le prove dell’ennesima matanza e per ricomporre i corpi delle vittime. Ecco come Raniero La Valle e Linda Bimbi ricostruiscono, dai verbali di Marianella, l’assassinio del sacerdote:
Padre Octavio era già sveglio [...] e all’udire quel terremoto si fece sulla porta della stanza, uscì nel piccolo giardino e si trovò dinanzi, che avanzava, un carro cingolato. Gli si misero accanto, come per difenderlo due grossi cani lupi, enormi, che al Despertar facevano da guardia contro i ladri o gli intrusi. Uomini della Guardia e cani da guardia si trovarono così di fronte, in due campi opposti. Gli uomini uccisero i cani e il prete, poi avanzarono con il carro, sconvolsero il giardino, schiacciarono la testa del sacerdote, rendendolo irriconoscibile. Tra i ragazzi furono quattro i morti: uno di quattordici anni, uno di quindici, uno di ventidue e il quarto di ventiquattro anni1.
Quando monsignore giunge, con la sua Toyota, sul luogo della tragedia, alle undici della sera, viene accolto con un applauso. Ha l’animo sconvolto. Piange. Cammina come fra le rovine di una guerra dopo un bombardamento. Si fa coraggio, entra nel cortile, si piega sulle vittime, benedice i corpi, accarezza i volti dei sopravvissuti. La notte, stanco e affaticato trova ancora il tempo per ricostruire quel sabato “intensamente tragico”.
Giorno intensamente tragico. È iniziato con la notizia di un’azione militare nel locale di El Despertar, della parrocchia di San Antonio Abad. In questa casa, si fanno frequentemente ritiri per approfondire la fede cristiana. Padre Octavio Ortiz, assieme a suor Chepita, come si chiama la religiosa belga che vi lavora, dirigeva un incontro d’iniziazione cristiana. Erano almeno quaranta giovani. Ma, oggi all’alba, la guardia nazionale, con la forza della violenza, ha fatto scoppiare una bomba per sfondare la porta e sono entrati con autoblindo, sparando. Padre Octavio, quando si è reso conto di ciò che succedeva, si è alzato, ma non vi ha trovato altro che la morte, insieme ad altri quattro giovani. Gli altri del gruppo, comprese le due religiose, sono stati portati alla caserma della guardia nazionale. Non abbiamo saputo niente dell’omicidio di padre Octavio e degli altri che erano stati già portati alla sala mortuaria del cimitero. Il volto del padre Octavio era sommamente sfigurato; sembrava schiacciato da un grosso peso passatogli sopra. L’han portato all’impresa funebre La Auxiliadora, come gli altri tre, mentre uno di essi è stato recuperato dalla sua famiglia. Degli altri tre non sono ancora stati trovati i familiari. Per nostra iniziativa, li abbiamo portati all’impresa funebre perché li ricomponessero e, dopo, li porteremo in cattedrale per la veglia, dove potranno essere identificati dai loro familiari e presi da loro in consegna. Alla sera, il tragico corteo funebre è confluito verso la cattedrale. Là c’era molta gente. La cattedrale era quasi piena. Si è pregato molto per i defunti e abbiamo diretto dei messaggi evangelici alla gente. Io sono arrivato quasi alle undici di sera. La folla mi ha ricevuto con un applauso. Ho recitato un responso in suffragio del padre Octavio e degli altri giovani e poi ho preso la parola per dire che cosa avremmo fatto il giorno dopo. Ho invitato tutti in cattedrale alla messa delle otto, alla quale sarebbero stati presenti tutti i sacerdoti, che lasceranno da parte i loro orari ordinari della domenica per partecipare a questa concelebrazione per un fratello sacerdote.
Il 21 gennaio celebra il funerale nella cattedrale davanti a una grande folla e in mezzo a cento sacerdoti concelebranti. È presente anche un rappresentante del vescovo di Cleveland. C’è un clima di affetto profondo che permea tutta la comunità. Romero usa parole forti. Invita a usare la ragione e non la violenza, denuncia l’ennesimo crimine, questa volta ancora più terrificante del solito e ammonisce i responsabili del massacro con la pena della scomunica. Mette sotto accusa il sistema corrotto e la brutalità repressiva dello Stato:
È urgente – dice con forza monsignore – una purificazione del corrotto sistema di sicurezza del nostro Paese [...] L’ambiente in cui viviamo è oramai saturo di brutalità ed è necessario tornare a una riflessione che ci faccia sentire esseri razionali, capaci di trovare le radici dei nostri mali e realizzare senza paura i mutamenti audaci e urgenti di cui ha bisogno la nostra società civile.
Finita la messa in cattedrale si reca nella parrocchia di padre Octavio nel quartiere di Mejicanos. La chiesa è stracolma di gente. Ce n’è dappertutto tanto che si deve celebrare la messa all’aperto con lunghe file di fedeli pazientemente in attesa di salutare per l’ultima volta la salma della loro guida. Romero è sconvolto ma avverte anche un sentimento di gioia. E lo descrive:
Ho terminato questa cerimonia con una grande gioia nello spirito. Come rispondono bene i paesi, quando si sa amare! Il padre Octavio è rimasto nella camera ardente finché è terminata la sfilata di fedeli, ancora molto numerosi.
L’indomani il tribunale penale scagiona i venti ragazzi accusati di preparare, insieme al loro sacerdote, atti rivoluzionari e il giudice convoca il capo dei servizi segreti della Guardia Nacional, il maggiore Roberto D’Aubuisson e con tono secco e indignato lo interroga in piedi, davanti a Marianella Garcia che lo incalza con le accuse. D’Aubuisson ha l’aria spavalda, l’occhio cinico, la parola ferma e fredda come fosse sicuro di aver agito in nome di un ordine predeterminato. Evita gli occhi di Marianella, estrae un foglio da una borsa e lo allunga al giudice. Sono le prove del crimine:
Due poster, editi dall’arcivescovado, uno con la fotografia di padre Rutilio Grande, l’altro con quello di padre Navarro, i due sacerdoti uccisi nel ’77; un cartone su cui era disegnato un asino senza coda, che serviva a gioco dei bambini, che ad occhi bendati dovevano aggiungere la coda all’asino, indovinando dove metterla; una mitraglietta di plastica; una parrucca di stoppa, coi capelli che rimanevano ritti come capelli di calza non adatta a travestimenti ma solo a recite buffe; giornali, rivisti e libri di teologia, di catechismo, di dottrina sociale della Chiesa; delle corde di chitarra; volantini ciclostilati per invitare alle riunioni; attrezzi di lavoro e una quantità di altre cose che con la sovversione, la sedizione, la guerriglia, non avevano proprio nulla a che fare2.

Il vento nuovo di Puebla

Le notizie del massacro di El Despertar piombano a Puebla, dove una nuova Conferenza episcopale, che coinvolge tutti i vescovi dell’America Latina, prosegue e consolida il cammino della “Teologia della liberazione” iniziato nel 1968 a Medellín, inaugurando uno degli eventi che cambieranno la storia del continente latinoamericano.
Il 22 gennaio, non appena atterra in Messico, viene intervistato sulla violenza in Salvador, sull’ultimo massacro e in modo particolare sulle dichiarazioni appena rilasciate dal presidente Hector Romero, anch’egli in quei giorni in Messico, per cui non vi sarebbe alcuna persecuzione contro la chiesa del Salvador. La sera, prima di andare a letto, monsignore puntualizza sul suo diario:
Ho dovuto chiarire alcuni aspetti inesatti delle dichiarazioni fatte dal signor presidente in Messico. Confidenzialmente, uno dei giornalisti mi ha detto che la presenza del presidente Romero e, soprattutto, il saluto al momento della partenza per il Salvador sono stati molto freddi, “di ghiaccio”, ha riferito il giornalista.
Romero tornerà a spiegare ai giornalisti il dramma che sta vivendo la società salvadoregna e il difficile ruolo della Chiesa chiamata ad annunciare il Vangelo in una congiuntura storico-politica tristissima e disgraziatissima. La Chiesa per monsignore ha il compito di svegliare la coscienza del popolo e aiutarlo a mettere in moto una prassi di liberazione:
[...] perché non siamo solo massa, ma figli di Dio, formando comunità dove regni il vero amore. Per questo la Chiesa denuncia tutto ciò che distrugge la dignità dell’individuo e, soprattutto, distrugge la capacità di costruire un popolo su basi d’amore, di giustizia e di pace.
A Puebla monsignore segue con grande interesse i lavori dell’assemblea. Incontra vari confratelli di diocesi difficili, ritrova vecchi amici, come monsignor Sergio Méndez Arceo, arcivescvo di Cuernavaca; il cardinale Primatesta, suo compagno di studi; il padre Miguel Navotrato; il vescovo di Leon, monsignor Salazar; l’arcivescovo di Panama, monsignor Marcos McGrath; il cardinale brasiliano Aloisio Lorscheider; il vescovo di Riobamba in Ecuador, Leonidas Proaño; il priore della comunità ecumenica di Taizé, Roger Schutz e molti altri.
Il gesuita Bartolomeo Sorge lo vede camminare col sorriso amaro sulle labbra, timido, umile e si meraviglia di quella immagine che non si concilia affatto con le voci curiali che lo ritraggono come un leader popolare politicizzato:
Giungendo a Puebla portavo in me il pregiudizio, diffuso negli ambienti romani, secondo cui Romero era una “testa calda”, un vescovo “politicante” sostenitore della “teologia della liberazione”. Fin dai primi incontri scoprii invece un Romero completamente diverso. Mi colpirono subito l’umiltà del tratto, lo spirito di preghiera, la indiscussa fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, soprattutto il grande amore per i poveri e per i suoi campesinos. [...] Egli non faceva che applicare la Parola di Dio ai problemi concreti della gente.
Romero si iscrive nella sesta commissione, in cui approfondisce il tema della teologia della liberazione e dove brilla la stella e la fama del vescovo brasiliano, poeta e profeta dei poveri, dom Helder Câmara:
Voglio osservare che in questa sesta commissione ho avuto il piacere di trovare, fra i 17 vescovi e sacerdoti che la compongono, monsignor Helder Câmara e i ben noti amici Gerardo Flores del Guatemala, Domingo Roa, Costantino Maradei del Venezuela e Manuel Talamás del Messico. Il tema della nostra sessione è molto importante, visto che in essa si studierà la teologia della liberazione.
Monsignore racconta nei dettagli le giornate di Puebla con una partecipazione emotiva quasi da studente: prende appunti, raccoglie impressioni, annota i temi principali e descrive i protagonisti. Si percepisce una tensione carica di attese, specialmente sulla visione di una Chiesa chiamata a curare le ferite del continente latinoamericano. Il suo interesse per un approfondimento della teologia della liberazione si inserisce proprio in questa visione di una Chiesa capace di incarnarsi nelle feritoie di un continente soggiogato da troppe dominazioni idolatriche e anticristiane. Incontra per la prima volta il nuovo papa Giovanni Paolo II, dapprima nella basilica di Guadalupe e poi alla messa nel campo sportivo del seminario di Puebla, davanti a una folla immensa:
Nell’omelia ha trattato il tema della famiglia mettendo a fuoco alcuni aspetti sociali molto interessanti. All’offertorio è stato molto emozionante vedere avvicinarsi al Santo Padre rappresentanze di indigeni, nei loro costumi autoctoni, che portavano i prodotti di quelle terre così fertili e fiori e frutti tipici. Il Papa li ha ricevuti emozionato e ha offerto tutto questo al Signore, nel segno del pane e del vino. [...] Nel refettorio del seminario abbiamo avuto l’onore di pranzare con il Santo Padre. Egli, molto affaticato dal viaggio da Città del Messico a Puebla e dalla celebrazione, si è ritirato presto nella sua camera, preparata perché potesse riposare un poco, e, alle quattro o alle cinque del pomeriggio, nel salone dell’assemblea generale abbiamo avuto l’onore di ascoltare il messaggio del Papa ai vescovi riuniti nella Terza Conferenza. È stato il discorso principale di tutto il suo viaggio in America, dato che è venuto proprio per questo. Il suo messaggio è contenuto anch’esso nel libro dei discorsi fatti nel suo pellegrinaggio in America, ed è un discorso di grande orientamento per i lavori della riunione di Puebla.
Ma anche a Puebla monsignore avverte un senso di radicale solitudine. Ne discute a cena con alcuni vescovi e teologi che si impegnano a mettere in moto un’azione di solidarietà verso l’arcivescovo con una lettera di sostegno alla sua missione e a quella dei vescovi del Guatemala e del Nicaragua che si trovano in situazioni analoghe. Ma ancora una volta sono le dichiarazioni di monsignor Aparicio ad abbatterlo e a provocargli uno stato di profonda prostrazione, al punto da avere anche problemi agli occhi causati da una piaga nella retina. Ora il vescovo di San Vicente non se la prende solo con lui, che con i suoi atti offenderebbe il Governo in carica, ma prende di mira i gesuiti diventati – a suo dire – complici delle violenze che dilagano nel Paese.
Le accuse di Aparicio creano un vero e proprio terremoto. Accendono gli animi, lacerano ancora di più il rapporto fra il Governo e la Chiesa di Romero ma, cosa ancora più grave, espongono la Compagnia di Gesù al rischio repressione. I giornali soffiano sulla polemica e le accuse si ingigantiscono. Ne discute con il superiore dei gesuiti, padre Arrupe, che reagisce con una forte indignazione impegnandosi per trovare una giusta risposta alle menzogne del vescovo di San Vicente. I giornalisti lo prendono d’assedio per raccogliere una sua dichiarazione, ma monsignore prende tempo, evita di acuire la polemica per definire meglio il modo con cui replicare a tali calunnie. Nel diario racconta gli effetti che le parole di Aparicio hanno provocato in Salvador e a Puebla:
Tramite padre Jeréz mi sono reso conto dello scandalo che hanno prodotto in Salvador le notizie date da monsignor Aparicio. Ho saputo anche della lettera che la provincia gli ha scritto protestando, nei limiti del rispetto, e chiedendogli di fare qualcosa per allontanare il pericolo di una minaccia a causa delle sue dichiarazioni. So che nella presidenza del CELAM i vescovi gesuiti, che sono vari, hanno chiesto udienza al cardinal Baggio per esporgli questa situazione molto penosa. Quelli che mi accennano in forma discreta questo problema dicono che esso è stato il siluramento di monsignor Aparicio, vista la pessima impressione causata nell’ambiente della riunione di Puebla. Da parte mia ho chiesto al Signore che si possa rimanere tutti al di sopra di queste miserie umane della Chiesa e così l’ho comunicato per telefono alla YSAX trasmettendo il dialogo che va in onda tutti i mercoledì (grazie a Dio, non si sono mai interrotti)3.
Nonostante il problema agli occhi monsignore decide di tenere una conferenza stampa per fare il punto sulla sua partecipazione all’incontro di Puebla. Si presenta in sala stampa con due sacerdoti spagnoli espulsi dal Salvador, padre Placido Erdozaín e padre Luis Ortega, proprio per denunciare la persecuzione in atto del Governo salvadoregno contro la Chiesa, che pochi giorni prima il presidente aveva smentito. C’è un enorme interesse tanto che i giornalisti riempiono tutti gli spazi e pongono innumerevoli domande. Romero risponde con pazienza e pacatezza. Poi, improvvisamente, dalle sedie in fondo alla sala si alza un grido all’unisono: “Nobel! Nobel! Nobel!”.
Il rapporto con i giornalisti internazionali diventa sempre più importante per Romero perché gli consente di dire ciò che pensa e di mostrarsi come è davvero ossia un uomo che vive il travaglio di un popolo, rischiando la vita per la dignità dei fratelli e delle sorelle massacrati quotidianamente da una violenza strutturale. In un’intervista raccolta dal vaticanista Giancarlo Zizola afferma:
La Chiesa deve denunciare ciò che viola la vita, la libertà e la dignità dell’uomo. [...] La mia funzione è di essere voce di questa Chiesa. Colui che si impegna per i poveri deve correre lo stesso destino dei poveri: scomparire, essere torturato, ucciso. Come pastore della Chiesa del popolo io sono obbligato a dare la vita per coloro che amo4.
La terza Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano si chiude il 13 febbraio 1979 con una messa celebrata nei campi davanti al seminario con quindicimila fedeli presenti. Il giorno dopo Romero parte per San Salvador facendo prima tappa per due giorni a Città del Messico, dove racconta la sua esperienza in una riunione delle comunità di base. Si ferma in preghiera davanti alla basilica di Guadalu...

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