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Italo Calabrò prete del Sud

Piero Cipriani

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Italo Calabrò prete del Sud

Piero Cipriani

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A quasi dieci anni dalla scomparsa di don Italo Calabrò, questo libro vuole rappresentare l'esperienza e la testimonianza di una straordinaria figura della Chiesa del Sud. Una spiritualità incarnata nella Storia e nelle contraddizioni del Mezzogiorno, una vita spesa per i poveri e la loro liberazione, un impegno per la pace e contro la violenza mafiosa che ha percorso i tempi: questi i segni distintivi di un itinerario personale e comunitario vissuto nella duplice fedeltà a Dio e all'uomo. Una solidarietà intelligente, creativa, popolare e dalla forte dimensione politica, che costituì l'anima dell'esperienza di don Italo, è un messaggio ancor oggi vivo e dirompente. Contro ogni torpore e perbenismo borghese, contro ogni tentativo di compromesso al ribasso, nella società e nella Chiesa.

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DA NONVIOLENTI CONTRO LA MAFIA

«Ricordo sempre un episodio che mi è capitato all’inizio del mio sacerdozio. In un paese dove mi ero recato per un funerale, una donna a cui era stato ucciso un figlio piangendo invitava gli altri figli maschi a fare vendetta del fratello. Non chiedeva altro che questa promessa.
Un’altra volta, un giovane di un rione della nostra città mi disse: da piccolo ho sentito un altro vangelo da mio padre e da mia madre. Ogni volta che litigavo con un ragazzo non mi domandavano se avevo ragione o torto, ma volevano sapere se erano più le botte ricevute o quelle date. E se per caso ne avevo prese di più io, mi mandavano fuori a trovare il ragazzo per aggiungere altre razioni di botte».
C’è, in questi due episodi che don Italo racconta in un’omelia poche settimane prima della sua malattia, la motivazione e l’ottica particolare da cui muove la sua azione contro la mafia, che egli legge come sistema di vita, di cultura, di potere che rappresenta l’anti-vangelo, la negazione dei valori più autentici dell’uomo e della fede stessa, ma anche come l’espressione di una mentalità e di un costume diffusi di arroganza e di violenza.
Però da operatore pastorale profondamente inserito nella sua terra e nei suoi problemi, egli collega la valutazione eticoreligiosa a quella sociale. La mafia è anche la sola organizzazione capace di reggere il passo dei processi di modernizzazione: a fronte di una debolezza strutturale dello stato di diritto, i nuovi enormi interessi economici, politici e finanziari della criminalità vengono a intrecciarsi da un lato con una persistente struttura gerarchica familistica, dall’altro lato con la crescita del degrado sociale e civile e l’estensione delle fasce di marginalità, a cui nessuno sa offrire risposte in termini di solidarietà collettive alternative a quella mafiosa.
Il suo lavoro in mezzo e con le persone porta don Italo a non fare una lettura ideologica del fenomeno mafioso. La ‘ndrangheta è certamente la struttura criminale che nel corso dei decenni passa dal controllo delle campagne ai grandi appalti, al traffico di armi e droga, agli intrecci con i superpartiti occulti. Ma continua anche a essere l’organizzazione che concretamente, nel quotidiano, controlla la vita di persone, famiglie e paesi, dà lavoro e protezione, crea rapporti e dipendenza, si nutre di omertà e di ricatti, si fonda – alimentandoli a sua volta – su modelli educativi e culturali. E si veste addirittura di segni e linguaggi religiosi, in un connubio tra potere mondano e potere sacro che dal passato arriva fino all’oggi.
In termini ecclesiologici, come scrive Giovanni Mazzillo, teologo fra i più attenti e impegnati al Sud, una concezione della Chiesa di tipo giuridico-gerarchico «non è solo un momento della storia della teologia: è un modello mentale e comportamentale, che possiamo rinvenire ancora, sebbene dalla celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II ci separino più di 25 anni (...) e diventa anch’essa elemento di conservazione, perché si integra con il modello sociologico della gerarchia parentale. Dalla indiscussa autorità del padre derivano non poche conseguenze: il “padrino” da “padre”diventa il protettore; il “padrone”, un tempo “proprietario” della terra, oggi è il “signore” che conta e che può procurare il posto ai giovani, spesso è il politico; il “padrone” è spesso di fatto il padrino e lo si chiama a battezzare o a cresimare futuri protetti. Il parroco in qualche luogo è chiamato ed è il “parrino”; il santo venerato è il “patrono” ed è considerato protettore specializzato; Dio stesso è visto, ahimè, come supremo signore e capo dei patroni, dei padrini, dei parrini e dei padroni».
Se così stanno le cose, non è attraverso i documenti o i pronunciamenti ufficiali o le condanne anche precise delle cause del male che passa una possibile azione di contrasto della mafia da parte della Chiesa. Queste cose ormai ci sono. Invece «mancano purtroppo – è sempre l’analisi di Mazzillo – la permeabilità, la transitività reale e i modelli alternativi. Sicché, mentre gruppi e singole realtà ecclesiali del Meridione sono punte di diamante (pur essendo ancora minoranza) in questa situazione, la realtà odierna registra purtroppo un peggioramento, mettendoci davanti alla brutalità e all’estensione del male, come nuovo patto antisolidale e mafioso, struttura peccaminosa, che si aggiunge alle altre già viste: egoismo di poche classi, abuso di potere e clientelismo, ma anche nuova colonizzazione e militarismo avanzante in tutto il Sud e anche in Calabria». Si tratta, allora, di realizzare un «modello storico-liberante, secondo cui la Chiesa è popolo di Dio in cammino con Cristo e con gli uomini e recepisce e condivide i bisogni e le speranze di tutti e in primo luogo dei poveri».
Si comprende, allora, perché la lotta alla mafia non sia un capitolo «altro», a sé stante della vita di don Italo, ma rappresenti un tutt’uno con la scelta dei poveri e degli esclusi e con il suo impegno di realizzare un modello di Chiesa conciliare.
Quando parla di mafia e la collega al lavoro che manca, all’istruzione carente, ai vincoli di clan, alla clientela politica, egli ha in mente volti, storie, nomi precisi. Famiglie coinvolte. Vite distrutte. Vittime e carnefici. Paure e omertà. I bambini delle faide e i giovani della sua parrocchia ammazzati. Le donne che invocano la vendetta e quelle che annunciano il perdono. I gregari abbagliati dal rapido guadagno e i capi che si muovono nell’ombra. I boss delle minacce esplicite e gli uomini delle istituzioni che fanno accordi con loro.
A rendere credibili in don Italo la denuncia e l’appello alla mobilitazione contro la mafia sono proprio la sua capacità di compagnia e di condivisione con le vittime, ma anche la conoscenza diretta dei percorsi e delle sofferenze di tanti.
È il giovane bancario in crisi che va a confidarsi con lui, sconcertato dall’accoglienza che, nell’istituto di credito dove lavora, viene riservata dal direttore a un noto boss della zona: ricevuto con i massimi onori, servito con sollecitudine, riverito e accompagnato sino alla porta.
È il giovane con un’invalidità riconosciuta del 45%, che da anni bussa invano alle porte di questo o quel politico per ottenere uno dei posti che spettano alle categorie protette e che alla fine trova il lavoro: come corriere di droga di una cosca, due-tre volte al mese dalla Calabria a Torino.
È la donna, già vedova di mafia, alla quale uccidono anche due figli: le sono rimaste tre ragazze e un altro ragazzo, ma questi ha deciso di tirarsi fuori e di non vendicare la morte dei familiari. E lei piangendo dice: «non ho più figli maschi».
La mafia, d’altra parte, non si preoccupa molto di quali siano natura e condizioni della vittima designata. Anche le attività dell’Agape, una volta, finiscono nel mirino. L’Arca, la cooperativa che gestisce nel centro di Reggio un bar-pizzeria per l’inserimento di giovani in difficoltà, riceve poco tempo dopo la sua apertura una strana visita. «Stiamo raccogliendo fondi per i carcerati», è la richiesta della persona che si affaccia una sera sulla porta d’ingresso. Il volontario di turno capisce che è la richiesta del pizzo, cerca di prendere tempo: «Siamo una cooperativa, non posso decidere da solo... tornate tra due giorni». Quella sera a casa di don Italo si tiene un’accesa riunione: non bisogna assolutamente cedere al racket. «Nascondiamoci, facciamoci trovare armati di bastoni e quando tornano per i soldi gliene daremo tante che ci lasceranno in pace anche per il futuro», è la decisione prevalente. «Ma no, ragazzi, che volete fare? – cerca di intervenire don Italo – Non mettetevi nei guai». «Don Italo, queste non sono cose da prete: voi statene fuori e tutto andrà a finire bene». Due sere dopo, però, all’appuntamento non si presenta nessuno e non c’è bisogno di menare le mani. «Forse hanno sospettato qualcosa e hanno preferito lasciarci in pace...».
Soltanto molti anni dopo, don Italo confesserà come erano andate le cose. Preoccupato dell’incolumità dei suoi giovani, era riuscito a sapere chi controllava il racket nella zona e si era presentato da questo mafioso (destinato, poi, a fare una gran brutta fine), presso il suo chiosco al mercato rionale. «Se non sbaglio, l’altra sera vi ho visto passare davanti a quella nostra cooperativa dove lavorano gli handicappati. Avete guardato dentro. Vi serviva qualcosa?». Messaggio chiaro, con un’altrettanto chiara risposta. «Ma no, vi sbagliate: sicuramente era qualche altro...». «Ah, meglio così...».
L’esperienza sacerdotale porta don Italo in situazioni nelle quali deve muoversi con prudenza e coraggio. Ad esempio i funerali dei morti di mafia. Non si tira mai indietro dal celebrarli («mafioso o innocente – ripete – un morto ammazzato è sempre vittima dell’odio, che va comunque condannato»), ma ne fa momento di verità e di appello. A San Giovanni di Sambatello li diffonde con i microfoni all’esterno, perché tutti possano ascoltare nella vallata. Le omelie funebri vogliono rompere il muro di rassegnazione e di omertà. Dice cose scomode: «il fatto strano – commenta spesso – è che in questi casi tutti i presenti non guardano il prete che parla o i vicini. No, si mettono tutti a guardare il soffitto. Come se fossero improvvisamente interessati alla storia dell’arte...».
Un giorno va a celebrare un funerale di mafia in un paese, chiamato dal parroco. E inizia l’omelia dicendo: «Vi ho osservato mentre venivate in chiesa dietro il feretro. E non ho capito se siete favorevoli o contrari a questo omicidio». Tra i banchi c’è subito movimento, qualcuno borbotta contro quel prete forestiero che si permette di essere così impudente. Uno, più agitato degli altri, si alza con aria di sfida: «Reverendo, pensi a dire la Messa...». Non fa nemmeno in tempo a finire la frase che don Italo lo blocca: «Guardi che lei è il candidato al prossimo funerale...». Il poveraccio impallidisce, fa tutti gli scongiuri e si siede subito in silenzio.
Ma anche in questi casi il suo è un messaggio di vita: «Io vi dico queste cose perché vi voglio bene e voglio che viviate», ripete sempre in circostanze simili. «La mafia può forse darvi soldi, donne, macchine blindate, se riuscite a fare carriera nelle cosche. Ma una cosa ve la procura certamente e rapidamente: la morte. Fatela finita, e se per voi non è più possibile tirarvi fuori dalla mafia, evitate almeno che ci entrino i vostri figli».
Battesimi e cresime sono altre occasioni nelle quali tradizionalmente si creano o si rafforzano vincoli di stampo mafioso all’interno e tra le famiglie. Già nel direttorio pastorale preparato con monsignor Ferro, si sottolineava come non fosse obbligatoria la presenza di padrini nella celebrazione dei sacramenti, puntando invece su itinerari di catechesi e di formazione specifica per i genitori. Ma in molte situazioni la cosa non è così semplice: troppo forti sono i legami e le spinte dell’ambiente. Un giorno si presentano da don Italo un giovane e la sua fidanzata, che hanno deciso di sposarsi: ma lui non è cresimato e chi dovrebbe fargli da padrino è un noto mafioso, anch’egli presente all’incontro. Don Italo comprende subito la situazione e cerca intanto di prendere tempo. «Oggi non è più obbligatorio cresimarsi prima del matrimonio... E poi occorre una lunga preparazione, mentre voi avete deciso di sposarvi entro un paio di mesi... Bisogna partecipare agli incontri comunitari nella parrocchia...». Dopo un lungo tira e molla, il giovane ritorna da don Italo da solo: «Senta, io mi voglio preparare seriamente alla cresima, perché sono un buon cristiano». Don Italo è in imbarazzo: come fare a dirgli che il suo aspirante padrino non è certo in fama di santità e lui non può acconsentire alla cresima in queste condizioni? Ma è lo stesso ragazzo a tirar fuori l’idea buona: «Non possiamo fare insieme cresima e matrimonio?». «Certamente, ottima soluzione. Io presiedo il matrimonio e lì, naturalmente, non c’è bisogno di padrino. E poi tua moglie ti farà da madrina: chi meglio di lei?». «Grazie mille», si entusiasma il ragazzo. «No, sono io che devo ringraziare te, sapessi che peso mi hai tolto...».
Risale al 30 novembre 1975 la prima presa di posizione comune dei vescovi calabresi sulla mafia, definita «disonorante piaga della società», «segno di arretratezza socio-economica e culturale, e di involuzione civile». Sono anni nei quali si assiste a un progressivo risveglio ecclesiale e si arriva a una posizione di chiara condanna dopo molti silenzi, omissioni e sottovalutazioni. Ma va anche sottolineato che, al di là delle prese di posizione individuali o collettive nell’episcopato, quello della mafia apparirà anche negli anni seguenti più un tema da elencare accanto ad altri che non un fenomeno assunto in tutta la sua complessità ed estensione, tale da meritare un’attenzione pastorale specifica.
Certo, il periodo che va sino ai primi anni Ottanta vede positivamente aprirsi nella chiesa calabrese, come in quella siciliana, un dibattito, soprattutto ad opera di laici e del clero più giovane o socialmente impegnato, volto a demarcare i confini tra fede cristiana e appartenenza mafiosa, a fare una netta scelta di campo anche rispetto ai connubi tra poteri criminali, clientela politica e presenza della mano pubblica al Sud. È anche il momento di un primo parziale sganciamento dal sistema di potere dc e della crisi di un tradizionale rapporto di delega in bianco al partito cattolico, turandosi il naso: «I vescovi invocano radicali riforme», afferma monsignor Sorrentino in un’intervista dell’ottobre 1979 sulla situazione calabrese.
Quello che era stato nei decenni precedenti un ambito quasi esclusivo della sinistra e del mondo sindacale diventa terreno sul quale anche i vertici ecclesiali cominciano a muoversi, anche se si mostrano ancora insufficienti l’analisi sociale e la comprensione del fenomeno.
Don Italo segue quest’evoluzione della Chiesa calabrese da una posizione privilegiata, per il ruolo di vicario generale di Reggio (i cui vescovi sono a lungo presidenti della Conferenza Episcopale) e per gli incarichi che ricopre a livello regionale. Già nel documento del 1975, scritto da monsignor Ferro e poi firmato collegialmente, c’è la sua collaborazione.
Tuttavia con il passare degli anni don Italo avverte un rischio: che la denuncia contro la mafia, sempre necessaria, diventi per la Chiesa una sorta di rituale, una concessione per documenti e interviste, se non si accompagna a una modifica profonda di modelli teologici e pastorali stratificati, a un rinnovamento di mentalità e di strutture, a strumenti di progettazione e di verifica del lavoro, a una capacità delle Chiese locali di lavorare insieme e di coordinarsi. Ripete spesso: «La mafia è un’organizzazione di dimensione e struttura internazionale e noi non riusciamo neppure a metterci d’accordo fra tre diocesi della stessa provincia per fare un convegno!».
Intorno alla metà degli anni Ottanta sembra verificarsi un certo cambiamento di rotta, una fase di silenzio e di stasi da parte di esponenti di rilievo delle Chiese del Sud che pure hanno avuto un ruolo fondamentale nella rivolta morale contro la mafia e il degrado delle istituzioni. Il caso più evidente è quello del cardinale Pappalardo: «Quando l’impegno dello Stato non era così sostenuto, era necessario che il discorso fosse più stimolante. Ora che sono in opera tante leggi e procedure antimafia non è più così urgente che altri suppliscano a eventuali lacune e assenze», dichiara l’allora arcivescovo di Palermo in un’intervista del 1986. Poi c’è la paura di strumentalizzazioni, il rifiuto dell’immagine «riduttiva e distorta che era stata creata di un paladino antimafia e basta». E così, non molto dissimile dalle autodifese dei notabili politici suona la sua affermazione del febbraio 1986, in occasione del maxiprocesso alle cosche: «Non si può permettere che un altro processo più generale venga imbastito indiscriminatamente da una certa pubblica opinione abilmente pilotata, per condannare moralmente tutta la nostra città, tutta la Sicilia».
L’azione di don Italo nello stesso periodo si muove invece su altri binari. Il rischio vero, a suo parere, è di minimizzare il fenomeno mafioso, di rifugiarsi nel vittimismo meridionalista, di non vedere quanto terrificante sia la situazione imposta dalla mafia. Questa è la descrizione che ne fa, ad esempio, nel corso del convegno che presenta i dati di una ricerca sul rapporto tra giovani e mafia, condotta dall’Agape nel 1987: «Salgono a diverse centinaia i morti ammazzati in questi ultimi anni; di giorno, nel cuore della città, di fronte al Tribunale, si attenta alla vita delle persone con spregiudicata provocazione; sull’Aspromonte finiscono quasi tutti i sequestrati d’Italia, nonostante la rafforzata presenza delle forze dell’ordine; decine di persone hanno scelto la via della latitanza non perché incriminate dai Magistrati ma perché condannate a morte dalla ‘ndrangheta; anche più consistente da Reggio verso il Nord, l’esodo di famiglie, anche di professionisti, per sfuggire a sicure vendette trasversali, talvolta solo perché legate da vincoli di parentela o di amicizia con mafiosi; parecchie migliaia – dati certi noi non li conosciamo, ma neppure la polizia o la magistratura ne è al corrente – i giovani “picciotti” o aspiranti tali, coinvolti in diversi gradi di responsabilità nelle varie cosche che si disputano il predominio in città e provincia; all’ordine del giorno le intimidazioni, i ricatti, gli attentati a commercianti, professionisti, ecc. per il versamento di mazzette sempre più pesanti; denunziate da più parti, anche se non sempre provate, le collusioni con il mondo della politica o almeno con alcuni politici, con imprenditori edili, ecc. (...) È solo, però, la punta emergente dell’iceberg “mafia” quella che noi riusciamo a descrivere. Resta a tutti ignota l’effettiva, sommersa realtà, difesa da inviolata segretezza cui si resta fedeli perché ogni violazione si paga con la vita». Ogni ipotesi di lettura o atteggiamento di tipo riduzionistico, dunque, vanno respinti.
Ma don Italo non ritiene neppure che per la Chiesa la lotta alla mafia sia motivata da un’azione di supplenza momentanea nei confronti dello Stato. È – su altro piano – quello che afferma riguardo all’impegno ecclesiale nel mondo dell’emarginazione e della povertà: non una conseguenza di leggi o un intervento tappabuchi per carenze di altri soggetti pubblici o privati, bensì una nota originaria e originale della comunità cristiana. Allo stesso modo l’impegno per «contrapporre una cultura di vita alla cultura di morte» – che è il filo conduttore del suo impegno etico e pastorale contro la mafia – trova fondamento nella missione dei credenti e della comunità cristiana. Altrimenti è l’annuncio stesso evangelico a restare disincarnato e inefficace.
Lo ribadisce anche alla Commissione Parlamentare Antimafia, al cui presidente Alinovi consegna nel luglio 1984 un dossier a nome dell’episcopato calabrese: «L’impegno della Chiesa – dichiara in quella circostanza – non vuole essere una supplenza. Si tratta della nostra presa di coscienza nei confronti di un fenomeno che forse prima ritenevamo marginale». Anch’egli sa bene che finalmente cominciano a esserci strumenti e volontà politiche prima assenti (in particolare la legge Rognoni-La Torre «che mette il dito sull’aspetto maggiore del fenomeno, l’accumulazione dei beni»), ma non per questo può venir meno o abbassarsi di livello l’impegno della Chiesa, la quale si pone l’obiettivo di «una reale presa di coscienza di tutta la popolazione».
Quanto al timore di strumentalizzazione, don Italo sa per esperienza che questo finisce per essere un alibi all’inerzia, al perbenismo e al qu...

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