Il corpo violato
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Il corpo violato

M. Stupiggia

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Il corpo violato

M. Stupiggia

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Queste pagine di descrizione diretta delle sedute terapeutiche non saranno facili per il lettore. Potrà guardare una realtà che non ha mai conosciuto. Forse alcune persone dovranno saltarle. Gli episodi che hanno perseguitato la vittima sono come un incubo ripetuto e indimenticabile. Il lettore potrebbe reagire dicendo: "Non avrei mai immaginato che qualcosa come questo potesse succedere!". Sembra intollerabile, ma sappiamo che tutto è reale. (dall'introduzione di J. Liss)Immaginiamo un grande meteorite che colpisca la terra. Farebbe un buco enorme. Ecco come il trauma colpisce l'identità della persona.La persone che ha subito molestie sessuali vive un "buco" di umiliazione, vergogna, assenza interna e disperazione. Ciò può commuovere qualsiasi spettatore, ma non ci sono spettatori che hanno una conoscenza intima dell'avvenimento. La vergogna e l'umiliazione della vittima occultano qualsiasi cosa.Questo volume introduce in un mondo interno e nascosto, raramente ammesso o rivelato.Operando una scelta inedita e coraggiosa, queste pagine illustrano la sequenza terapeutica nei dettagli concreti, come un minuzioso diario di lavoro. Nessuna descrizione astratta o teorica generica.Seguendo il modello clinico psico-corporeo, l'autore suggerisce un approccio che coinvolge anche gli aspetti corporei, oltre naturalmente quelli mentali, per osservare e intervenire nel setting clinico. Come un sarto impegnato in un'opera di ricucitura, occorre un'attenzione quasi maniacale alla necessità che tutti i materiali clinici siano sempre in co-evoluzione sincronica: che la mobilizzazione corporea sia coerente con la capacità cognitiva di comprensionee che il tutto sia sempre vissuto all'interno di una relazione terapeutica positiva.

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Information

Year
2012
ISBN
9788861532625

1.

Fenomenologia dell’abuso:
corpo e mente nella
catastrofe traumatica

images

UNA SERIE DI ERRORI1.1

Un giorno, alla fine di una seduta, al momento di salutarci, mi venne spontaneo congedarmi da Valeria, la paziente, con un gesto che con lei non avevo mai fatto prima: la guardai con affettuosa intensità negli occhi mentre tenevo le mie mani lateralmente sulle sue braccia, in prossimità delle spalle. Un gesto che spesso ho fatto con i miei figli, quando cercavo di accoglierli nei momenti di pianto inconsolabile o quando dovevo mettermi in posizione di profondo ascolto e cura di alcuni loro problemi. Ma è anche la posizione che a volte ho usato per redarguirli guardandoli diritto negli occhi.
Quel gesto con la mia paziente scaturiva ovviamente dal percepire le sue grandi difficoltà emotive e il suo stato di confusione. Non era qualcosa di assolutamente eccezionale o fuori dalla norma, dato che il mio modello di lavoro prevede la presenza del corpo nel setting, ma da quello che sortì da quel momento, io cambiai modo di lavorare con tutta una serie di persone in terapia. Fui molto sorpreso nel rivedere Valeria la settimana seguente: entrò dandomi solo una fugace occhiata, non si tolse la giacca nel sedersi e non mi rivolse parola per un buon minuto, un tempo per lei lunghissimo, dato che era abituata ad aprire sempre immediatamente la comunicazione. Non era la solita persona che ero abituato ad incontrare. Qualcosa di misterioso era successo e io avevo proprio la strana sensazione di trovarmi davanti ad un’altra persona. Cercai di ripercorrere mentalmente il decorso della seduta precedente, ma non trovai nulla di eccezionale o anomalo: solo il mio ricordo del racconto delle sue sofferenze patite nell’ambito familiare che la gettavano in un senso di profonda solitudine.
Quando finalmente alzò gli occhi verso di me, ebbi la conferma di ciò che stavo provando: il suo sguardo era in uno stato di costante vibratile movimento, come se non sapesse dove posarsi, e al tempo stesso la sua mascella era serrata in una morsa che sembrava definitiva. Sembrava un animale braccato, a metà fra il tentativo di fuggire e la voglia di spaccare ogni cosa. Non avevo mai visto quella Valeria! Ma quello che mi stupì di più fu il suo racconto.
È stata la peggior settimana della mia vita. Dopo che sono uscita da qui mi è scoppiato un gran mal di testa e a casa ho cominciato a vomitare. Ma non è questo il problema… il fatto è che mi è scoppiato qualcosa dentro… qualcosa che non riesco più a togliermi di dosso… ho paura, ho paura e non capisco cosa mi stia succedendo… ho una confusione strana nella testa, una confusione così strana che mi sembra di vederla… quasi di toccarla. E poi ho le braccia e le gambe pesanti, con una stanchezza che mi fa impazzire.
Mi stava certamente descrivendo uno stato inquietante di paura, ma non era comunque adeguato all’impressione di “alterità” da se stessa che mi arrivava. Una spiegazione di ciò venne dalle parole che proferì immediatamente dopo.
C’è però una cosa che devo dire. Mi sento pazza ma la devo dire. Tutto è cominciato l’altra volta, quando ci siamo salutati… quelle mani addosso… mi sono vista messa in un angolo… bloccata alle braccia… bloccata, incastrata, senza possibilità di far niente! Lo so che è assurdo, ma mi è venuta una rabbia tremenda, come se volessi spaccare tutto… mi faceva schifo tutto!”
Rimasi sconcertato e al tempo stesso sollevato dal fatto che mi sembrava di aver capito cosa fosse successo. Quel fugace ed apparentemente innocuo gesto di saluto aveva scatenato una riemersione dalla memoria di qualcosa di sgradevole e traumatico.
“Ho commesso un errore – cominciai mentalmente a dirmi – non dovevo andare al di là della solita stretta di mano. Eppure quel contatto è durato solo un attimo! E poi la mia intenzione era proprio benevola e tutt’altro che irrispettosa.”
Mentre mi dibattevo internamente in questioni tecniche, cercando di non cedere ad una sorta di autocondanna del mio operato, lei riprese a raccontare:
Pensavo di aver accantonato per sempre certe cose, e invece mi sono tor-nate. Speravo di non doverne parlare più in vita mia e invece quella cosa dell’altra volta me le ha fatte tornare. È tutta la settimana che sto male e non riesco a togliermi di dosso questa roba!
Parlava guardandomi di traverso, con un’espressione di rimprovero, ma al tempo stesso mostrando una tendenza a discostarsi da me. Pensai che fosse l’usuale reazione che hanno i pazienti di fronte alla sorpresa di riscoprire i propri dolori in terapia e che fosse destinata a scomparire col prosieguo del lavoro, sapendo di dover essere accogliente ed empatico rispetto ai vissuti dolorosi, ma al tempo stesso fermo e deciso nel proseguire il duro percorso di esplorazione della storia personale della persona stessa.
Dopo un breve tempo di silenzio, cominciai quindi ad indagare il contenuto delle immagini, delle sensazioni e dei ricordi di Valeria.
Ero preso da una sorta di sotterranea eccitazione, qualcosa mi diceva che potevamo mettere mano a cose importanti, disseppellire vissuti antichi e ricomporre trame spezzate nel tempo: ridare, cioè, un senso a tutte quelle situazioni spiacevoli che rimanevano inalterate e senza spiegazione nella vita attuale di Valeria.

Avrei voluto che smettesse, ma alla fine mi ci sono abituata1.1.1

Le questioni che l’avevano portata da me riguardavano, infatti, le sue relazioni amorose o pseudo-amorose. Passava da una storia all’altra collezionando una serie continua di delusioni, inganni e a volte anche umiliazioni, con la costante sensazione di “essere usata”.
Aveva avuto una prima lunga relazione con “un ragazzo che spacciava e frequentava ambienti oscuri e pericolosi”; era finito in galera e in comunità varie volte e lei era sempre rimasta al suo fianco, rischiando anche in prima persona davanti alla legge, pur di proteggerlo. Pur consapevole dell’infelicità che si infliggeva, e pur cercando svariate volte di separarsi, non aveva mai messo seriamente in discussione il legame, perché, diceva, “con lui si sentiva incastrata alla radice”.
Dopo di lui non era più riuscita a costruire legami duraturi, ma era piuttosto incappata in situazioni destinate al fallimento: uomini anziani sposati, uomini che non erano ancora usciti dalla casa materna, uomini violenti e altre specie di “incontri sfortunati”.
In quel momento mi sembrava che tutte queste storie avessero l’opportunità di ricevere un senso che le riconducesse a qualcosa di antico e che potesse rimettere Valeria in pace con se stessa. I miti della “scena primaria”, o del trauma originario, sono sempre all’opera in ogni terapeuta, anche il più avveduto, e anche nel mio caso mi spingevano a tentare di svelare la trama nascosta nella vita di Valeria.
Mio padre è sempre stato una persona pesante… ci ha sempre tormentato con le sue allusioni e le sue volgarità… e mia madre non ha mai fatto niente per impedirlo. Io non sapevo cosa fare, avrei voluto che smettesse, ma alla fine mi ci sono abituata… e così nessuno ci fa più caso.
Quello che stava piano piano emergendo era uno scenario frequente in certe famiglie: un’atmosfera carica di ambiguità, allusioni sessuali, un padre senza freni inibitori ed una madre incapace, o addirittura non intenzionata a proteggere le figlie. È quella che si può definire una situazione di abuso psicologico, una serie di relazioni caratterizzate da una continua violazione dei confini personali (“ti dico cose che non hai nessuna voglia di ascoltare, ma te ne impongo l’ascolto”), una costante confusione di ruoli (“sono tuo padre ma al tempo stesso ti parlo come un fidanzato o corteggiatore”), una sopraffazione della volontà (“non ti tratto come una persona ma come un oggetto da maneggiare o manipolare”), una tacita complicità genitoriale (la madre mostra un’apparente alleanza con le figlie, ma è strettamente ancorata al volere paterno). C’era inoltre l’elemento caratterizzante della sessualità, parlata e fantasticata, a dare il segno ed il contenuto di tale atmosfera; c’erano così tutti gli elementi necessari a dare una forma comprensibile alle storie di Valeria: una famiglia abusante che aveva “prodotto” figlie indotte a creare legami che riperpetuassero situazioni di sopruso, confusione ed umiliazione: e tali erano infatti i rapporti sentimentali di Valeria.
Fin qui quindi tutto sembrava procedere bene, ma era solo il preludio al mio successivo “errore”. Non appagato dell’esito del processo che si stava delineando, cominciai ad esplorare la situazione nella concretezza dei dettagli: feci alcune domande dirette e circostanziate, chiesi informazioni sull’atteggiamento delle sorelle e della madre e poi, come ultima bordata, cercai di indagare se il padre fosse mai passato dalle parole ai fatti, se cioè avesse fatto concretamente qualcosa di sessuale con-e-a Valeria.
E qui si verificò un’altra catastrofe emotiva e relazionale. Valeria cominciò a confondersi, a fare discorsi contorti e a staccarsi emotivamente dalla situazione reale e presente, ritornando a quella espressione del viso che aveva mostrato ad inizio seduta. Il suo corpo si era improvvisamente fermato, come sospeso su un burrone, e tutta la tensione era condensata nell’incredulo terrore dipinto sul suo viso. Faceva anche dei piccoli movimenti con la bocca, come se volesse dire o sputare fuori qualcosa, ma erano solo gesti accennati e poi ripetuti. Era evidente il suo ricadere nel baratro, da cui si era appena faticosamente sollevata, tanto quanto era evidente la rottura istantanea della relazione con me e l’impossibilità, quindi, di proseguire un dialogo utile e costruttivo. “Ho sbagliato ancora qualcosa – mi dissi di nuovo – e anche ora non capisco bene che cosa.”
Solo in seguito compresi la notevole serie di errori che avevo commesso, derivati essenzialmente dal pensare di poter trattare il caso di Valeria come tutti gli altri casi; credendo che l’esplorazione del materiale rimosso le permettesse, pur nel travaglio del processo, di recuperare e reintegrare parti di sé. Quello che succedeva, ripetutamente, era il suo cadere in una confusione impenetrabile, il suo diventare un’estranea a me e a se stessa, il soffrire sordo e senza un minimo di senso: sembrava proprio che ci fosse una zona oltre la quale non si potesse andare, una zona che, se calpestata, facesse scattare dei sistemi di allarme di autodistruzione del sistema.
Dovevo assolutamente cambiare modalità di intervento e soprattutto dovevo capire meglio cosa succedeva nel mondo affettivo e relazionale di persone come Valeria.

IL TRAUMA: L’IRRUZIONE DELLA REALTÀ1.2

A questo punto occorre introdurre un concetto che aiuta a spiegare il senso di quegli eventi: l’idea di “trauma”. Ciò che ho appena elencato non è infatti una serie di eventi completamente inquadrabili nelle tradizionali categorie cliniche; le reazioni di Valeria ai miei interventi e al nostro lavoro in genere non sono infatti ascrivibili all’usuale comportamento di persone con struttura nevrotica e nemmeno possiamo catalogare la paziente come border-line.
L’impedimento alla prima soluzione è dato dal fatto che la dissociazione e il distacco dalla realtà improvvisi raramente si trovino nella comune nevrosi; la seconda possibilità è anch’essa esclusa dato che Valeria, nel suo complesso, non mostra le caratteristiche di scissione e senso di vuoto tipiche della struttura border-line. Siamo invece in presenza di un altro tipo di configurazione di personalità, che ha tutto sommato una buona integrazione in molte sue parti, ma che presenta delle vere e proprie “sacche” di materiale totalmente inelaborato e assolutamente non-integrato. Gli studi sul trauma, e sui conseguenti Disturbi da Stress Post Traumatico (PTSD), ci illuminano invece su casi come questo. Ciò che colpisce dei due momenti di “collasso psichico” di Valeria, è la percezione, suffragata in seguito dalle sue rielaborazioni, che lei non vivesse quei momenti di panico rabbioso come se fossero lì davanti a lei, ma in maniera molto più reale, senza la cornice del “come se”, e con la sensazione che il pericolo fosse proprio lì davanti a lei. È proprio quello che caratterizza la situazione di riemersione del vissuto traumatico e che la distingue abbastanza nettamente da altre forme di disturbo psicologico. Come ci ricorda C. Caruth3 “è la verità dell’esperienza traumatica che ne costituisce il nucleo psicopatologico; non si tratta di una patologia legata alla falsità o alla rimozione del significato, ma alla storia stessa”.
E come ci conferma Van der Kolk, una delle massime autorità nel campo, “anche se la psichiatria psicodinamica ci fornisce un validissimo ausilio per comprendere gli adattamenti caratteriali ai ricordi del trauma, la questione centrale del PTSD è che i sintomi primari non sono simbolici, difensivi o provocati da un interesse secondario. Il problema centrale è costituito dall’incapacità di assimilare la realtà di specifiche esperienze con la conseguente riattualizzazione ripetitiva del trauma in immagini, comportamenti, sentimenti, stati fisiologici e relazioni interpersonali4.
Qui si comprende bene il tipo di errore commesso nell’esempio citato: il terapeuta che opera in questo modo diventa la causa scatenante del ricordo doloroso della persona traumatizzata (chiedendo, indagando, creando un contatto corporeo che accende quei lampi di terribile memoria), e si pone come nemico reale, persecutore effettivo del soggetto, e come tale va affrontato. È ovvio che in quei momenti la terapia si interrompe e diventa lotta per la sopravvivenza, perché l’evento ricordato sembra presente e reale. Molti pazienti riferiscono infatti di spaventarsi perché gli occhi del terapeuta sembrano diventare improvvisamente cattivi o la bocca sembra incurvarsi in una smorfia inquietante: la protensione del tempo passato in un tempo presente (tipica della capacità di discernere l’attualità dal ricordo) fallisce e prende il suo posto una vera e propria deformazione della realtà materiale, cose e persone.
A questo punto viene naturale dedurre il fatto che il nucleo centrale di questo tipo di terapia è dato dalle condizioni di sicurezza della relazione terapeutica. E come ci conferma ancora Van der Kolk:
Se il trattamento si concentra prematuramente sull’esplorazione del passato, ciò non farà che esacerbare piuttosto che alleviare le interferenze traumatiche […] Indagare il trauma in quanto tale non porta effetti benefici, a meno che non lo si colleghi ad altre esperienze, come la sensazione di sentirsi compresi, al sicuro, fisicamente forti e integri, o di essere in grado di provare compassione e voler aiutare quanti soffrono5.
Le ragioni di questo necessario accorgimento stanno nell’enorme profondità dell’esperienza del trauma, che rimanda fondamentalmente ad una condizione di impotenza rispetto a situazioni incontrollabili e sconvolgenti, o totalmente incomprensibili. Quando parliamo di evento traumatico ci riferiamo a momenti in cui la persona sperimenta un terrore indicibile, in assenza di sostegno, nella difficoltà di raccontare l’accaduto e soprattutto nell’incapacità di intravedere la fine del tormento. Ovviamente ci sono infiniti gradi di intensità del trauma:
[…] la traumaticità di un evento può essere pienamente valutata solo tenendo conto di un insieme di variabili che comprende l’ampiezza, l’intensità e la precocità del trauma, le caratteristiche temperamentali dell’individuo, la personalità, le caratteristiche dello stile di attaccamento, gli aspetti di vulnerabilità e resilienza, ed infine le capacità di contenimento e di elaborazione della rete di relazioni affettive e sociali6.
Dopo queste premesse è facile immaginare come poteva sentirsi Valeria di fronte a me, che rappresentavo la riedizione di un padre perverso, morboso, invasivo e inquietante, e che soprattutto aveva abusato di lei, come anche delle altre figlie. Ed è ora possibile capire che sbagliavo nel continuare a rivangare nel suo passato, cercando di riesumare vecchi scheletri nascosti; l’errore stava nel non capire che quelli che io immaginavo essere scheletri, per lei erano presenze ancora vive e operanti: una specie di zombie, di morti viventi che avrebbero potuto riprenderla nelle loro mani. Ed in più, io non mollavo la presa, continuavo cioè a tenere il nostro discorso su quei temi, non le lasciavo via di fuga: era come se io la incantonassi nuovamente e stavolta con le parole, i discorsi e i ricordi.

1.3ABUSO:
UNA PARTICOLARE FORMA DI TRAUMA

Riassumendo le considerazioni fin qui fatte, possiamo dire che i tratti distintivi del trauma sono connessi fondamentalmente alle situazioni in cui il soggetto viene sopraffatto da un evento reale, che produce un’esperienza di totale impotenza e di impossibilità a padroneggiare lo svolgimento degli avvenimenti. In questa cornice le persone riferiscono di aver provato un terrore difficilmente esprimibile con le parole, una solitudine priva di contatto e di sostegno, anche immaginario, con altre persone: chi subisce un trauma porta infatti con sé la sensazione di essere l’unica persona al mondo ad aver subito quella cosa, o perlomeno di essere l’unica ad aver subito tali estreme conseguenze emotive ed esistenziali. Tutto ciò è poi contraddistinto dal fatto che il modo di immagazzinare l’esperienza nella memoria non è simile alle esperienze che comunemente facciamo, belle o brutte che siano, ma possiede una sua terrificante peculiarità: l’evento traumatico viene incapsulato, in un certo senso “incistato”, senza essere metabolizzato e senza essere reso inoffensivo. Insomma il trauma non diventa un ricordo a cui andare con la mente e le sensazioni, ma un pericoloso prigioniero tenuto in una cella di massima sicurezza, che non può mai essere visitato, pena la sua evasione.
Queste caratteristiche, tipiche del trauma, prendono poi una tonalità tutta particolare quando abbiamo a che fare con quelle situazioni altamente drammatiche che sono gli abusi sessuali, in special modo quelli subiti in tenera età e ripetuti e prolungati nel tempo.
Innanzitutto proviamo a chiarire che cosa si intende generalmente con questo concetto. Sotto l’etichetta di “abuso sessuale” si catalogano tutti quei comportamenti a sfondo sessuale che invadono i confini della persona, specialmente se è un bambino, creano un coinvolgimento non direttamente voluto dall’altro, creando condizioni tali per cui non ci si può sottrarre dal desiderio dell’abusante, pena il senso di colpa o un sentimento di profonda e dolorosa confusione.
Il tutto all’interno di relazioni asimmetriche di potere, di anzianità e di forza. Occorre dire che l’abuso sessuale n...

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