Convivialità delle differenze. Omelie crismali
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Convivialità delle differenze. Omelie crismali

don Tonino Bello

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don Tonino Bello

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Che cosa ci manca: la convivialità o la differenza? Lo stare insieme o la genialità pastorale? L'essere solidali attorno a un progetto comune o la fantasia di quegli originali percorsi alternativi che nascono dall'amore? Consumiamo pasti prelibati ma chiusi nei nostri bunker, o mangiamo, seppure attorno a un'unica tavola, ogni giorno pietanze uniformi e senza sapore? Ci stringiamo a tavola perchè gli altri stiano più comodi? O ci infastidisce ogni arrivo fuori orario? Spezziamo il pane di grano della comunione e mesciamo il vino della letizia, o serviamo le "erbe amare" del tradimento, con l'aceto del disprezzo e la mirra dell'indifferenza?

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Information

Year
2015
ISBN
9788861534704

Torchio e Spirito
(1993)

Olio fluente che sembra gemere ancora sotto la stretta dei frantoi.
Olio che lampeggia ai raggi del sole e provoca riflessi di santità.
Olio che inonda, come negli antichi trappeti, tinozze di legno con un carico di tenerezza.
È l’olio oggi il protagonista di questa liturgia.
Olio che provocava, più di ogni altro segno sacramentale, lo stupore delle moltitudini che si raccoglievano nelle Cattedrali del Medio Evo, tra alitare di infule e tra volteggi di note gregoriane: Ave Sanctum oleum (Olio Santo, Ti saluto).
L’olio proviene dal tormento dei torchi. Perciò, oggi, è inesorabile che si debba parlare del gemito del mondo che, in questi giorni, ci sta lacerando l’anima.
Ma siccome l’olio che tra poco con la preghiera consacratoria del vescovo brillerà nell’iride del crisma profumato è simbolo dello Spirito, è altrettanto inesorabile parlare di gioia, di speranza, di luce, di attese, perché lo Spirito non ha abbandonato la Terra, ma la riempie ancora della sua potenza e della sua gloria.
Alcuni anni fa ho visto, in un santuario della Calabria, un singolare Crocifisso proveniente dal Centro America. La Croce era costituita da un torchio pesante stritolato da schiavi. Tra una barra e l’altra che si stringevano in una morsa mortale, c’era Lui dai cui fianchi e dalle cui membra schizzavano fiotti di lacrime e di olio.
L’olio andava a toccare tutte le realtà umane ferite dal dolore: le terre dei campesinos, il pianto dei deportati e degli oppressi, la disperazione torchiata ogni giorno dalla cattiveria degli uomini o dalle intemperie dell’atmosfera.
Ma scendeva anche a illuminare albe di Risurrezione, mondi riscattati dalle ingiustizie, spazi sconfinati su cui si tocca la presenza di Dio.
Torchio e Spirito, dunque.
Giorno del torchio, e giorno dello Spirito.
Il giorno del torchio
Non sfugge a nessuno che stiamo vivendo “dies amaritudinis” quali ci è sembrato di non vivere mai. Perfino ad adattarsi sulla rievocazione delle violenze si dà l’impressione di essere stancamente ripetitivi.
La situazione internazionale, gli eccidi, gli spettacoli della fame ci sfilano davanti agli occhi come grondaie inconsumabili, e si ha la tentazione di pensare a situazioni senza sbocco.
La condizione nazionale ci fa a volte dubitare perfino del nostro equilibrio mentale, a tal punto si sono allontanati i parametri del nostro comune sentire da comportamenti non più inquadrabili in un minimo di moralità.
La nostra coscienza morale ne esce schiacciata da questa temperie di dolore.
È il tempo del torchio. È il tempo della pressura. I frantoi scrosciano delirio. Il nostro animo si gonfia di turbamento. Siamo presi dallo sconforto.
Magna sicut mare contritio mea” (“Grande come il mare è la mia sofferenza” – Ger. 2, 13). È l’espressione di Geremia che la Chiesa adatta sulla bocca di Maria schiacciata un tempo anch’essa dal torchio del Figlio e oggi desolata per i frantoi dei figli.
Quando poi, a questa pressura provocata dalla barbarie degli uomini, si aggiunge lo sgocciolare della sofferenza personale permessa dal disegno provvidenziale di Dio, si percepisce il torchio come ceppo che ti incatena e ti inchioda al legno della ineluttabilità.
Il giorno dello Spirito
Ma oggi è anche il giorno dello Spirito.
Senti nell’aria rintocchi arcani di felicità i quali annunciano che non è finita per il nostro vecchio mondo: l’aroma dell’olio misto a balsamo inonderà tra poco il tempio, e dal tempio le strade, e dalle strade le case, e dalle case i campi, il mare, il cielo.
È il crisma, segno dello Spirito che si riprende i suoi spazi, che rioccupa le zone da cui si pensava fosse stato rimosso, che sembrerà come patina d’oro sulla superficie delle cose, anzi ne squarcerà l’anima e le consacrerà, orientandole già da ora verso l’omega della nostra esistenza redenta.
Celebrando, allora, la “Gloria di Colui che tutto muove e l’universo penetra e risplende”, celebriamo la festa della speranza. Certo, non possiamo nasconderci la gravità del momento. I segni dei tempi sono minacciosi. Il rosso di sera non compare all’orizzonte. È già tardi.
Ma, davanti all’ampolla del crisma, che volete che sia il precariato del nostro disagio?
Non vedete quanti fiori spuntano sulle piante dei nostri giardini? Se c’è un rammarico in coloro che le condizioni di salute rendono preoccupati della loro vita, è proprio il prevedere di non vivere a sufficienza per poter assistere alla raccolta dei frutti i cui semi piangendo abbiamo sepolto nei solchi, e le cui spighe traboccheranno da silos di felicità.
Non vedete quanta gente lavora per il Regno di Dio?
Non vi accorgete di quanta gente, pure apparentemente fuori dai nostri perimetri cristiani (atei, miscredenti), assume la solidarietà, la gratuità, la lotta per la pace come criteri supremi della propria vita morale?
È vero che camminiamo tutti sui fili infìdi delle tangentopoli, ma chi non si accorge che la trama del volontariato (casalingo, nazionale ed internazionale) ci avvolge sotto spirali d’amore?
È vero che il processo di violenza non può lasciarci tranquilli ma è anche vero che andiamo sperimentando la presenza di turbe di gente che non si sono arrese alla barbarie dei cavernicoli.
È vero che rispuntano rigurgiti di guerra; ma è anche vero che gli stimoli di pace li si può cogliere ad ogni svolta di siepe.
È vero che i giovani fanno problema per la loro indifferenza di fronte ai mali della terra; ma è anche vero che non sanno a chi rivolgersi più per chiedere luce. Quante loro lettere mi parlano di cieli nuovi e terre nuove, in cui lo slancio dell’utopia si coniuga con la praticità dei progetti e con il coraggio di portarli a buon fine.
E poi la gente. Quando viene a trovarmi, in questi giorni della mia Pasqua, io rimango sempre più colpito dalle spalle. Come sono evocatrici di speranza le spalle degli ospiti quando prendono congedo da un ammalato e tu ti lasci prendere dalla invocazione: grazie Signore, perché al mondo hai messo questa gente. E ce n’è tanta; e sono i più!
I progetti dello Spirito
E ora, in questa situazione di marasma generalizzato, abbiamo il dovere di chiederci quali compiti oggi lo Spirito Santo ci affida per rendere più felice la gente.
Qual è il nostro posto? La chiusura, il ritiro nella sicurezza dei nostri rigidi principi, la presa di distanze dal mondo al quale siamo chiamati a portare la nuova Evangelizzazione?
Oggi non dovremmo uscire da questo Tempio se nella cartella non abbiamo chiaro il diario dei nostri compiti a casa che, proprio in questa Messa Crismale, lo Spirito ci assegna.
E allora io penso che l’indicazione fluente dal Sacramento dell’Olio sia questa: oggi, come non mai, si sta prendendo coscienza dell’origine e del destino “unico” dell’umanità. Ne deriva che devono cambiare, decisamente, i nostri rapporti con l’altro, non solo con i terzomondiali ma anche con chi abita al pianerottolo di fronte. Se non ci diamo una regolata al riguardo, con che faccia torneremo, stasera, nelle nostre Comunità dicendo che abbiamo celebrata la festa dello Spirito che unifica, che lega, che rompe i sistemi, che dà sapore di famiglia alle nostre convivenze?
Amiamo il mondo e la sua storia. Vogliamogli bene. Prendiamolo sotto braccio. Usiamogli misericordia. Non opponiamogli sempre di fronte i rigori della legge se non li abbiamo temperati prima con dosi di tenerezza. Dalle nostre comunità si sprigioni tanta simpatia nei confronti delle Istituzioni pubbliche. Siamo chiamati a collaborare non a contrapporci, a incoraggiare non a guardare unicamente con occhio critico, a gioire quando i progetti degli altri vanno a buon porto e a rattristarci quando falliscono.
Apriamo le nostre Chiese. Anche esteriormente siano segni, sia pur lontani, dell’accoglienza di Dio.
Si faccia sempre più pressante sulle vostre labbra il canto di Pentecoste: “emitte coelitus lucis tuae radium”.
Tanti auguri popolo di Dio
Il Signore ti accompagni in questo tuo viaggio dell’esodo. Non temere la defezione dei capi o l’assalto dei lupi o la fame nel deserto o i serpenti velenosi. Il Signore, di notte, ti starà vicino sotto la nube luminosa e, durante il giorno, ti preparerà una tenda sotto cui riposare le tue membra sfinite.
E tanti auguri a voi, carissimi presbiteri e diaconi.
Solo il Signore sa come vorrei ripagarvi di tutte le premure pastorali, dell’alto senso di responsabilità e della grande “affectio collegialis” con cui avete continuato a far profumare il pane nella madia di casa. L’unico modo con cui posso sdebitarmi è offrire a voi le mie sofferenze e la mia preghiera.
Brilli sulla vostra fronte e nelle vostre mani il Santo Crisma.
Profumate il mondo.
Il popolo, rinnovato dal vostro esempio e sospinto dal vostro entusiasmo, vi cinga di solidarietà, di affetti e di collaborazioni sincere. Aiutatelo nel compito a casa che oggi gli viene assegnato.
Siate felici per l’offertorio della vostra vita.
Possiate godere l’intimità del Signore e sentirvelo vicino nei momenti più tribolati.
Incrementate la letizia della Chiesa quando vi vede uniti negli incontri periodici oppure per ricreare nell’amicizia i vostri fraterni rapporti.
Cantate la speranza. E se io non potrò immergermi nel vostro concerto posso darvene ancora l’intonazione.
La Vergine Santa ci prenda per mano.
8 aprile 1993
(Omelia dettata da don Tonino
e letta da un sacerdote)
edizioni la meridiana
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