Profeti scomodi, cattivi maestri
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Profeti scomodi, cattivi maestri

Imparare a educare con e per la nonviolenza

Gabriella Falcicchio

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Profeti scomodi, cattivi maestri

Imparare a educare con e per la nonviolenza

Gabriella Falcicchio

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La nonviolenza continua nei decenni e nei secoli a scorrere come un pacato fiume sotterraneo che di tanto in tanto affiora in fresche sorgenti e che, anche nel contesto italiano, non cessa di fertilizzare senza clamori il terreno sociale. Lontana da pretese assolutizzanti, essa resta aperta, come voleva Aldo Capitini, il padre della tradizione nonviolenta italiana: aperta a coltivare e generare nuove pratiche di convivenza e condivisione tra gli esseri venuti alla vita.Anche per continuare a coltivare, a fertilizzare, a generare, nasce questo libro, nella persuasione che la nonviolenza può portare alla luce un'umanità più in pace, che sceglie di essere, come voleva Alex Langer, più lenta, più profonda, più gentile.L'educazione con e per la nonviolenza è drammaticamente cosciente dei limiti della realtà, ma non rinuncia a tendersi in avanti, a sporgersi su un futuro di liberazione che abbracci i Tutti e dischiuda per Tutti la dimensione della festa. Tutti è il plurale di Tu, diceva Aldo, parola sacra, categoria principe, parametro irrinunciabile di ogni discorso pedagogico, e quindi politico.Al cuore di ogni riflessione in tal senso, resta la domanda capitiniana: Dobbiamo aiutarlo [il fanciullo] a svilupparsi per far parte di questa umanità-società-realtà, pur nella nostra convinzione che questa umanità-società-realtà non sia accettabile?. La risposta farà da discrimine tra un'educazione che accetterà il reale come naturalmente buono (o legittimamente cattivo) e chiederà ai nuovi nati di adeguarvisi per riprodurlo e un'educazione che sceglierà l'opzione radicale di aggiungere tramutando.

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Information

Year
2018
ISBN
9788861536739
PARTE
PRIMA
Valore della nonviolenza, valori per la nonviolenza

L’abbraccio festivo: educazione e nonviolenza

Il conoscere il mondo è connesso
con il volerlo cambiare

Aldo Capitini
Per il mio punto di vista, le materie vengono ricondotte a valori, e perciò l’educatore le costruisce e le vive associandole ad un valore da vivere preliminarmente, con la fiducia che nell’atto di educare questo valore non va perduto, ma vive nell’educando [...] Facciamo un esempio: io insegno la botanica, ma preliminarmente a questo studio è l’attenzione affettuosa che ho “alle piante”, la gioia per il loro dispiegarsi, il dolore per il loro appassire; i nomi delle piante, le loro varie forme e molteplici manifestazioni, sono cose connesse che seguono al valore che è il sentirsi vicini e uniti ad esse; se io ho rinunciato a un sapere che prescinda da un valore, soltanto nella struttura del valore unito al sapere vivrò l’insegnamento in questa parte; nell’atto di edu-care, ho la certezza che il valore non è estraneo all’educando, e che se egli lo vede in me, ne ha una conferma in sé, ed anche potrà andare oltre nell’intensificazione dell’amore per tutti gli esseri: il sapere egli se lo cercherà sulla base di questo valore, se lo costruirà attraverso domande a me o sue letture, e ricerche o esperienze1.
Nella mia travagliata ricerca giovanile di un orizzonte che non avesse chiusure, l’incontro con Aldo Capitini una decina di anni fa è stata una salvezza. Pur amando molta riflessione filosofica e pedagogica, capace di aprire il cuore, sentivo che lo studio non bastava, che nei singoli pensatori che incontravo restavano aree inesplorate o non toccate affatto dall’apertura promossa. Amavo Mounier e la sua scrittura, ma non trovavo il posto dell’animale; amavo la Montessori e Dewey ma non mi comunicavano l’appassionamento verso un cambiamento che va oltre e su taluni aspetti tacevano del tutto. Don Milani, Danilo Dolci, Mario Lodi, Gianni Rodari mi appassionavano. Quando mi imbattei nel libro curato nel 1970 dal preside Virgilio Zangrilli, Pedagogia del dissenso, vi trovai una sintetica disamina del pensiero di Aldo Capitini. Un uomo assetato di infinito, a cui nessun “progresso” bastava, che finalmente scardinava da dentro il meccanismo odioso del potere, anche nell’educazione, e guardava a Tutti, nessuno escluso: tutti gli esseri venuti alla vita, tutti uniti dall’abbraccio della compresenza, tutti nel movimento cooperativo verso la liberazione.
Liberazione che necessita della presenza di ciascuno, pur non aspettando una sorta di unanimità di intenti, perché sa iniziare ora, dispiegandosi in ogni atto di apertura al tu, di nonuccisione, di nonmenzogna, di noncollaborazione con il male, rivelandoci, soprattutto in alcuni momenti, l’orizzonte di Tutti, la compresenza perfetta, la luce del mattino. In quei momenti epifanici l’orizzonte festivo si fa presente e trasfigura la realtà così limitata in cui viviamo, mostrandoci che l’apertura nonviolenta non è una sorta di deposito crediti che vale per un aldilà ultraterreno, tantomeno per mettere al riparo la nostra anima, ma è quotidianità che si allarga oggi, fenditura, crepa, ferita finanche nel tessuto apparentemente fitto e robusto della violenza ordinaria; finestra da cui ci si può affacciare per vedere lo splendore della festa, che non al di là, ma proprio qua e si svilupperà pienamente in un “domani sperabile”.
La nonmenzogna, fondamento dell’unità con l’altro
Io non sono solo, non sono il solo individuo, altri furono. Prima di me, altri vi sono ed altriverranno: individui esistenti concretamente, pensanti e viventi, con una incomparabile somiglianza a me. Se un’unità intima mi lega al libro, all’opera d’arte del tale o del talaltro, unità mi lega con l’altro essere umano. Egli non è tanto altro che non vi sia un’unità profonda, un atto che ci leghi. Come ho sperimentato tante volte che, giunto dinanzi ad un paesaggio nuovo, pure qualche cosa mi pareva che di familiare ci fosse tra me ed esso; così non trovo mai un essere umano con cui non senta una certa familiarità e che qualche cosa di importante mi possa legare a lui. Con la persuasione religiosa approfondisco la consapevolezza che l’altro è un individuo esistente, presente. Il proposito di non mentirgli mai, rinnovato ad ogni istante, vince continuamente l’essere separati, quella separazione che non è la differenza spirituale che ha pur sempre una base di unità, ma la separazione materiale, di cosa vicino a cosa. Io potrò propormi fini altri quanto si voglia; ma l’altro non lo avvicino in modo assoluto a me, e resta fuori finché penso di mentirgli2.
Il mondo appare diverso dopo l’esperienza incarnata dell’apertura al tu. La compresenza, corredata del tratto misterioso ai più che esprime l’aggettivo “escatologico”, si mostra per quello che è: non teoria filosofica o credo religioso, ma “vita da provare”, non accertabile fuori dall’apertura. Quando l’esperienza è avvenuta, la realtà non sarà più la stessa né in sé, nel suo essere oggettivo, né agli occhi di chi ha vissuto l’unità-amore e il suo potere tramutativoliberante. In essa si è inserito “l’atto atomico della nonviolenza”, dice Aldo in piena guerra fredda. Da quel momento, comincia il cammino.
Abbiamo tentato di non dare la morte né col pensiero né con l’atto, per vedere se la realtà ci seguisse?
Questa frase illumina sulla qualità dell’azione nonviolenta, che non mira ad agire “sulla realtà” alla maniera dell’homo faber, del costruttore, dell’ingegnere, il mito moderno del soggetto onnipotente in grado di forgiare il mondo secondo i propri scopi e i propri desideri di autorealizzazione. No, non è quella l’azione che può tramutare la struttura intima della realtà. Può al più ben amministrare quanto già esiste; più di frequente limitarsi a riprodurne i limiti e le iniquità pur di perseguire quanto si prefigura. L’azione nonviolenta, di cui quella educativa è espressione massima – è piuttosto quella dell’homo religiosus, che accarezza le cose con gratitudine e non distrugge, abitato dalla consapevolezza che con la silenziosa aggiunta dell’apertura quotidiana a tutti, il mondo cambia, la realtà si accende e va.
Credo che nella visione capitiniana, sintetizzata nella frase di prima, ci sia la svolta antropologica della nonviolenza, insieme alla critica verso la società attivistica che lavora puntando obiettivi (parola bellica!), si rivolge a target (parola bellica!), adotta strategie d’azione (parola bellica!), pianifica e misura i risultati. Certo Aldo non si trova immerso nel linguaggio che ogni giorno subiamo in ogni contesto, il linguaggio ingegneristico-funzionale-gestionale-finanziario (sempre di matrice bellica!) che ammorba come una micosi la comunicazione contemporanea plasmando le menti a sua misura. Ma Capitini conosceva bene l’ubriacatura industriale (e bellica!) che rinfocola gli entusiasmi da fine Otto-cento al fascismo e vuole parlare con un altro linguaggio, pur non maturando alcuna nostalgia antimodernista e contraria al progresso tecnico. Il punto di osservazione è diverso, e la sua frase illumina su questo anche chi voglia incamminarsi. È facile – specie negli ambienti dove è ipertrofica la riflessione a scapito dell’azione – come l’università, proporre analisi che iniziano dalla decostruzione della violenza – il suo linguaggio, le sue forme, i processi – per poi elaborare l’eventuale proposta innovativa, di segno diverso. Non è strano in questi casi verificare che di innovativo c’è poco e si qualifica più come “non violento” che come “nonviolento”. La fusione delle due parole, nota a chi conosce Aldo, ci riporta all’incoraggiamento di prima: non partiamo dalla realtà violenta, partiamo piuttosto dal punto di osservazione che l’apertura al tu ci ha dispiegato, quello in cui ci siamo ritrovati esperendo la compresenza, e da lì riguardiamo la realtà: ci segue? Allora essa appare trasfigurata, non più solo affetta dal limite, dal dolore, dall’ingiustizia, dalla morte, ma anche illuminata dalla luce del mattino; non più pesantemente ancorata a un passato-presente scoraggiante, ma capace di alzarsi in volo.
È lo sguardo, o forse sarebbe meglio dire l’abbraccio, del profeta, direbbe Aldo, qualificando – di tutti gli amici della nonviolenza – proprio chi fa l’educazione.
Parlare di educazione e nonviolenza significa avere interesse per tutta la realtà, osservandola con l’occhio del profeta. La dimensione che attraversa tutta la nonviolenza è quella educativa, quella di un amore pensoso che intessendo relazioni feconde, genera la realtà liberata. Certo la qualificazione nonviolenta dell’educazione chiede – e a gran voce oggi – una riflessione radicale della pedagogia come sapere che troppo spesso ha riprodotto i rapporti di potere, gli stereotipi culturali, i limiti della realtà piuttosto che eroderli internamente offrendo contesti, modalità, contenuti audacemente oltre il confine, non di rado asfittico, del fare educativo sancito dalle istituzioni e dalle pratiche comuni. La pedagogia oggi rischia di aver ben poco da dire senza l’impulso nonviolento e, omettendo un discorso coraggioso di critica e di proposta che non rimescoli obsoleti richiami retorici a valori in via di estinzione, nuoce ai più fragili: i piccoli, le nuove generazioni, i giovani che iniziano la vita assetati accanto a pozzi secchi e presto si assuefanno a uno stato di carenza di orizzonti cronico e disperante.
L’educazione nonviolenta invece si nutre della “viva dualità” tra la realtà limitata e la realtà liberata, di un dinamismo fatto della speranza incarnata da maestri e maestre che, prima delle materie scolastiche, prima delle regole del vivere civile, prima della formazione professionale (tutte cose transeunti, opinabili e più che mai oggi incerte), vogliono, desiderano vivere la vita con i piccoli, abbandonando cliché, spogliandosi dei ruoli e cominciando a guardare anche l’educazione dal “punto di arrivo comune”: la festa.
Se deflagrasse nell’educazione la dimensione festiva, come unica vera tonalità del vivere insieme e dell’educarsi insieme, si aprirebbe la stagione rivoluzionaria – e come tale osteggiatissima da ogni potere – del piacere nei luoghi della vita e dell’educazione. Il piacere dei genitori di giocare e studiare e scoprire il mondo con i loro figli; il piacere delle maestre di consegnare ai bambini le chiavi preziosissime degli universi scritti nei libri e il brivido di avventurarvisi; il piacere di incontrarsi e riconoscersi per creare, inventare il futuro; il piacere anche quello esplicitamente corporeo di darsi la mano, abbracciarsi, tenersi vicini quando si ha paura, stringersi forte quando ci si desidera.
Troppo è dominata nel considerare l’educazione l’idea di armonia delle attitudini, delle facoltà, delle esperienze, e la tradizione della civiltà greco-europea ha presentato proprio qui uno dei suoi aspetti dominanti; il concetto di educazione è ravvivato, invece, e sottratto ad un pericolo conservatore, proprio introducendovi una viva dualità, inserendo cioè in esso un elemento di tensione che discrimina il passato e chiede un futuro; e poggia quindi maggiormente su ciò che è liberante, trasformante, creativo. [...] Entra nella pedagogia la fiducia di potersi occupare anche di quelli che sono considerati strumenti di liberazione (o vie del dover essere) etici, religiosi, sociali, estetici, in quanto essi operano come valori educativi; parte che di solito non si guarda, badando piuttosto allo studio dell’essere, e perciò ai sistemi di istruzione, ai lati psicologici e sociologici. [...] Mi pare, cioè, che l’educazione debba dare il senso di una tensione, di una insoddisfazione per ciò che c’è; e che la pedagogia debba anch’essa aggiungere al suo molteplice e indispensabile lavoro, questa attenzione e questo aperto studio di tensioni alla liberazione come operarono e come ancora opereranno3.
Quello che è mancato alla nostra civiltà frastornata dall’attivismo scientista della modernità e dell’industrializzazione, quello che riemerge forte negli anni Sessanta e Settanta per poi subire l’affossamento della cultura dominante e che rappresenta il cardine, a mio avviso, di ogni pedagogia possibile oggi è il piacere. Che è del corpo, nel corpo, tra i corpi.
L’educazione è stata troppo a lungo intristita dall’ideologia del sacrificio e della sofferenza (espiatoria e ascetica) che hanno intriso di mortificazioni anche l’idea di impegno (e in quanti ambienti “impegnati” è ancora così!). Lo mostra con chiarezza l’unità modulare omologata, costrittiva e immobilizzante del banco, via via più rigido e scomodo man mano che si sale verso le scuole superiori e l’università. Negli spazi educativi istituzionali tutto comunica controllo e disciplinamento: restare “inchiodati” alla cultura dei grandi che ci hanno preceduto, chiedendo il permesso anche dopo i 18 anni per andare in bagno, passando le giornate in posizioni innaturali che deformano il corpo con gli anni e uccidono l’entusiasmo dei più. E mentre il corpo è immobile, si pretendono menti dinamiche; mentre il corpo è reso rigido, si pretendono personalità flessibili; mentre si vive troppe ore di troppi anni in luoghi chiusi, si pretendono menti aperte; corpi omologati e menti capaci di accogliere le differenze.
I riottosi – cioè quelli con un residuo di vitalità resistente – saranno presto bollati come patologici, bisognosi di diagnosi e trattamento, una modalità dilagante di trasformare in etichette medicalizzate quelli che ieri erano comunque i soggetti indisciplinati, fastidiosi, intemperanti rispetto alle regole di mortificazione senza scopo dell’educazione. Senza scopo? No, con uno scopo implicito ma ormai chiarissimo: ridurre – non facilitare! – l’autonomia di azione e di pensiero, la libera iniziativa, l’espressione creativa e sfornare a tempo debito un suddito ben confezionato pronto alla società dello sfruttamento lavorativo tardo-moderno e del relativo consumo compensativo e vorace. Nell’illusione di essere cittadini liberi di scegliere.
Molto è peggiorato, dalle analisi degli anni Settanta, anche nei contesti educativi. E chi fa l’educazione è più che mai privo di chiavi di lettura innovative. La nonviolenza è una di queste, forse l’unica in grado di scrivere ex novo il lessico dell’educazione, ma necessita della metanoia dell’educatore/trice stesso/a, la sua conversione interiore, quell’esperienza della festa che ribalta i punti di osservazione e può avviare movimenti rivoluzionari. Gli atti dello smascheramento, di togliere i veli, di additare i re nudi non sono affatto obsoleti e acquistano potere liberante se vissuti dentro pratiche radicalmente diverse, che certo richiedono e richiederanno lotte agli educatori. Lotta: la parola più sconosciuta a chi vive nelle realtà educative, più facilmente incline a descriversi come “in trincea”. Ma noi sappiamo che la nonviolenza
non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra, qui tutto infranto lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa4.
Quello che è mancato anche alla riflessione nonviolenta dei padri e che può rappresentare una pista di ricerca interessante, soprattutto nell’educazione, è sta...

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