Dal desiderio alla legge
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Dal desiderio alla legge

Manuale del teatro di cittadinanza

Augusto Boal

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Dal desiderio alla legge

Manuale del teatro di cittadinanza

Augusto Boal

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Come, un po' per scherzo un po' per il caso ma un po' anche per un'incontenibile creatività, una compagnia di attori viene eletta nel consiglio comunale di una grande metropoli e il teatro diviene uno strumento per fare politica, cioè per tradurre bisogni e desideri in legge. Come nasce il teatro legislativo cioè quell'azione scenica in cui lo spettatore non solo diventa protagonista ma anche cittadino. Come si scopre che il teatro forum può convertirsi in un laboratorio per redigere collettivamente un bilancio comunale o una proposta sulla sicurezza sociale. Come, per dirla altrimenti, il teatro può trasformarsi in un veicolo di "democrazia transitiva", cioè di partecipazione diretta e attiva, ma anche di dialogo, interazione e scambio con le istituzioni. Come non perdersi, insomma, l'ultimo sorprendente capitolo della ricerca di Augusto Boal, con cui il teatro, in tempo di globalizzazione, giunge fino ad offrirsi alla politica per declinarla con la comunità piuttosto che con il potere.

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Information

Year
2019
ISBN
9788861537293
Topic
Arte
Subtopic
Arte general

5. Compendio di drammaturgia ed arti sceniche: gli strumenti del nostro lavoro

La drammaturgia

Ho insegnato drammaturgia per sette anni alla Scuola d’Arte Drammatica di São Paulo, per altrettanti e più ho diretto seminari di drammaturgia a Rio, São Paulo e Porto Alegre. Basavo i miei corsi su un sistema di leggi, non leggi coercitive – che dovessero esser obbedite a tutti i costi – ma strumenti utili al drammaturgo per facilitargli il compito: per risolvere problemi, individuare debolezze o errori logici nella struttura del dramma, ecc. Intendetemi: ero il professore e dovevo impartire lezioni sufficientemente chiare e funzionali; non davo ricette, ma suggerimenti.
E vennero tempi di altre esperienze, altri cammini e forme teatrali. Ora però il Teatro Legislativo richiede nuovamente di far riferimento ad uno schema attendibile, ad una struttura più o meno stabile: chi partecipa a quest’esperienza non ha mai fatto teatro ed ha bisogno di appoggiarsi a qualche certezza prima di lanciarsi in esperimenti.
Dunque veniamo al mio sistema, “mio” con l’ausilio di vari teorici del teatro.

Leggi o regole

Brunetière, autore francese del secolo XIX, si domandava se per disciplinare la drammaturgia possono esser formulate leggi o solamente regole. Analizzava innanzitutto la celebre legge ‘delle tre unità’ espressa da Aristotele nella Poetica, laddove il filosofo raccomanda ai drammaturghi di contenere tutto lo sviluppo dell’azione drammatica nel periodo massimo di un giorno (unità di tempo). Questo è quanto accadeva nella tragedia greca, ma non, per esempio, nel dramma elisabettiano. Io però concordo con Aristotele, sono del parere che è bene concentrare l’azione – a meno che non sia proprio necessario far diversamente – nel più breve intervallo di tempo possibile. Lo stesso Brunetière dà un buon esempio quando cita la versione Hollinshed del Romeo e Giulietta, su cui si basò Shakespeare, in cui la storia d’amore durava anni e non era così fulminante come nel dramma che conosciamo; per questa ragione esitava a imporsi. Shakespeare intensifica le emozioni in gioco ed estremizza il conflitto: i risultati provano che concentrare l’azione nel minor tempo possibile è una buona regola, salvo casi in cui l’autore sia costretto a fare il contrario, come Ibsen nel Peer Gynt o Strindberg nel Viaggio di Pietro, il fortunato.
Spesso verifichiamo nei gruppi la tendenza a raccontare saghe che non finiscono più, estendendosi nel tempo e nello spazio. La prima regola ci insegna a concentrare l’azione nel tempo, invece di frammentarla e disperderla raccontando tutta la storia nella successione cronologica in cui è realmente avvenuta. Ciò che importa è la realtà dell’immagine, non l’immagine pedissequa della realtà. Importa mostrare come stanno veramente le cose, diceva Brecht, e non come esse si mostrano nella realtà.
La seconda regola della legge delle unità di cui parla Aristotele si riferisce all’azione drammatica (o tragica) che dovrebbe essere una sola, la principale, da cui le altre dipendono, come nell’Edipo Re di Sofocle: tutto quanto accade in scena ha una relazione diretta con l’indagine intrapresa da Edipo per scoprire l’assassino di suo padre Laio, indagine che si conclude su Edipo stesso. La struttura rispettata nella tragedia greca si presenta identica in Racine, nella Fedra per esempio. Questo non impedisce a Brecht di far il contrario in Terrore e miseria del Terzo Reich, in cui l’intersecarsi di diverse azioni drammatiche e l’accumularsi di linee di sviluppo nella trama creano un effetto caleidoscopico. Allo stesso modo ha fatto anche Shakespeare nel Re Lear, che contiene due azioni principali parallele, quelle dei due padri, Lear e Gloucester, in rapporto coi rispettivi figli e figlie: in questo caso, ciascuna azione dà risalto all’altra, rafforzandone le caratteristiche attraverso il confronto. Ne consegue che la legge dell’unità d’azione vale in qualità di semplice suggerimento; anche se rimane un buon suggerimento, considerando che i nostri attori comunitari tendono a voler metter di tutto nello spettacolo, imitando la vita reale. Siccome ogni partecipante desidera, ed è comprensibile, includere un pezzetto della propria storia anche se non ha niente a che vedere col tema e con l’azione principale del dramma, si corre un grosso rischio: il patchwork. Assolutamente da evitare! L’ultima delle tre cosiddette leggi d’unità (non formulata da Aristotele, ma a lui attribuita dagli umanisti) fa riferimento ad una possibile unità di luogo: la stessa scenografia deve ospitare tutte le scene dello spettacolo. Pur considerando che il più delle volte è impossibile, vedi le opere di Shakespeare, di Brecht e di tanti altri, nel caso dei nostri drammaturghi comunitari è un eccellente consiglio, a ragione delle difficoltà presentate dai cambi di scena (sempre che ci sia più di una scena).
Aristotele ha creato la sua teoria a partire da una pratica corrente per l’epoca, visibile in altre tragedie che certo egli conosceva, per l’appunto concentrate in un solo luogo, in una sola azione principale e sviluppate nella durata massima di un giorno. La concentrazione di tempo, azione e luogo è senz’altro una buona regola, ma non una legge coercitiva che vieti alternative.
A noi che facciamo l’esperienza del Teatro Legislativo importa concentrarci sull’essenziale, ossia sul tema che vogliamo veramente discutere con le comunità, e cercare di ricondurre a questo tema la tendenza sviante dei gruppi – attratti dall’imitazione della realtà, anche quando essa non intrattiene nessun rapporto col tema essenziale. Le tre unità ci servono da regole di convenienza, nel senso che sono buoni suggerimenti e non leggi repressive.

Storia e personaggi

Brunetière disserta poi su questioni all’epoca in sospeso: quale, tra favola (storia, trama) e personaggio deve nascere per primo e condurre il processo di creazione del dramma? È il personaggio che detta la sua storia oppure è la storia che modella i suoi personaggi? Annovererei, nel primo caso, autori come Corneille e Ibsen, nel secondo, Racine e Checov: tutti quanti drammaturghi provetti, indipendentemente dal punto di partenza.
E noi? Sebbene ci interessi lavorare sempre con personaggi che le comunità possano riconoscere, insistiamo sull’esigenza di costruire una storia forte, con le sue dinamiche organizzate in una struttura chiara e con il problema che si vuole affrontare in bella evidenza, indicando esplicitamente le possibili vie d’uscita dalla crisi in cui si trova il personaggio. Dunque, per complessi che siano i personaggi, non dobbiamo mai dimenticarci che durante il forum dovremo adattarli a situazioni che potrebbero accadere o già sono accadute a un membro qualsiasi di quella comunità.

Generi puri o ibridi

Altro interrogativo: il genere dovrà essere puro (come nella tragedia, vedi la Fedra o l’Edipo Re) oppure è lecito far seguire ad una scena tragica una scena comica? Si pensi alla scena dell’assassinio del re Duncun da parte dei coniugi Macbeth, a cui segue quella in cui il portiere ciucco dice stupidaggini. Le bestialità del portiere, infatti, secondo questa tecnica che alcuni teorici di playwriting definiscono di comic relief, servono a rendere più intenso l’effetto macabro della successiva rivelazione delle morti multiple. La nutrice di Fedra è una donna perbene, mentre il fool (lo sciocco) che segue dappertutto Re Lear dice cose saggiamente stolide. Che differenza fa, dal momento che l’essenziale è la verità del carattere e non la sua apparenza?
Nel nostro caso, quello del Teatro Legislativo, il rischio è la banalità: la battutina, l’allusione o lo scherzetto senza maggiori conseguenze. Non vogliamo certo fare spettacoli tetri, lugubri e malinconici, ma d’altronde a cosa servirebbe la caricatura di ciò che vorremmo trasformare, e basta? Il divertimento deve esser provocato per dar risalto alla situazione oppressiva, non per eclissarla o assolverla con una critica superficiale.
Non abbiamo ancora scoperto qual è, sempre che ci sia, l’elemento essenziale per il teatro: quel carattere così necessario, obbligatorio ed assoluto, senza il quale, non ci sarebbe teatro. Vediamo: l’immagine – la luce – è l’essenza della fotografia. Senza luce, non ci sarebbe fotografia e niente più della luce è indispensabile: il resto è cornice. L’immagine in moto è l’essenza del cinema: un oggetto immobile fotografato dà una foto, non una sequenza, anche se si impressionassero rullini su rullini di pellicola. Niente è più essenziale al cinema che l’immagine in movimento, neanche gli attori; può bastare una foglia al vento. Il suono è l’essenza della musica: attraverso il suono udiamo perfino il silenzio. Nulla più del suono è necessario perché ci sia musica – anche se Mozart si ascolta meglio all’Opera Bastille e un sambaenredo al Morro da Mangueira19.
Qual è dunque l’essenza del teatro, sempre che ce ne sia una?

La legge del conflitto

Ci risponde Hegel, il filosofo: “L’essenza del teatro è il conflitto tra libere volontà”. Ossia: un personaggio è una volontà in movimento, che cerca di soddisfare i propri desideri e di raggiungere il suo obiettivo, ma che non riesce a farlo immediatamente. Il personaggio è l’esercizio attivo di una volontà che cozza, collide ed entra in conflitto con altre volontà, al pari libere e con obiettivi opposti. Nient’altro è essenziale al teatro: certo non scene e costumi, né musica e neppure lo stesso edificio teatrale; senza tutte queste cose posso ancora far teatro, non posso fare teatro senza un conflitto. Tutti questi elementi potenziano, adornano e rendono più intenso il teatro che, tuttavia, non esisterebbe senza il conflitto delle libere volontà – aggiunge ancora Brunetière – “libere e coscienti dei mezzi che impiegano per giungere alla meta”.
Eppure questa definizione mi sembra ancora troppo generica. Posso farci entrare un dialogo di Platone e un incontro di pugilato: in entrambi i casi i protagonisti del conflitto esercitano la loro libera volontà per sgominare l’avversario con l’arma della ragione o della forza.

Caratteristiche delle mete

John Howard Lawson, autore statunitense, precisa: “È necessario che le mete dei personaggi siano contemporaneamente oggettive e soggettive”. Effettivamente, questa caratteristica manca all’incontro di pugilato, in cui la meta è puramente obiettiva (si tratta di sbattere l’avversario a terra nel minor tempo possibile, magari con un solo knock-out), e anche al dialogo platonico, che affronta come una questione puramente soggettiva, relativa, la possibile definizione del sapere o della virtù.
Esiste, peraltro, un dialogo di Platone (quello che, non a caso, è spesso riletto come testo teatrale) in cui i personaggi discutono da un punto di vista etico se Socrate debba rassegnarsi alla sua condanna a morte oppure se debba osteggiarla ed approfittare dell’occasione di fuga che gli è offerta, scappando all’estero. In questo caso i concetti morali in discussione implicano un’importante conseguenza oggettiva: Socrate vivrà o no? Perciò il dialogo diventa teatrale, anzi, è teatro. Analogamente esistono testi teatrali e sceneggiature sul mondo dei pugili, in cui al centro del dramma non stanno i pugni in faccia (obiettivi e truculenti) ma il significato soggettivo di tanta violenza: il protagonista anela a provare il suo valore, a se stesso o a qualcun altro, desidera ardentemente tornar ad essere il campione… questo è teatro! In entrambi i casi, la meta è diventata oggettiva e soggettiva.
Siamo arrivati ad una formula che mi pare, finalmente, completa e soddisfacente: L’essenza del teatro è il conflitto tra libere volontà, coscienti dei mezzi che impiegano per giungere alle proprie mete che devono essere contemporaneamente oggettive e soggettive.
Da una parte le volontà non possono accontentarsi di enunciazioni generiche come anelare al bene comune, alla felicità, alla pace universale, ma devono esser concrete: volere il bene di una determinata persona o del popolo, in un certo modo e in un determinato tempo, volere la pace, con tal mezzo e non un altro e a tal prezzo, in modo concreto. E d’altra parte, le mete debbono avere un peso, un significato necessario e collettivo: quanto più importanti, tanto maggiore sarà l’intensità del conflitto per raggiungerle e l’universalità del testo.
Nella nostra esperienza col Teatro Legislativo è fondamentale che la volontà fatta valere dal protagonista – cioè il personaggio che verrà sostituito dallo spett-attore nel forum – sia una volontà comprensibile e reale agli occhi del pubblico partecipe che dovrà entrare in scena per difenderla, attratto da una relazione di simpatia (una comunione di emozioni, desideri ed intenti) per l’oppresso o l’oppressa. La volontà parte dal protagonista e gli appartiene, ma deve essere condivisa dalla comunità: è una volontà individuale e sociale.

Le libere volontà

Ancora Hegel, nell’Estetica, riflette a fondo sulle libere volontà. Gli animali, secondo lui, sono interamente condizionati dall’ambiente, dalle costrizioni fisiche, dalle esigenze biologiche, dal codice genetico. L’uomo, dunque, in quanto animale, è un soggetto programmato e condizionato. Seppur coscientemente, agisce soggiogato dalla paura. Solo il principe, che riunisce in sé tutti i poteri, può agire senza timore delle conseguenze: Amleto non infilzerebbe Polonio, Laerte e il Re se avesse paura delle guardie. Di modo che, secondo Hegel, perché la volontà sia davvero libera è necessario che i suoi impulsi possano realizzarsi materialmente, diventando fatti. Il personaggio tragico per eccellenza è perciò il principe, potente e temerario.
D’altro canto, però, la libertà del personaggio non dev’essere confusa con la sua libertà da impedimenti fisici o materiali. Prometeo, seppur incatenato, è libero come deve esserlo un dio e, anche se tutti i giorni il suo fegato è divorato dagli avvoltoi, egli continua imperterrito a bestemmiare contro Zeus e a gridare al cielo il suo rigetto degli dei e la sua devozione per gli uomini. Hegel cita un quadro di Murilo in cui un monello riceve una frustata perché ha rubato un frutto, ma, proprio mentre è punito, lo mangia con gusto.
Hegel insiste sull’esigenza che le libere volontà dei personaggi non siano capricci: debbono essere dirette ad obiettivi essenziali, razionali ed universali, e non a futilità soggettive, accidentali e particolari. Siccome la trama s’intesse a partire da caratteristiche particolari, allora tali caratteristiche devono risultare inscritte nell’universale. Vediamo dunque le diverse forme in cui la libera volontà si manifesta.
  • Volontà semplice. È la volontà espressa da un personaggio che desidera intensamente ed esclusivamente raggiungere un’unica meta: Iago, dalla prima all’ultima scena dell’Otello, vuole la perdizione del suo signore; Riccardo III, dall’inizio alla fine del dramma omonimo, vuole il potere assoluto; Tartufo non pensa ad altro che ai soldi di Orgone, che gli porterebbe in dote la moglie.
  • Volontà dialettica. È la volontà di un personaggio che vive dentro di sé, con intensità variabile, un conflitto tra opposti desideri. Paradigmatico per questo caso è Amleto, che vuole “essere e non essere”: non significa indecisione, ma collisione tra decisioni ed intenti contrari. Similmente, Bruto, nel Giulio Cesare, brama la felicità e, insieme, la morte di Cesare, suo padre e protettore.
  • Volontà plurale. Non si riscontra in un solo personaggio, bensì in diversi personaggi che hanno in comune una stessa volontà espressa nella medesima forma o in forme non dissimili. È il caso del popolo contro Marco Antonio subito dopo la morte di Cesare. Giacché le forme in cui si manifesta la volontà non sono mai identiche, essa si afferma tramite trasformazioni lente e graduali del consenso, a partire da una iniziale ingenuità. È il caso della plebe contro Coriolano: chi più stupido, chi più astuto, tutti aspirano alla rivolta. Oppure dei cittadini contro il Dr. Stockmann nel Nemico del popolo di Ibsen: tutti quanti ansiosi di conservare l’apparenza che le acque termali della loro città (fonte di reddito per tutti) siano pure e medicinali, pur sapendo che sono inquinate.
  • Volontà fondamentale. È quella che Stanislavskij denomina ‘super-obiettivo’ permanente, da cui dipendono, nel medesimo personaggio, in posizione subordinata, le volontà secondarie. La volontà fondamentale di Amleto è vendicare l’omicidio del padre; i suoi intenti secondari sono passar per pazzo agli occhi di Rosencranz e Guildernstern, far ammattire Polonio, convincere la madre a lasciare lo zio e, rispetto ad Ofelia, una volontà dialettica in cui si scontrano l’amore e il convento.
  • Volontà-luna. Secondo la definizione di Etienne Souriau, è la volontà che scaturisce in un personaggio a dipendere dalla volontà di un altro: quella di Orazio che soggiace a quella di Amleto; quella di Siro a quella di Callimaco, nella Mandragola di Machiavelli; quella della Nutrice a quella di Fedra, nella tragedia omonima di Racine. Si tratta sempre di un consigliere, di un servo, di un amico la cui volontà risulta condizionata da quella del protagonista.
  • Volontà negativa. La volontà può manifestarsi come intento negativo: il personaggio non vuole fare qualcosa, oppure desidera esattamente il contrario di ciò che altri gli voglion far fare. Nella Strada del tabacco di Erskin Caldwell c’è un bel personaggio di contadino (Jeeter Lester) che, nonostante l’invasione inevitabile delle sue terre da parte di speculatori che vi costruiranno palazzi, mostra un’irremovibile ostinazione nel voler rimanere. Nell’ultima scena, mentre i trattori già avanzano come carri armati, Jeeter sonnecchia nella sua veranda e socchiude appena gli occhi quando quelli cominciano a demolirgli la casa.
  • Volontà e contro-volontà. Con intensità maggiore o minore, si manifesta in tutti i personaggi e per ciascuno è definita da chi inventa, dirige o interpreta il ruolo. La contro-volontà insorge dall’interno del personaggio contro la sua volontà: è la paura di essere respinto quando si fa una dichiarazione d’amore, la paura di essere sconfitto quando si sta in testa ad uno sciopero. La stessa volontà talvolta genera una controvolontà: Romeo ama appassionatamente la sua Giulietta, ciò nonostante la fanciulla potrebbe anche venirgli a noia, giacché lo contraria tanto, esige il matrimonio segreto per poter far l’amore, pretende che lui le resti accanto anche a rischio di vita. Così lo scioperante, seppur convinto della necessità di scioperare, può dubitare della legittimità di ciò che sta facendo. Al centro del lavoro dell’attore non c’è solo l’analisi della volontà fondamentale e della contro-volontà del personaggio, ma di tut...

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