Piccolo mondo moderno
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Antonio Fogazzaro

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Antonio Fogazzaro

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Questa la vicenda di Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro: Piero Maironi - figlio secondogenito di Franco e Luisa (protagonisti di Piccolo mondo antico) - è il sindaco di una cittadina veneta, sposato con la figlia dei marchesi Scremin: colpita subito dopo le nozze da follia. Membro del partito clericale, vive lontano dalla moglie quando viene profondamente turbato dall’incontro con la bella Jeanne, anche lei infelicemente sposata. Ma tale rapporto sentimentale tormenta le sue convinzioni ideologiche e spirituali. Alla fine ritroverà l’equilibrio al capezzale della moglie morente.

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NEL MONASTERO


I.

Un servo tagliato all’antica introdusse nella sala del biliardo il signore che aveva chiesto di don Giuseppe. «Il suo nome, di grazia?» disse egli.
«Maironi».
Quegli andò in cerca del padrone.
L’uscio a vetri, che dalla sala del biliardo mette per cinque scalini al giardino della villa Flores, era aperto. Un languido sole d’aprile moriva sulla coperta grigia del biliardo e sul chiaro impiantito di abete. Entrava con l’aria tepida un odore lieve della pioggerellina fine fine che si vedeva tremolar nel sole, annebbiar le campagne da lontano, sotto il cielo turchino. Il prato pendente in giro alla fronte dell’edificio alto e scoperto, i grandi alberi, che fanno ala quasi a un atteso corteo di principi, suggevano la pioggerellina dolce senza un bisbiglio. Così taceva la casa vuota. Lì nella sala le sedie addossate alle pareti, i pochi altri arredi simmetricamente disposti, il biliardo coperto, parevano tristi come cose morte che serbassero il ricordo della vita.
Il domestico non ritornava. Piero uscì sulla scalinata a guardar la pioggerellina muta, e un sentore debole di viole gli rese la visione voluttuosa del primo incontro con la persona che ora gli riempiva il cuore. La vide schiuder lentamente il mantello di pelliccia, mostrar il busto squisito, odorante di viola, il mazzolino degli scuri fiori alla cintura. Sentì lo sguardo intelligente, che gli aveva fatto allora dolere il petto, entrargli ancora e diffonderglisi con tanta dolcezza nella persona. «Non lo trovo, signore» disse il vecchio domestico alle sue spalle. «In camera non c’è, nella chiesetta neppure. Sarà sul monte, forse». Soggiunse che sarebbe andato a rintracciarlo. Maironi non lo permise, prese egli stesso la via dell’umile poggio che sale dietro il cortile della villa, blando verso mezzogiorno e rigato per traverso di viti a filari, cui fende una sottile processione ascendente di cipressi; erto, boscoso verso occidente, allacciato da grandi maglie bizzarre di sentieri che ne legano il rotto cadere. Per uno di quei sentieri Piero scorse calar il vecchio prete che cercava, don Giuseppe Flores, l’ultimo della sua famiglia, il solo signore della villa deserta, del poggio, dei bassi prati dove nel gran silenzio del mezzogiorno gorgogliavano tacchini, schiamazzavano anitre e oche, delle folte macchie di alberi esotici e nostrali che lì salivano i valloncelli e i dorsi del poggio fino al ciglio degli alti vigneti.
Don Giuseppe scendeva passo passo, leggendo, non curando le rade, fini goccioline di pioggia. Quando alzò gli occhi dal libro, Maironi salutò accelerando il passo. Sulle prime il vecchio prete non lo riconobbe; poi mise un «oh!» lieto, scese con vivacità giovanile, a braccia aperte, il cappello in una mano e il libro nell’altra, tutto lucente in viso di sorpresa e di piacere. Era un nobile viso dove le linee maschie delle ossa inferiori e il grande arco del naso compievano degnamente, per così dire, l’alta parola della fronte ampia, solenne; e gli occhi scuri, vivi, dolci austeramente, pronti a colorarsi di ogni baleno, di ogni fiamma, di ogni ombra dello spirito, dicevano la calda purezza interna, la soavità recondita di quella parola così maestosa.
Ora scintillavano veramente, perché don Giuseppe aveva conosciuto in Valsolda, prima del 1859, standovi ospite di certi suoi parenti, Franco e Luisa Maironi, i genitori di Piero; e godeva sempre di veder Piero che gli ricordava quelle elette creature, quel poetico lago romito e i giorni suoi più sereni. S’incontravano di rado. Prossimo ai settanta, solo, lontano dalla città nove mesi l’anno, don Giuseppe, che aveva un tempo frequentato casa Scremin ed era stato confessore della marchesa Nene, non ci andava quasi più. S’incontrava qualche volta con Piero l’inverno al gabinetto di lettura o fuori porta, sulle vie solitarie della collina.
«Caro signor sindaco, caro signor sindaco!» esclamò tutto ridente, posando le mani affettuose alle braccia del giovane che gli stava davanti pur sorridente ma in atto di riverenza. «Che miracolo! Come mai?»
«Lei è sempre stato così buono con me, mi ha detto tante volte di venire, e oggi me ne sono rammentato, ho avuto una ragione di rammentarmene».
«Bene bene bene» fece don Giuseppe e gli venne in mente che al Municipio volessero qualche cosa da lui, forse imporgli la soma di un ufficio pubblico. Si avviò con l’ospite verso la villa senza parlare, pensando a levarsi d’impaccio e preparando difese, vecchio e infiacchito come si sentiva. Anche Maironi camminava preoccupato e taciturno. Don Giuseppe fu il primo a sentir la molestia di quel silenzio, chiese notizia degli Scremin. Poi si fermò e guardò Piero sorridendo con certa innocente malizia.
«È vero» disse egli, «quello che mi hanno detto del marchese?»
«Cosa?»
«Che presto sarà fatto senatore?»
Piero si strinse nelle spalle.
«Può darsi» rispose. «Non lo so. Non ne stupirei. Ma dica: io Le reco incomodo? Ella sarebbe rimasto fuori, ora?»
Don Giuseppe protestò e si confermò nell’idea che il sindaco fosse venuto per uno scopo determinato. Presso il cancello del cortile convenne ai due di arrestarsi per una torma di buoi che andavano all’abbeveratoio.
«Sudditi suoi?» fece Maironi. «Cento volte migliori di certi sudditi miei, gliel’assicuro».
L’accento fu così amaro che don Giuseppe, stupito, esclamò: «Dispiaceri? Ha dispiaceri al Municipio?»
«No, no, no» s’affrettò a rispondere Maironi. «Questo non importa affatto. Dicevo per dire».
V’era dunque un’altra cosa che importava. Don Giuseppe introdusse l’ospite nella sala del biliardo e lo invitò a sedere.
«Scusi» disse Maironi, restando in piedi. «Se mi permette, Le vorrei parlare». E poiché don Giuseppe, con un cenno di assenso, insisteva per farlo sedere lì, lo guardò un poco senza rispondere. Il vecchio prete capì. «Come vuole, come vuole» disse egli, e accostatagli una mano al braccio, lo avviò verso l’uscio che metteva in un suo freddo e umido studiolo.
«Scusi, sa» fece Maironi sottovoce.
No, non potevano essere affari del Municipio, quella non era la solita voce di Piero Maironi.
«Qui non entra nessuno?» disse egli.
Don Giuseppe chiuse l’uscio a chiave e rispose: «Ecco».
Dubitava, per certe voci, che gli Scremin fossero un po’ squilibrati nelle finanze.
Una confidenza circa questo punto? O circa la infelice reclusa? Mentre fantasticava così, Piero Maironi, seduto accanto a lui sul vecchio logoro canapè rosso, stava silenzioso a capo chino. «Don Giuseppe» cominciò finalmente, e stese una mano al prete senza guardarlo, senza volgere il viso, «io sono venuto da Lei come un figlio».
Don Giuseppe gli prese la mano, gliela strinse commosso, con un tacito moto delle labbra, con un lampo affettuoso del viso.
«Io ho per Lei la riverenza che hanno tutti; sì, sì, me lo lasci dire! Ma poi ci ho anche un’affezione particolare e Lei ne sa il perché. Ho un bisogno immenso di Lei, adesso».
Il viso del candido, umile prete si colorò di meraviglia.
«Bisogno di me?»
«Sì. Bisogno di Lei. Son venuto da Lei come da un padre, ma da un padre ch’è sacerdote».
Don Giuseppe gli riprese la mano, gliela strinse ancora, senza parole.
«Non si meravigli di nulla, sa! Pensi ch’io sia il penitente e Lei il confessore. Prima di tutto Le domando questo: secondo le leggi della Chiesa, è mai possibile, in nessun caso, che un uomo coniugato, il quale ha la moglie viva ma demente da più anni, proprio affatto e senza speranza, ottenga il permesso di entrare in una corporazione religiosa?»
«Eh, no».
Maironi tacque.
«Può ritirarsi dal mondo» s’affrettò a dire don Giuseppe, «può vivere con Dio nella solitudine, comporsi lui una regola, santificarsi».
La fronte solenne, gli occhi gravi, la voce dolce e bassa spiravano ossequio al gran dolore, alla gran fede che apparivano congiunti nel desiderio del giovane.
Maironi rispose sottovoce: «Questo non è possibile».
Nel silenzio che seguì lampeggiò in mente a don Giuseppe una parola dimenticata di donna Luisa Maironi Rigey, la madre di Piero. Salivano insieme, i Maironi, i Pasotti e lui a piedi, il signor Giacomo Puttini sull’asino del mugnaio, al Boglia per la via di Castello. Presso Muzzaglio don Franco Maironi era uscito a dire: «Bel posto, eh, per un monastero!». E donna Luisa aveva mormorato: «Troppo bello per gente inutile». N’era venuta poi una gran discussione. Adesso dopo tanti anni, cose umane! il figlio di Luisa, non ancor nato in quel tempo, sentiva il fascino del monastero.
«Ella non comprenderà» riprese Maironi, «perché non mi sia possibile ritirarmi dal mondo senza un abito religioso, senza un voto. Questo dipende dallo stato dell’anima mia. Vede, io son venuto veramente per parlarle dell’anima mia. Immaginavo che circa l’altra cosa Ella mi avrebbe risposto come mi ha risposto. E parlarle dell’anima mia mi è tanto difficile! Non riesco a comprendere bene me stesso. Se penso una cosa di me mi vien subito in mente qualche ragione di pensarne l’opposta. Bisogna che Lei mi aiuti, don Giuseppe. Soffro, sa; e Lei ha voluto bene, non è vero, al povero papà e alla povera mamma?...»
Dicendo queste parole sorrise un poco di un sorriso tanto triste che passò il cuore a don Giuseppe. «Sì, sì» disse egli, «tanto!» E tacque, esitando ancora a cercar consiglio e conforto per una ultima resistenza dell’umiltà sua nativa.
«Mi dica» incominciò finalmente sottovoce con un albore in volto di letizia santa: «questa idea della professione religiosa, intendo che Le è venuta dal dolore, ma quando? Come ha principiato in Lei?»
«Oh, don Giuseppe, non mi è mica venuta dal dolore».
«No?»
Il viso di Maironi, giunto dalla tempesta interna, si scompose. La voce obbediva ancora al freno, ma tremava.
«No, don Giuseppe, sono un vile, non sento più nessun dolore per lo stato di mia moglie».
Don Giuseppe lo guardò, sgomentato più ancora dal disordine di quel volto che dalle parole. L’altro ripeté, a stento, con soffocata voce: «Nessuno».
Don Giuseppe aperse le braccia.
«E allora?» disse egli quasi severamente. Maironi scattò in piedi, andò alla finestra, vi stette un minuto voltando al prete le spalle che sussultavano. Quando ritornò al canapè il viso era ricomposto e la voce ferma.
«Bisogna che Le spieghi tutto» disse egli. «Avrà pazienza, don Giuseppe?» Alla protesta muta del vecchio, continuò: «Ella sa come sono entrato in casa Scremin. Sa che restai senza padre appena nato, si può dire; perché mio padre morì a Oria delle conseguenze della sua ferita nel 1860 e io nacqui nel ‘59. Sa che mia madre morì, pure a Oria, due anni dopo, che mia bisnonna Maironi non volle tenermi in casa e mi affidò ai suoi parenti Scremin. Il marchese è figlio di un fratello della bisnonna. Morì presto anche lei, lasciò erede me e nominò mio tutore il marchese. Credo che sin da quel giorno gli Scremin abbiano pensato a me per la povera Elisa. Sono diventato uomo in casa loro, studiando con don Paolo, com’Ella sa, senza libertà di scegliermi degli amici, frequentando sempre la stessa gente, impregnata delle stesse idee. Io voglio ancora bene a quell’eccellente don Paolo, ma da ragazzo, poi, l’ho adorato. Quanto ho pensato allora di farmi religioso anch’io! Il solo odore d’incenso che don Paolo serbava nella tonaca quando veniva a pigliarmi, dopo le funzioni, per il passeggio, mi metteva una riverenza! E pensavo allo stato religioso come ad uno stato quasi divino. Durante le funzioni, al suono dell’organo, la mia delizia era di sognare la Tebaide o il Libano o anche spesso un monastero fantastico perduto in mezzo al mare del Nord. In pari tempo...»
Qui Piero s’interruppe.
«Mi ascolti come nel sacramento» disse egli sottovoce. E ripigliò: «Dunque, io che sognavo monasteri e vita religiosa, è incredibile come dai primi anni della fanciullezza, prima di possedere il senso morale, fossi soggetto ad accessi strani di sensualità; di una sensualità che la mia ignoranza, fortunatamente durata moltissimo, rendeva cieca e particolarmente tormentosa. Quando il mio senso morale si risvegliò, siccome poi religiosissimo ero già da prima, non Le so dire i miei terrori e le penitenze segrete! Allora, molto molto presto, siccome per un certo tempo dopo ch’ero andato ai Sacramenti avevo delle estasi religiose, dei rapimenti inesprimibili, dei giorni in cui l’idea della menoma impurità mi metteva schifo, cominciai a pensare sul serio che per liberarmi dalle ossessioni dello spirito immondo avrei dovuto entrare in un Ordine religioso.
Una volta fui condotto a vedere l’abbazia di Praglia, negli Euganei, che Lei conosce; dev’essere a sei o sette miglia da qui. Là, proprio nelle logge del cortile pensile, mi venne l’idea di farmi benedettino. Avevo quindici anni, allora. Ne parlai a don Paolo e don Paolo mi disse ch’ero troppo giovine per pensare a queste cose. Capii da certe vaghe parole del mio confessore che il discorso era stato riferito in famiglia, che l’avevano preso sul serio e ch’erano contrarissimi. Infatti mi mandarono a viaggiare con don Paolo, mi fecero condurre qualche volta al teatro da un amico di casa. Io avevo sempre combattimenti interni, ma duravo fermo nel mio proposito. Studiavo il latino e il greco assai volentieri ed ero contento che il mio tutore non mi facesse seguire un corso regolare di studi perché prima ancora di pensare a farmi frate, quando mi avevano detto che gli studi regolari potevano solamente condurmi a diventare avvocato, o impiegato, o medico, o ingegnere, o professore, n’ero rimasto sorpreso e afflitto. Non mi sentivo nato ad alcuna di queste vie, avevo creduto che nel mondo ve ne fosse un’altra buona per me, mi accoravo del mio inganno come di non saper decifrare in me stesso i desideri che mi rendevano inquieto. L’idea di farmi religioso mi parve una rivelazione, mi diede un benessere profondo, per qualche tempo; vorrei dire fino a sedici anni. A sedici anni un certo senso di diventar diverso io e di veder diverse tutte le cose, certi sguardi, nuovi, di donne, certe rivelazioni del mondo e della vita mi sconvolsero l’anima. Però nelle mie agitazioni indicibili di quel tempo, anche nei momenti in cui abborrivo dalla vita religiosa, l’idea di renderla impossibile col matrimonio m’ispirava un inesplicabile terrore; proprio terrore. Intanto mi tenevo attaccato a tutte le esteriorità religiose, alla Conferenza di S. Vincenzo dei Paoli, al Circolo della gioventù cattolica, per istinto, perché lì almeno c’è qualche cosa di fermo. Gli anni passavano, avrei potuto cominciare a occuparmi dei miei affari ma non ci pensavo. Capivo che il mio tutore non lo desiderava e mi era facile di compiacerlo: non ho affetto alla proprietà. Dal partito ero accarezzato molto. Lei lo sa. Mi elessero vicepresidente del Circolo. Mi affidarono dei lavori, delle traduzioni dal tedesco e dal francese di scritti cattolici, mi parlavano sempre del mio ingegno, di uffici pubblici cui sarei stato chiamato, di una grande parte che mi era serbata nell’azione cattolica, mi chiusero nella loro cerchia, mi rappresentarono corrotti e pericolosi tutti i giovani non clericali, m’insinuarono spesso idee di matrimonio con allusioni alla cuginetta ch’era in collegio. Ciò che dovevo fare per il Circolo lo facevo senz’amore. Non ho fatto con amore che una traduzione di Ketteler. Capivo che per l’idea d’una legislazione sociale cristiana avrei potuto appassionarmi, ma sentivo in pari tempo che fra i miei compagni di partito e me vi erano delle dissonanze profonde, che un’azione comune con essi, proprio ex corde, non mi sarebbe stata possibile. Mi pareva che avessero acqua nelle vene, acqua santa, se vuole, ma troppo diversa da quel sangue pieno di fuoco latente che mi sentivo io, e ricadevo in una specie di letargo, confortandomi con la speranza stupida di una potenza ignota che maturasse dentro di me.
Quanto al matrimonio incominciai a considerarne l’idea come un nuotatore stanco incomincia a pensare di abbandonarsi. Avevo ventun anni quando gli Scremin levarono di collegio l’Elisa che ne aveva diciassette. Allora ebbi un quartierino a parte, un domestico a parte. Il marchese mi dichiarò solennemente che le convenienze volevano così; tanto solennemente che mi parve quasi essere giudicato indegno di aspirare alla mano di mia cugina. In apparenza ero libero. In fatto la marchesa, con tutte le piccole buone arti che possiede, mi teneva più schiavo di prima. L’Elisa mi piaceva come persona, mi piaceva per un certo che di enigmatico nella sua stessa freddezza e severità, mi piaceva sopra tutto, credo, perché mi ero accorto di piacere a lei. Però, siccome mi ero finalmente anche accorto delle manovre di suo padre e di sua madre, n’ero seccato e mi difendevo; perché poi proprio innamorato non ero. In questo stato d’animo, una sera, a Venezia, io che fino a quel momento mi ero serbato materialmente puro...»
Silenzio.
«Passi, passi» mormorò don Giuseppe. Piero ripeté: «La reazione di vergogna e di nausea fu violentissima. Allora il matrimonio con una fanciulla tanto pura e severa come mia cugina mi parve un asilo di pace. Quando la sposai mi credetti innamoratissimo di lei. Però neppure a lei ho voluto raccontare i miei propositi segreti di una volta. Solo mi ricordo che si visitò insieme Praglia, che il trovarmi nel cortile pensile con mia moglie mi fece un’impressione straordinaria e che mia moglie mi domandò e mi ridomandò se mi sentissi male. Adesso, don Giuseppe, viene qualche cosa di tanto penoso a dire! Mi pare una viltà di raccontare certe cose quando...»
Piero non poté continuare, non poté reprimere un singhiozzo violento.
«Ecco» ripigliò alfine, «dopo i primi giorni mi trovai disilluso, in certe cose, riguardo a mia moglie. Intanto, malgrado il suo affetto, aveva freddezze invincibili. Mi perdoni; a un padre devo pur dire tutto! Non mi pareva più enigmatica, mi pareva chiusa, sì, ma vuota. La portai in Valsolda per una visita ai miei morti, avrei voluto che pigliasse affetto al paese, alla casa che mi è tanto cara. Invece si mostrò gelida. Ne fui offeso amaramente. La malattia terribile incominciò con prostrazioni, terrori, presentimenti sinistri e accessi strazianti di affetto per me. Allora non Le so dire i miei rimorsi, mi sono disprezzato, odiato! Mi sono proposto di adorarla, se guariva, come una creatura del cielo. Non avrei voluto la casa di salute; cedetti perché solo a quel patto i medici mi permettevano di sperare. Quel che ho sofferto Iddio lo sa, ma confidavo in lui, tanto! Dopo un anno vennero certe parole dubbie, scure dei medici, che prima mi avevano sempre confortato. La impressione fu terribile, ma poco a poco passò; qualche momento buono di tempo in tempo c’era e bastava per rialzarmi. Mia suocera, poveretta, aveva tanta fiducia! Nel primo tempo parlava sempre di sua figlia come se avesse a guarire l’indomani, poi non ne parlava più, ma io sapevo che faceva segretamente preparare in campagna un quartiere per lei.
Si figuri che vi faceva collocare stufe perché fosse pronto ad accoglierla in qualunque momento, che vi andava raccogliendo certi vecchi mobili stati cari all’Elisa da ragazza. Andai avanti così un altro paio d’anni con un’altalena continua d’illusioni e di disillusioni. Finalmente vi fu un primo momento in cui, pensando a mia moglie, mi tornò in mente qualche suo atto, qualche sua parola che mi aveva fatto cattiva impressione. Mi spaventai. Possibile che il mio dolore cominciasse a venir meno? Cacciai quei ricordi come tentazioni diaboliche. Ma tornavano. Reagii quanto potei, pregai e feci pregare più di prima, esagerai nelle dimostrazioni. Non so, per esempio disposi la camera da letto e il gabinetto di toeletta di mia moglie come s’ella vi fosse ancora, con tutti i suoi ninnoli, i profumi, sino all’accappatoio sulla poltroncina. Per un po’ di tempo questo mi giovava, mi ravvivava le memorie; ma poi! Vedevo la tenerezza negli occhi dei miei suoceri, vedevo la pietà negli occhi dei miei conoscenti. Era una cosa terribile perché non soffrivo più, non amavo più, mi sentivo, con orrore, un ipocrita. Non basta; prima non avrei guardato una donna in viso due volte, per la sua bellezza. Poi...»
Il giovane si coperse gli occhi con le mani ripetendo che voleva dire tutto, tutto! Scopertosi il viso continuò:
«Un giorno, proprio ritornando dal luogo dov’è mia moglie, m’incontrai nel treno con una signora giovine e bella che certo mi conosceva perché mi avvidi s...

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