Andare a Kobânê
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Andare a Kobânê

La condanna del fascismo dell'Isis e del regime di Erdogan nella storia e nella memoria delle vittime della strage di Suruç e nell'attivismo di una società civile pronta a mobilitarsi per difendere i valori della rivoluzione del Rojava in Medio Oriente

Arzu Demir

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Andare a Kobânê

La condanna del fascismo dell'Isis e del regime di Erdogan nella storia e nella memoria delle vittime della strage di Suruç e nell'attivismo di una società civile pronta a mobilitarsi per difendere i valori della rivoluzione del Rojava in Medio Oriente

Arzu Demir

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Era il 20 luglio del 2015. A Suruç, capoluogo dell’omonimo distretto turco confinante con la Siria, centinaia di ragazzi e ragazze, militanti della Federazione delle Associazioni Giovanili Socialiste e provenienti da ogni angolo del paese, si trovano nel giardino del centro culturale insieme a ciò che hanno portato con loro: libri, giocattoli e vestiti utili a dare un contributo alla ricostruzione di Kobânê, la città-martire della rivoluzione del Rojava, il luogo in cui l’autorganizzazione popolare ha dimostrato di poter tenere testa e addirittura sconfiggere le milizie fasciste dell’Isis.
«L’abbiamo difesa insieme, la ricostruiremo insieme», hanno scritto i giovani socialisti turchi su uno striscione: un messaggio di pace e solidarietà destinato a essere travolto da un violento attacco islamista quando, poco prima di mezzogiorno, la bomba di un attentatore sucida – probabilmente una ragazza diciottenne – uccide 33 persone, ferendone oltre cento. Immediatamente, sorda a qualsiasi dolore, sulla strage di Suruç cala la censura di Erdogan. Gli stessi social network vengono oscurati dal regime del “Sultano”, senza riuscire, però, a impedire che tra l’opinione pubblica circolasse una domanda: come è stato possibile, per un attentatore e la sua ingente quantità di esplosivo, riuscire ad attraversare il blindatissimo confine turco-siriano?
Oggi che Erdogan guida in prima persona l’offensiva turca contro la Siria del Nord, la storia e la memoria delle vittime di Suruç, raccolte da Arzu Demir, rappresentano un atto di accusa senza precedenti nei confronti dell’ipocrisia turca e dei suoi alleati europei e statunitensi. Perché “andare a Kobane”, per i giovani uccisi a Suruç nel 2015, così come per un numero sempre maggiore di persone di qualunque nazionalità, continua a essere, più che un messaggio, una sfida lanciata a tutti i regimi che, arrogandosi con la forza il diritto di agire nel nome della “democrazia”, credono di poter continuare a soffocare le aspirazioni alla giustizia e alla libertà.

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Information

Year
2021
ISBN
9788867183142

COMICA, COCCIUTA E COSCIENZIOSA

immagine 1


Polen Ünlü

Una mattina si svegliarono col rumore di un’esplosione. La gente di casa saltò sul letto udendo quel rumore assordante. Il palazzo di fronte alla loro casa era avvolto dalle fiamme. Mentre tutti erano presi dalla fretta, madre Şennure sussurrava delle preghiere. A Polen invece, chissà per quale motivo, era venuta in mente la poesia di Cemal Süreya Tieni il resto:

Sto morendo, mio dio
Anche questo è ormai accaduto
Ogni morte è una morte prematura
Lo so mio dio
Ma questa vita che ti stai riprendendo
Non era male
Tieni il resto.

Quando lo raccontò a Özgen Sadet risero insieme a lungo. Quando Özgen seppe che Polen era fra quelli che erano stati massacrati a Suruç, la prima cosa che le venne in mente fu quel ricordo. «Chissà se in quel momento le è venuta in mente questa poesia? Ci penso sempre».
Polen era una donna che amava la poesia, che faceva ridere, una donna cocciuta, schietta e coscienziosa. Era una rivoluzionaria attiva, membra del Kgö. Quel giorno aveva viaggiato in autobus seduta accanto a Oğuz Yüzgeç. Fra di loro c’era una questione irrisolta e il lungo viaggio divenne l’occasione per risolverla.

Polen un giorno mi disse «questo non lo darei a nessuno. Lo do a te ma nascondilo assolutamente» e mi diede un orologio da polso. Io lo presi e dissi «va bene, prometto di non darlo a nessuno». Polen riattaccò: «Guarda, ti conosco bene, tu sicuramente lo darai a qualcuno. Se fai così non te lo do». Promisi di nuovo e presi l’orologio. Il giorno dopo incontrai un amico che stava partendo per combattere nei battaglioni comunisti e volevo dargli qualcosa che gli fosse di ricordo. Non avevo con me nient’altro che l’orologio che mi aveva regalato Polen. Proprio come Polen aveva immaginato, mi sfilai l’orologio e lo diedi a quell’amico. Quando vide che non avevo l’orologio al braccio si arrabbiò. Durante tutto quel lungo viaggio verso Kobane ero riuscito a riconquistare la sua fiducia.
Lungo il viaggio parlammo a lungo delle nostre vite, delle nostre famiglie, di quello che avremmo voluto fare. Voleva conoscere le guerrigliere. E poi desiderava tantissimo vedere compagni che conosceva e che erano partiti per il Rojava. Cercava continuamente di capire se avremmo avuto la possibilità di incontrare i guerriglieri comunisti, mi faceva continue domande. Avevamo un piano del genere, ma io volevo che fosse una sorpresa per lei e non glielo dicevo.

Anche per Polen, come per Büşra, l’influenza del martirio di Sinan Sağır sul mettersi in viaggio fu molto forte. In fondo era come se seguisse una traccia. Questa traccia la portava tanto ai territori della rivoluzione quanto alla propria rivoluzione personale. Doğukan racconta che Polen dopo la rivolta di Gezi si era ritirata in se stessa.

Durante le sollevazioni di Gezi Polen era rimasta spaventata dal fatto che molte persone erano state colpite agli occhi. Anche persone molto vicine a lei erano state colpite agli occhi dalla polizia. Questa paura in quei giorni si era trasformata in qualcosa che la bloccava. Tuttavia, non se l’è trascinata per tutta la vita, quella paura l’ha poi affrontata e superata.

Dopo che le rivolte di piazza Taksim per Gezi Park volsero alla fine, per un lungo periodo non uscì di casa e non vide nessuno. In quei giorni leggeva molti libri, soprattutto poesia, e vedeva tantissimi film. Questa situazione andò avanti dall’estate del 2013 fino all’inverno del 2014. Dopodiché tornò a prendere parte alla vita e alla lotta. Secondo Özgen, che fu testimone di quei giorni, in realtà il filo che la legava alla lotta non si era mai reciso.

In quei giorni aveva bisogno di riposare la mente e di conoscere meglio se stessa. Ma anche mentre era a casa aveva dei parametri molto chiari. Per esempio, aveva partecipato al funerale di Berkin. Era giusto che ci andasse e ci andò. Partecipò alla marcia in ricordo di Hrant Dink 1 il 19 gennaio. Anche quella era una cosa a cui lei sarebbe assolutamente dovuta andare. Discuteva con se stessa e quando si ritrovò tornò alla vita sociale come una Polen diversa. Distrusse se stessa per ricrearsi di nuovo. Nel romanzo di Oğuz Atay Giochi Pericolosi ( Tehlikeli Oyunlar ) ci sono “Primo Hikmet” e “Secondo Hikmet” come personaggi. Allo stesso modo, Polen diventò come una seconda Polen. Specialmente la morte di Sinan ebbe su di lei un effetto particolare. Anche Sinan era una persona che aveva le sue timidezze e le sue paure. Questo Polen lo sapeva. Che una persona del genere prendesse parte alla lotta nei suoi fronti più avanzati fece sì che Polen si interrogasse molto su se stessa.

Ezgi Bedel continuò a vedere Polen anche dopo le rivolte di Gezi. Qualche giorno alla settimana andava a casa sua e passava un po’ di tempo con lei: «Polen in quel periodo credeva di essersi un po’ ritirata in sé, ma dentro di lei il legame con la lotta non aveva perso di forza. Non vedevo affievolirsi in lei la connessione con le persone e con il movimento. Fra di noi ci chiamavamo “lavoratrici”. E in effetti Polen era davvero una lavoratrice del movimento».
Anche Havva Custan mi ha dato la stessa descrizione di Polen: lavoratrice della rivoluzione.

“Lavoratore della rivoluzione” si usa dire, e Polen era proprio così. Alle assemblee non parlava molto. Se durante la discussione qualcuno esprimeva quelle che erano anche le sue idee, a lei bastava dire che era d’accordo con quel compagno. Durante le elezioni del 7 giugno si era data davvero molto da fare. Non lasciava indietro niente. Ha camminato per giorni interi per le strade di Beşiktaş e di Sarıyer. Il suo scopo era essere una lavoratrice per la rivoluzione.

Anche quel giorno al Centro Culturale Amara era davanti, fra i responsabili. Doveva raccogliere le carte d’identità e fare le fotocopie. A Istanbul, prima di partire, quando qualcuno le chiedeva cosa avrebbe fatto laggiù, lei rispondeva «trasporterò delle pietre sulla schiena». E se avesse raggiunto Kobane lo avrebbe fatto veramente. Era forzuta e non era una ragazza pigra. Inoltre, a Kobane avrebbe voluto fare un disegno su un muro. La sua intenzione era di colorare un grosso muro con un disegno che sarebbe piaciuto anche ai bambini e che avrebbe incluso tutti i simboli della resistenza dal passato a oggi.
Mentre Polen stava ricostruendo se stessa, non poteva non ascoltare l’appello della rivoluzione del Rojava. Il Rojava era il posto che le ridava speranza. Con Doğukan ne parlavano spesso.

Polen seguiva da vicino e conosceva molto bene gli sviluppi che avvenivano in Medio Oriente. Vedeva il Rojava come una riserva d’ossigeno per la regione. Per lei era qualcosa di molto prezioso e quindi voleva andare a vedere. Il Rojava era qualcosa che faceva parte di noi e a noi molto vicino. Per questo motivo Polen doveva vedere. Voleva a tutti i costi fare qualcosa per quel posto, anche di molto piccolo.

Secondo Can Papila, Polen si mise in viaggio pensando a se stessa.

Uno degli scopi di andare a Kobane era senz’altro la solidarietà. Sicuramente questa aveva un ruolo nello spingere Polen a mettersi in viaggio. Tuttavia c’è anche qualcosa di molto più intimo. Polen era entrata in un periodo di introspezione, di autoanalisi, di molti pensieri. Andare a Kobane per lei significava passare a un altro livello. Avrebbe visto la rivoluzione, avrebbe visto le guerrigliere e probabilmente sarebbe tornata indietro come un’altra Polen. Secondo me Polen andava a Kobane per se stessa e per il proprio spirito di rivoluzione.

In quei giorni la rivoluzione del Rojava, grazie alla resistenza di Kobane, aveva sollevato nei giovani socialisti un interesse enorme. L’influenza giocata sulle loro scelte personali dalla partecipazione alla resistenza di loro amici, compagni e conoscenti era molto grande. Secondo Ece Şimşek inoltre, quel viaggio era legato anche alla loro giovinezza.

Ricreare qualcosa. Era qualcosa collegato alla nostra gioventù, alla nostra lotta, e soprattutto al nostro essere donne. Trovarci in un luogo col quale avevamo creato un legame ideologico, allo stesso tempo aveva a che fare con la nostra gioventù. In quei giorni io lavoravo a Etha. Sarei partita anche io, però fu incaricato di partire il nostro amico Yunus. Andare a vedere le strade e le case in cui i tuoi compagni sono stati uccisi. La morte di Sinan, che non era stata solo la sua morte, ma la morte di ciascuno di noi. Anche per Polen era così. Era così per tutti noi. Era un periodo di grandi interrogativi. Lo era per Polen, ma era così anche per tutti noi. Perché è scoppiata quella bomba a Suruç? Ci ho pensato a lungo. Il vero motivo che fece scoppiare quella bomba ha a che fare con le cose che avremmo voluto fare in futuro. Non voleva semplicemente impedirci il passaggio da Suruç a Kobane; voleva impedire che al ritorno ci portassimo con noi la speranza, la voglia di lotta, la determinazione, l’entusiasmo per la rivoluzione.

I loro amici e i loro compagni avevano preso parte alla resistenza armata. Anche grazie al loro sangue, ai loro corpi, alla loro forza di volontà, Kobane si era salvata dall’occupazione di Daesh; adesso toccava ricostruirla. Come dice Özgen, che in quel periodo era copresidente della Sgdf, i giovani socialisti pensavano che adesso fosse il loro momento di intervenire.

Durante l’assemblea generale in cui decidemmo di andare a Kobane nessuno si oppose. Prendemmo quella decisione all’unanimità. Mentre succedevano un sacco di cose vicino a noi, fare qualcosa per Kobane era una priorità nelle nostre coscienze. L’avevamo difesa insieme e adesso l’avremmo ricostruita insieme. E il compito della ricostruzione toccava anche a noi. Pensavamo veramente che fosse arrivato il nostro turno. La campagna per Kobane ha tracciato per noi una linea molto concreta. In ogni situazione, parlavamo delle azioni di liberazione e di rottura dei confini di coloro che si erano dedicati alla rivoluzione. Era soprattutto l’azione di liberazione delle donne che ci emozionava. Del resto non è una cosa che succede spesso nella storia mondiale, ovvero che la propria generazione sia testimone di una rivoluzione. Da un certo punto di vista ci ritenevamo fortunati. Noi eravamo fra i promotori delle rivolte di Gezi, dentro Gezi eravamo cresciuti, e adesso eravamo testimoni della rivoluzione delle donne del Rojava. Per questo motivo volevamo vedere le terre della rivoluzione, volevamo respirarle, viverle. Dovevamo farlo assolutamente.

Polen generalmente partecipava a tutte le attività della Sgdf. Nel 2012 era andata a Roboski a condividere il dolore del popolo kurdo. Anche Dilcan Acer era fra quelli che andarono: «Non andammo a Roboski per fare un’attività sociale. La solidarietà implica un altro sentimento, un’altra soddisfazione. Polen conosceva questo sentimento. E con quello dev’essere partita per Kobane. Inoltre con questo viaggio voleva in qualche modo fare la storia».
Dopo il terremoto era andata a Van. Era a Kürecik per la foresta memoriale Sinan Cemgil 2 e sotto il sole senza annoiarsi scavava buche per piantare i giovani arbusti.
Si è data da fare per tutto. Durante la campagna per Kobane lavorava in un bar e allo stesso tempo partecipava all’organizzazione, e cercava di imparare il kurdo. Ezgi, Büşra e Polen avevano iniziato a partecipare alle lezioni di kurdo che si tenevano al Beksav. Secondo Ece, credevano così tanto in questo viaggio che cercavano di imparare il kurdo con grande gioia e grande convinzione.
La sua famiglia sapeva di questo viaggio a Kobane. Sua madre Şennure non le disse di non andare. Perché comunque sapeva che anche se le avesse detto «non andare» non avrebbe ascoltato e sarebbe andata.

In quei suoi occhi, nel suo sguardo ho visto un calore. Quando obiettai che era pericoloso mi disse «mamma, al massimo ci arrestano». Che potesse scoppiare una bomba del genere non sarebbe venuto in mente nemmeno al diavolo. Non sono pentita di non averle detto di non andare. Perché quella bambina l’ho cresciuta io. Non era certo una bambina di cui io debba pentirmi. Non sono io a dovermi pentire, ma quelli che hanno fatto scoppiare quella bomba. Sono orgogliosa di lei. E del resto non poteva che essere così. Perché l’ho cresciuta io Polen. Era davvero cocciuta. Ho sempre voluto che i miei figli fossero un passo davanti a me. Fin da piccola l’ho abituata a leggere libri. Anche io leggevo, ma volevo che loro leggessero molto più di me. Suo padre era quasi intimorito, non si azzardava a discutere con lei. Perché parlava in maniera accademica. Con tutto quel che sapeva non avrebbe dato scampo a suo padre.
Una sera tornando a casa mi raccontò una cosa. Mentre tornava a casa in autobus aveva le cuffiette alle orecchie e ascoltava la musica. Un uomo che le stava a fianco le disse qualcosa all’orecchio. A causa delle cuffiette non aveva sentito bene, così si tolse le cuffie e chiese all’uomo cosa avesse detto. L’uomo ripeté «sei molto carina». Impossibile, non era una frase che Polen poteva accettare da una persona sconosciuta. Quell’uomo lo avrebbe spiaccicato a terra. «Alla prima fermata scendi oppure ti seppellisco qui» gli disse. Mentr...

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