Parte Terza
La pandemia del Coronavirus
Capitolo I
La prima vera pandemia mediatica
Quando l’11 gennaio del 2020 ci fu la prima vittima nella città di Wuhan, e dopo che alla fine di quello stesso mese furono ricoverati allo Spallanzani di Roma due turisti cinesi per una sintomatologia verosimilmente da infezione epidemica; e dopo che, superati i sottesi e perduranti ripensamenti di stato decorrenti dal 31 dicembre 2019, la Cina ufficializzò tardivamente il virus della malattia che aveva cominciato a imperversare in quel paese e che identificò con la sigla “Co-vi-d19” (dove Co sta per corona; Vi per virus e d per l’anno 2019), fu di dominio pubblico la notizia che, anche in Italia, era trasmigrata l’epidemia di Coronavirus scoppiata in Cina, nella città di Wuhan.
Una malattia respiratoria, questa, del ceppo Coronavirus SARS-CoV2, i cui malati accusano sintomi che sono simili all’influenza (febbre, tosse secca, insufficienza respiratoria e stitichezza) e le persone anziane, e già con altri guai addosso, una volta contagiate (per le bollicine emesse con la tosse, e per gli starnuti e la saliva della persona posseduta dal virus), si aggravano e muoiono con maggiore frequenza.
La persona che vive e convive con altre patologie anche gravi, ma con prognosi clinica favorevole che escluderebbe, di per sé, un pressoché imminente e prossimo decesso per le malattie di cui è portatrice, può morire e, con relativa probabilità, anzitempo una volta contratto il virus, che agirebbe come concausa in uno con le precedenti patologie della persona, così agevolandone il decesso.
La disputa sulla paternità cinese del nostro Coronavirus ci pone un dubbio serio sul perché nessun paese al mondo abbia mai accettato l’ordinaria evenienza che un virus epidemico possa essere stato partorito nel proprio territorio; e al di là dei gravi sensi di colpa che possono derivare da colpevoli responsabilità gestionali della salute pubblica, e quindi di responsabilità politiche di cui nessun paese vorrebbe essere tacciato, è ormai un fatto storico che ogni paese si sforza d’individuare fuori dalla sua terra le origini di un contagio epidemico[7]; e come sempre succede quando scoppiano epidemie di una certa gravità, solitamente si scatenano campagne volte a scovare i colpevoli, che vengono sempre da lontano; o meglio dall’idea antica secondo la quale ogni paese, ha sempre attribuito un’origine straniera ai virus.
Nei casi, perciò di epidemie ― e in ogni paese ― sembra quasi porsi tutte le volte uno scenario pirandelliano: l’io, il tu, il noi e il contesto. L’io con i suoi timori e le sue angosce; il tu, l’alieno, da tenere sempre lontano (fosse anche il nostro fratello); il noi, una sorta di superiore inconscio che guarda e controlla da lontano; il contesto, l’insieme: un campo sociale polarizzato tra l’assenza di voci, il silenzio, e il bisogno patetico di comunicazione.
Il perché di tutto questo è, secondo la studiosa inglese Laura Spinnay nel fatto che i virus hanno fatto la storia della civiltà umana, e che le epidemie hanno sempre causato dei contraccolpi politici
nella gestione di certi conflitti (la lotta per l’indipendenza in India con il Mahatma Gandhi; in Africa, nel Sudafrica, l’apartheid; in Svizzera per gravi tensioni sociali, al limite di una guerra civile). E tutto questo appunto perché il virus e le malattie infettive nell’immaginario collettivo presuppongono l’eterno conflitto con il nostro nemico di sempre: lo straniero.
Ed è per questo che le fonti di contagio sono, per tutti gli uomini, venute sempre da fuori, da un altro luogo… Del resto, la tentazione di colpevolizzare gli altri è antica quanto il mondo. Walter Burkert, nel suo libro di successo (La creazione del sacro, 1996) afferma che il vezzo di trasformare qualcuno in capro espiatorio è un tratto universale delle società umane antiche e moderne, e specialmente sul piano della diffusione pestilenziale. Anche se bisogna parlare di un accidentale pregiudizio (anche questo universale), secondo il quale i virus sono solitamente portati dai soldati, dalle guerre che determinano i conflitti tra le genti e dalle strane mescolanze di uomini. Ne è derivato, perciò, un teorema filosofico, una specie di sillogismo antropologico: che, cioè, la persona di fuori, l’alieno, che è il soggetto che è sempre straniero e che è quello che infetta, ha sempre torto e va, perciò, demonizzato.
La pestilenza, insomma, è stata sempre un male che proviene da un altro luogo: nel quindicesimo secolo la sifilide era per gli inglesi il morbo francese; per i parigini il morbo germanico; per i fiorentini il mal napoletano e per i giapponesi il mal cinese. E ancora l’epidemia, l’epidemia della spagnola ha sempre avuto un’origine diversa e orientata dalla passione politica delle diverse popolazioni: per gli spagnoli, il referente è sempre stato il soldato napoletano; per i polacchi, il bolscevico; per i brasiliani, il tedesco; per i persiani, l’inglese. Sembra sia consolidato, ormai che nelle bizzarre sortite del nostro subcosciente lo straniero è stato sempre il nostro nemico tradizionale; resp...