La centuria alata
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La centuria alata

Italo Balbo

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La centuria alata

Italo Balbo

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Nel luglio del 1933 Italo Balbo effettuò la seconda trasvolata atlantica guidando alla volta degli Stati Uniti attraverso l’Atlantico settentrionale, una formazione di 24 aeroplani Siai Marchetti S.55X, volando da Orbetello a Chicago e rientrando a Roma percorrendo i circa 20.000 km in cento ore di volo e con un centinaio di piloti. L'impresa è raccontata dallo stesso protagonista, nel diario di viaggio La centuria alata. La prima trasvolata atlantica avvenne nel dicembre del 1930, sorvolando con 12 idroplani Savoia Marchetti l’Atlantico meridionale. Per questa impresa fu decorato con medaglia d’oro (partì il 17 dicembre dalla baia di Orbetello e giunse a Rio de Janeiro il 15 gennaio del 1931). La prima trasvolata atlantica di Italo Balbo è raccontata in Stormi in volo sull’Oceano, già pubblicato in versione ebook da Passerino Editore.

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Information

Publisher
Passerino
Year
2021
ISBN
9791220844871

NEW YORK

Quanta gente nella notte tra il 18 e il 19 luglio ha rinunciato a dormire per occupare le posizioni di prima fila, sulle rive del lago Michigan? Impossibile calcolarla. Certo migliaia e migliaia. In queste grandi città tentacolari, in cui l'agglomerato umano si conta sempre a milioni, è impossibile far cifre: si parla di folla. L'America è forse il solo paese del mondo nel quale questa parola ha un senso effettivo.
Cosí, secondo il suo stile e il suo carattere, Chicago ci ha dato l'addio: uno spirituale abbraccio della moltitudine, nella quale una buona percentuale era certamente di italiani.
Alle 11.30 di Greenwich, circa le 6 locali, mi trovo sull'Houter Harbour da cui spiccheremo il volo verso New York. La distanza non è piccola: 1515 km.: in proporzione la terza tappa della Crociera. Il decollo non sarà facile, perché il carico è notevole, circa 3200 kg., e lo spazio per la manovra è stretto: l'uscita dal porticciuolo lacustre è piuttosto laboriosa e deve avvenire squadriglia per squadriglia. Inoltre gli idrovolanti debbono flottare verso il largo per sfruttare il vento, che ci costringe al decollo in direzione della città.
Saluto le autorità e i molti amici che sono venuti sino al porto. Alle 11.30 mi imbarco, mentre diciannove colpi di cannone sono sparati a salve dalla nave della marina americana. Le ovazioni della folla giungono a ondate, urlo potente nel quale si esprime l'anima innumerevole: corre sulle acque del lago, sembra accompagnarci col buon augurio verso la mèta lontana. Il cuore della metropoli del Middle West palpita di emozione. Il mio apparecchio è vicino. Prima di montarvi mi volto ancora verso la folla e faccio gran segni di saluto. Poi salgo al posto di comando, si mettono in moto i motori, si flotta per un chilometro circa sul lago, entro una bassa foschia che annulla la visibilità e l'apparecchio parte. Sono le 12.43. Mentre le altre squadriglie eseguono inappuntabilmente la stessa manovra, io volteggio largamente con i miei due sezionari sulle acque del lago, girando poi sul cielo della metropoli.
Quindi prendiamo la rotta dell'arrivo, ma in senso inverso. Siamo alle 14.10 ad Angola, alle 14.45 sulla verticale di Toledo. Siamo tormentati dalla densa foschia. Cerchiamo zone piú limpide salendo a quota sempre piú alta. Da 1000 passiamo a 1500, poi a 1700 metri. Il motore marcia a 1550 giri. Qui la visibilità è ottima.
Fino a Toledo siamo stati scortati da una formazione di 36 apparecchi da caccia americani, che volano, con esemplare eleganza, a quota leggermente piú alta della nostra. A Toledo ci lasciano, scomparendo verso occidente. Questi aviatori degli Stati Uniti sono di buona razza. Non so che cosa avrebbero fatto per farci onore. Quando siamo arrivati, un apparecchio, destinato a venirci incontro insieme con altri 43 che formavano la scorta d'onore, ha avuto un incidente pericoloso: una scivolata d'ala che per poco non riusciva fatale. Il pilota, per quanto malconcio per le inevitabili contusioni, non ha voluto rinunciare al volo: ha chiesto e ottenuto un altro apparecchio e ha partecipato a tutte le belle evoluzioni dei suoi camerati.
Alle 15.25 siamo su Cleveland, di cui ammiriamo la vasta distesa, circondata da magnifiche colture. Alle 16 il mio apparecchio si trova sul traverso di Conneaut.
Dopo un'ora avvistiamo le cascate del Niagara a millecinquecento metri di quota. Quantunque la grande altezza appiattisca il sottostante paesaggio e riduca tutto in proporzione, tuttavia lo spettacolo della massa d'acqua scrosciante in un salto di quasi 50 metri, tra nembi di vapore candidissimo che sfioccano verso il cielo, è imponente. Sono le acque di un lago che si rovesciano in un altro lago: qualche cosa che riporta la mente alle grandi scene dei tempi preistorici, quando la natura abbandonata alle sue libere forze selvagge, non ancora controllata dall'uomo, appariva mostruosa.
Ma noi procediamo oltre e continuiamo a salire: siamo sopra Oswego a 2200 metri; alle 17.50 navighiamo sul traverso di Syracuse; alle 18.07 siamo su Oneida a 2600 metri di quota; alle 18.34 su Grand Gorge e tocchiamo i 3500; il motore marcia vittoriosamente. Ma intanto la temperatura si abbassa: battiamo i denti dal freddo: il termometro cala fino a zero gradi. Vorrei diminuire la quota, ma ci sono troppe nubi e compatte. Meglio salire: raggiungiamo i 4000 metri.
A quest'altezza passano sotto di noi città e paesi: alle 18.47 il banco di nubi finisce e avvistiamo l'Hudson, il grande corso d'acqua che ci condurrà a New York. Da Malden, dopo aver lasciata, sulla sinistra, Albany, la nostra rotta punta decisamente verso il sud come se corressimo sull'invisibile meridiano di New York. Alle 19.20 si profila all'orizzonte l'immenso delta dell'Hudson, sulla sua sinistra l'East River, e in mezzo, tra l'uno e l'altro, la lunga penisola di Manhattan, l'isola di Brooklin e l'arcipelago che fa da frangente all'oceano. Una bianca caligine vela la distesa immensa della metropoli. Intorno a noi già volano molti apparecchi di case cinematografiche americane. Dobbiamo sorvegliarli di continuo. Mando alla squadra l'ordine di serrare la formazione. Gradualmente discendiamo dal cielo: l'aria si fa piú calda: sotto di noi sono le prime case di Bronx, i tentacoli della città che dànno l'assalto alla zona ancor vergine della campagna.
In formazione serrata passiamo sul Washington Bridge che unisce New York a New Yersey, un ponte sospeso ad un arco solo di stupenda leggerezza ed eleganza. Sempre piú pericolosi e insistenti le flottiglie aeree mobilitate dalle case cinematografiche. Il mio apparecchio è preso particolarmente di mira.
Ma ormai procediamo verso il cuore della città. Accostiamo la sponda sinistra dell'Hudson. I colossi di cemento e di ferro dei grattacieli ci vengono incontro con tutta l'imponenza della loro mole. Pare che noi compiamo davanti ad essi una fantastica parata. Ve n'è un gruppo sulla riva del fiume: un altro si profila a zigzag paurosi, nel cuore stesso della città: l'ultimo ingombra la punta di Manhattan e svanisce in un cielo dorato dai riflessi di un debole sole, come una visione di sogno. Ora ci inerpichiamo tra un gruppo e l'altro di questi giganti mostruosi che spalancano verso di noi la miriade delle proprie bocche, puntano l'aguzzo stelo della loro piramide contro le nuvole come per prenderci in agguato, ci offrono la piattaforma bianca dei loro coni mozzi, sulla vertigine delle terrazze. Ognuno ha la sua sagoma: l'Empire State, il piú alto di tutti, è una gran torre quadrata, che termina in una cuspide metallica dal lungo ago sottile: tocca i 400 metri; il Rockefeller è lungo e stretto, come un immenso rettangolo cubico: come una vegetazione di pietra cresce sul suo tetto un altro gruppo di piani e terrazze, piccolo grattacielo sul grattacielo maggiore; il Krysler rassomiglia a un potente campanile di vecchia capitale gotica; il Mackay ha un tono rosa pallido e l'aspetto di piramide egiziana snellita e allungata... Ma chi può contarli? La nostra fantasia un poco rievoca le grandi metropoli dell'antica Babilonia, un poco risuscita le città turrite dell'alto medioevo. Ma qui è qualche cosa di diverso: è l'espressione di una civiltà che raggiunge l'apice dell'orgoglio: è una specie di grido di vittoria che si traduce in pietra: un simbolo di conquista.
Tagliamo di sghimbescio la prima selva di case, percorriamo il lungo parco verdissimo, che mette al centro della città un'oasi di fresco e di pace. Si apre sotto di noi, come un'incisione profonda dal nord al sud, la grande arteria il cui nome vola nel mondo: Broadway: quaranta chilometri di lunghezza. La sorvoliamo da un capo all'altro, sin dove, presso la punta piú esile di Manhattan, si adunano altri grattacieli giganti, e le acque dei due fiumi si confondono. Ecco i moli innumerevoli del porto, specie di dentatura che Manhattan protende sull'Hudson e sull'East River. Una fungaia di ciminiere: tra albero ed albero, su per le sartie, tirati da poppa a prua sventolano al sole i gran pavesi: i marinai sono sulle tolde, piccoli puntini neri riuniti in masse compatte. La nave piú grande, dai fianchi maestosi, tutta bianca in alto e tutta nera nella parte inferiore, è il Rex. Noi lo riconosciamo, alle proporzioni, alla potenza, all'eleganza. Il tricolore dei nostri timoni, mentre scendiamo a piú bassa quota, sembra anelare a congiungersi col tricolore immenso che sventola dalla poppa del Rex: grappoli di uomini si inerpicano su per gli alberi dalla nave: la sirena spinge in alto il pennacchio di vapore, con una violenza che ci fa indovinare l'urlo lacerante del saluto.
Tutte le navi urlano contemporaneamente: si uniscono al coro delle fabbriche, degli opifici, delle case di commercio: da ogni finestra si agitano braccia. La gente è salita sugli ultimi comignoli, dove uno sguardo in basso può dar la vertigine. Bandiere e orifiamme immense sventolano in cima agli alti pennoni dei tetti, formano macchie di vivi colori sopra altre adunate acrobatiche di folla in delirio. Nelle piazze e nelle vie sottostanti, già invase dalle ombre lunghe del sole declinante, la circolazione è immobilizzata: tutti guardano verso il cielo su cui passa il rombo trionfale dei nostri motori.
Ecco in mezzo al grande spiazzo verde della marina interna di New York, tra Manhattan, New Jersey e Brooklyn, la colossale statua della Libertà che alza verso l'oceano la fiaccola di bronzo: e poi nella baia la triste isola del Governatore, che serví tante volte di quarantena ai nostri emigranti, l'isola di Ellis, e piú avanti la piú grossa e collinosa Island verso la quale arrancano i tozzi rimorchiatori.
Noi puntiamo su Brooklyn sorvolando lo storico ponte su cui tanta storia è passata, percorriamo in volo tutta la distesa delle case piatte distribuite fra i rettangoli delle strade a scacchiera. L'idroscalo di Floyd Bennet sta sull'estrema punta di Coney Island, che come un fungo corona il rombo allungato di Brooklyn. Una contrada lunghissima taglia in due il borgo di Flatbush. Qui incominciano gli immensi parchi di automobili che si sono raggruppate a migliaia e migliaia, sfruttando tutti gli spazi scoperti, dopo avere trasportato dai quartieri della metropoli le ondate di popolo che ci saluterà all'arrivo. Ciò che abbiamo visto a Chicago si rinnova in quello che ci attende a New York. I 24 sparvieri d'argento, come qui li chiamano, stampano un'ombra fuggente sulla moltitudine che già ci appare assiepata intorno all'idroscalo, nei campi grandissimi su cui le case ancora non sono cresciute, presso la riva bassa della laguna verdastra della Jamaica bay. Ecco davanti a noi, sul cielo, il grande dirigibile Macon, tutto d'argento, il maggiore del mondo, col suo muso di pesce appuntito e la sua coda a pinna. Intorno sono cento aeroplani americani, dai piccolissimi da turismo agli apparecchi giganti, fino all'autogiro, che rimorchia un lungo nastro colla solita frase di saluto e frulla quasi immobile le sue pale. Altri due dirigibili spuntano dalla parte opposta: specie di balenotteri appena nati, in confronto del Macon, cetaceo volante.
Compiamo le ultime evoluzioni su quell'adunata di uomini e macchine che supera ogni immaginazione: tutta la squadra sfila a bassa quota sulle acque che il fondo colora di tutta la gamma dell'iride: passiamo ancora una volta su quei milioni di teste volte in alto, come a raccogliere e a trasportare con noi lo spirito che sale dai cuori nell'impeto dell'entusiasmo e della simpatia: poi, mentre le altre squadriglie continuano lente il carosello aereo, in attesa del loro turno, la mia arriva sull'acqua, la sfiora, vi si adagia mollemente.
Sono le 20 in punto di Greenwich.
Incominciano qui — dallo sbarco sul pontile dell'idroscalo — le giornate di New York, che nessuna potenza di rievocazione potrà mai rendere nella loro grandezza.
Ho davanti agli occhi, avvicinandomi alla enorme massa scura, che urge contro l'alta rete dell'idroscalo, la prima impressione visiva d'un incontro, nuovo alla mia esperienza, che pure non è breve né piccola: l'incontro con la folla. Sí, ho assistito a grandi adunate in Italia e all'estero. So che cosa significa l'esplosione dell'anima popolare quando — ex plurimis unus — dalla infinitesima unità umana perduta nell'ammassamento di altre migliaia e migliaia, si forma una specie di mostruosa unità collettiva, che ha la potenza del fiume che straripa: so la travolgente suggestione, il fascino irresistibile, l'attrazione quasi morbosa di una massa umana sul singolo, che sente le sue interne resistenze piegare, la sua autonomia individuale smarrirsi, la sua volontà flettersi e confondersi con la volontà dei piú, la polvere di ferro attratta dalla calamita, destinata fatalmente a far tutto un corpo con lei. La simpatia, come l'odio, della folla, ha una forza di fusione che non ha uguali. Affinità profonde, tra uomo e uomo, che sono alla base delle anime e svelano la loro misteriosa, lontana, unica, scaturigine che dimostrano in sostanza l'inscindibile unità della vita. Regno inviolato e inviolabile.
Ma noi non abbiamo né in Italia né in Europa, città che contino sette milioni di persone, con mezzi cosí agevoli e numerosi di comunicazione e di spostamento per intiere masse di popolo da un punto all'altro: né vi è esempio di cosí ampie strade larghe cento metri e lunghe quaranta chilometri: né infine vi è ancora un gusto cosí spiccato, anzi una specie di mania, per i meetings colossali.
L'America passa per il paese del piú sfrenato individualismo: quale errore! L'individuo, in città come a New York, naufraga nella massa: vive, opera, soffre, gioisce nella collettività: ha bisogno continuo, imperioso, inderogabile, di controllarsi e misurarsi e giudicarsi, sul pensiero, il sentimento e la volontà dei molti. Nasce una specie di mimetismo sociale. Ma quale potenza in questa solidarietà di forze molteplici, che fluiscono tutte verso lo stesso fine! Cosí si spiegano, sia la rapidità, sia la imponenza, dello slancio americano nel mondo. In poco piú di cinquant'anni questo popolo di eterni fanciulli ha creato un impero. Sarà soprattutto una civiltà meccanica: avrà in sé qualche cosa di automatico: non potrà nascondere certa brutalità primitiva nelle sue manifestazioni, come è proprio di tutte le creazioni che la coscienza individuale e l'opera lunga del tempo non hanno elaborato: ma essa si è imposta ad intieri continenti, e stava — e sta — per diventare un costume.
Non vi è dubbio che il grandioso fenomeno è dovuto alla psicologia solidarista del popolo americano. La massa, appunto perché elementare e primitiva, mantiene una freschezza, uno slancio e — diciamolo pure —una fede, intangibili alle sottili corrosioni dello scetticismo. La massa ha bisogno di credere. Ha bisogno di vivere nel fuoco di un'idea, di esaltare ed esaltarsi. Si dice che un americano, costretto a fare qualche cosa di diverso dal suo simile, è come un bambino di cinque anni, che perde la mano della mamma nella folla. Forse è vero. Ma nella affermazione caricaturale — dovuta, naturalmente, a un francese, a Claudel o a Duhamel o a... — non può e non deve essere implicito un giudizio dispregiativo. L'umanità va sempre piú orientandosi verso forme di vita collettiva: ritorna, per cosí dire, alle origini, quando i grandi spostamenti di idee, che costituiscono le direttrici di marcia della civiltà, sono elaborazioni di popoli intieri, interpretati e giudicati da un capo potente.
Ma il discorso mi porterebbe lontano dall'America e troppo vicino, forse, a casa nostra: per esempio, le rivoluzioni del dopoguerra, il fascismo, il Duce.
Qui occorre riprendere il filo del racconto, non senza notare che le impressioni di folla, nelle adunate di cui sono stato protagonista e testimonio a Chicago come a New York, hanno lasciato in me qualche cosa di piú profondo che non sia la pura immagine visiva.
Non appena lasciata la lancia militare e tolta di dosso la combinazione di volo (i fotografi non mancano di prendere anche questa scena), sopravvengono sullo stesso pontile le presentazioni delle personalità; il Comitato municipale delle accoglienze ai trasvolatori, autorità navali, militari, civili; ufficiali della marina, dell'aeronautica, dell'esercito, i connazionali piú cospicui della colonia italiana. Il Console generale d'Italia Crossardi, Generoso Pope e il tenente colonnello Infante, comandante della base, mi dicono nomi su nomi: visi energici di americani, potenti strette di mano, how do you do. Ecco mister Stone, vice presidente della «Mackay Radio», che ha messo a nostra disposizione i suoi impianti colossali telegrafici e telefonici, a cui attendono centonovantamila impiegati. Ecco giudici, senatori, ecclesiastici. Ecco perfino Carnera. Intorno a noi è un nugolo di cinematografisti e di fotografi.
Generoso Pope, in rappresentanza del Mayor di New York, mi dà il benvenuto. Rispondo ringraziando, lieto che la grande metropoli americana abbia compreso lo spirito e le finalità della Crociera, che serve alla causa del progresso e vuole essere una dimostrazione di simpatia dell'Italia verso l'America.
Tutti gli equipaggi, ora, dopo avere ormeggiati gli apparecchi, si sono radunati sul pontile.
Prendo posto nella prima automobile insieme col rappresentante della City: nelle cinquanta macchine che mi seguono, sono gli ufficiali dello stato maggiore della Crociera e tutti gli atlantici. Il corteo poi si allunga all'infinito e andrà continuamente crescendo per le altre centinaia e centinaia di automobili che sono radunate entro il recinto e per quelle che attendono fuori. Percorriamo per un paio di chilometri la bella strada che è stata costruita per l'occasione, dal Municipio di New York, dall'idroscalo all'aeroporto terrestre di Floyd Bennet Field, la cui pista in cemento ha servito da trampolino per i grandi voli transcontinentali; passiamo davanti ai colossali hangars; sostiamo un attimo innanzi alla palazzina del comando; la folla dietro la rete ci saluta freneticamente.
Quindi la squadra degli agenti in motocicletta, facendo squillare le potenti sirene, mi apre il varco non senza fatica, ai cancelli d'ingresso dell'aeroporto, e il corteo imbocca la strada lunghissima — diritta come un taglio di spada — che conduce dalla Jamaica bay fino al cuore di Brooklyn, e di qui sul ponte superbo, lanciato sull'East River, all'estrema punta di Manhattan. Per tutto il percorso, che in totale non è inferiore ai 20 km., è allineata una duplice ala di popolo delirante. Ma la dimostrazione cresce di intensità quando attraversiamo alcuni quartieri italiani di Brooklyn, e allorché, subito di là dal ponte, imbocchiamo la Canal Street, Malborough Street, La Fayette Street e la quarta Avenue, nella zona bassa di Manhattan, dove gli italiani abitano in masse compatte di centinaia di migliaia. Qui ogni casa è tappezzata di tricolori. Donne, vecchi, bambini si uniscono alla plaudente fiumana di popolo: il nome Italia è su tutte le bocche, palpita in aria come una gran fiamma. Con un nodo di commozione alla gola, io saluto e saluto...
Giungiamo alla Great Central, la stazione centrale di New York, che si attraversa in un sottopassaggio, infiliamo la bellissima Park Avenue, alberata, aiuolata, aristocratica, elegante. Siamo all'hotel Ambassador, dove sono fissati i nostri alloggi. La folla ha già invaso, naturalmente, gli atri, gli ascensori, i corridoi. Sembra impossibile entrare nel mio appartamento. Altro popolo sopraggiunge di corsa. Occorre non poca energia per congedare tutti, per sgombrare la stanza da letto e il bagno.
Non è possibile mettersi in comunicazione telefonica con il Duce perché qui sono quasi le 20 e in Italia già è passata la mezzanotte; gli invio allora un lungo rapporto telegrafico.
Alle 21 — in America non si perde tempo — ci rechiamo al pranzo offerto al «Columbia Yacht Club» dagli ufficiali dell'esercito e della marina residenti a New York: Army and Navy. Sono presenti una cinquantina di persone: quelle che hanno piú delle altre contribuito ad organizzare le festose accoglienze alla squadra atlantica. Regna durante il pranzo la piú vivace cordialità: i soldati americani sono insuperabili come camerati. Naturalmente i racconti del nostro volo fanno le spese della conversazione. O' Brien, sindaco di New York, un largo viso rubicondo e cordiale, di stampo irlandese, con baffetti bianchi sulle grosse labbra, osserva che in tempo di crisi ci vogliono nervi saldi e una bella salute per affrontare, nonostante la depressione generale, un'impresa oceanica. Si scherza sulla giovinezza degli atlantici. Il generale Nolan, che comanda le forze terrestri di New York, è un brillante causeur e un umorista: stuzzica il Sindaco (le elezioni son vicine) dicendo di stare in guardia: i partiti di opposizione repubblicana potrebbero proporre una candidatura Balbo, e O' Brien, democratico, sarebbe bell'e spacciato. Il contrammiraglio Stirling rincara la dose. Il sindaco si diverte. Il pranzo si svolge senza l'uggia dei soliti banchetti ufficiali.
Qui negli Stati Uniti interessano soprattutto le tappe del nord, là dove già gli americani hanno fissato i loro progetti per linee civili con l'Europa. A questo grande sogno, che non può tardare ad avverarsi, attende ora lo stesso Lindbergh.
Ricevo proprio stasera un suo telegramma da Cartwright, firmato anche dalla moglie: «Prego accettare nostre sincere congratulazioni per il vostro splendido volo. Voi avete dato un esempio di eccellente organizzazione perfettamente curata. Siamo spiacenti di non avervi potuto incontrare a Cartwright ma ci siamo molto rallegrati vedendo i vostri camerati ufficiali dell'Alice. Charles A. Lindbergh, Anne M. Lindbergh».
Rispondo subito: «Il saluto del piú fulgido eroe della terra d'America, trasvolatore dell'oceano in una impresa leggendaria, lusinga ed onora la squadra atlantica italiana la quale ringrazia commossa ed augura al colonnello Lindbergh ed alla sua intrepida compagna di aggiungere nuova gloria alla gloria».
Quando, a notte inoltrata, ci ritiriamo in albergo, ancora una folla densa staziona davanti alla porta.
La mattina seguente, 20 luglio, partiamo in volo per Washington dove ci attende il Presidente Roosevelt.
I festeggiamenti newyorkesi avranno domani, venerdí 21, la loro unica grandiosa giornata. Abbiamo ottenuto qui un miracolo ancor maggiore che a Chicago: il programma di una settimana è condensato in 24 ore. Eseguo, come sempre, con scrupolo l'ordine del Duce: «Massima disciplina in aria, minima dispersione di energie a terra...»
Non tutti gli ufficiali vengono con me a Washington. Una parte di essi deve attendere agli apparecchi che sono accuratamente esaminati per l'imminente ritorno in Patria. Il lavoro è incominciato stamattina stessa. Presenterò a Roosevelt una ventina di atlantici.
È un divertimento correre per New York, dove la ordinaria circolazione è lentissima, a velocità pazza, preceduti dagli agenti che bloccano ogni veicolo o pedone con le sirene. Il percorso di un'ora si fa in dieci minuti.
Al campo mi attende un apparecchio anfibio della marina degli Stati Uniti, un tipo nuovo che m'interessa molto. È l'aeroplano da viaggio di Roosevelt. Segue un piccolo convoglio aereo di altri apparecchi sui quali hanno preso posto ufficiali miei, accompagnati da piloti dell'aviazione americana. Durante il volo, dormo profondamente. Il viaggio si svolge in buone condizioni, sul territorio del New Jersey e del Mariland, passando sopra Filadelfia e Baltimora. Da Bollingfield, campo d'aviazione della capitale, dove siamo alle 10.30, accolti dai ministri militari e da gran folla, ci rechiamo all'albergo.
All'una parto per la Casa Bianca, insieme con l'ambasciatore, con l'addetto aeronautico e con i miei ufficiali. Sono accolto al suono della Marcia Reale e di «Giovinezza». Per i viali del giardino della classica residenza del Presidente degli Stati Uniti, è una gran folla che acclama con entusiastiche ovazioni gli atlantici.
Il Presidente attende nel salone di onore, dove mi viene incontro stringendomi la mano e dicendosi lieto di avere suoi ospiti i valorosi aviatori che hanno attraversato l'Atlantico. Saluta quindi e stringe l...

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