Stoccolma, 19 agosto 1970
Scrivo queste righe in un caffè a due passi dall’università. Una mezz’ora fa mi ferma nella sala un giovane, bruno, basso, con gli occhiali e sottobraccio una borsa che pare lì lì per scoppiare. Accanto a lui, una ragazza – uno di quei volti che si dimenticano subito. È Franklin Pease, direttore del Museo nazionale di storia di Lima e professore di storia andina all’Università pontificia – e la ragazza che lo accompagna lo aiuta a capirsi con chi non sa lo spagnolo. Ricordo che circa due mesi fa lui e il presidente del Congresso internazionale di americanistica mi hanno scritto invitandomi a parteciparvi. E siccome non sono potuto andare a Lima, è venuto lui a Stoccolma per incontrarmi.
Parliamo tutti e tre spediti, ognuno nella lingua che più gli viene facile. Il dott. Pease tira fuori dalla sua cartella libri su libri, brochure su brochure, fascicoli di riviste della provincia peruviana, pubblicazioni sue, ma anche di altri: ad esempio, La Sal de los cerros, che mi manda con admiración Stefano Varese. Sono commosso. Le braccia cariche di tutte queste pubblicazioni, lo ascolto. Capisco, o meglio intuisco, che doveva assolutamente incontrarmi dopo che gli avevo scritto di stare lavorando alla seconda parte del mio studio sui «South American High Gods». Ha immaginato, con ragione, che molti dei testi di cui mi ha fatto dono non sarebbero stati reperibili a Chicago, e forse in nessun altro posto che nelle biblioteche del Perù. Mi confessa come il Traité1, Le Mythe de l’éternel retour2 e alcuni altri miei libri lo abbiano aiutato a comprendere la concezione cosmico-religiosa andina.
Vorrebbe che restassimo a parlare con calma del simbolismo della città di Cuzco, vero «Centro del Mondo» (era d’altronde chiamata «ombelico della Terra»). Spazio sacro per eccellenza, è lì che hanno avuto luogo le rivelazioni primordiali, è lì che la popolazione ha imparato a coltivare la terra e a nutrirsi «da uomini» (e non da «bestie selvagge» come aveva fatto sino ad allora). La costruzione di Cuzco equivale a una creazione del mondo. Del resto, ogni nuova costruzione urbana viene edificata in conformità al piano esemplare applicato per la prima volta a Cuzco dal mitico Manco Cápac.
Molte di queste cose mi erano note. Ed è probabile che Franklin Pease ne abbia intuito la portata proprio perché, leggendo il Traité e Le Mythe de l’éternel retour, ha scoperto la funzione del simbolismo cosmologico e l’importanza della nozione di «Centro del Mondo». Ma il giovane americanista vuole che ci intratteniamo sulla Nueva Crónica y Buen Gobierno di Felipe Guamán Poma de Ayala, di cui ha pubblicato una scelta in un volumetto di un centinaio di pagine, che mi offre pregandomi insistentemente di leggerlo. Perché, aggiunge Pease, secondo la concezione cosmologica andina, l’universo è stato creato e distrutto quattro volte, e a ogni distruzione è seguito un periodo la cui durata è pari a quella del caos primordiale. Ma gli autori di cronache spagnole lasciano talvolta intendere che si tratterebbe di cinque fasi, perché distinguono l’ultima, la quarta, quella della creazione dell’Universo, dall’epoca immediatamente successiva, inaugurata dagli Incas. Di questo avviso, ad esempio, è Guamán Poma, che tenta un’interpretazione biblica della cosmo-mitologia andina (parla, tra l’altro, dell’«innocenza originaria»). Pease insiste: mi sarebbe possibile leggere la Nueva Crónica in questi giorni per poterne poi discutere?
Uppsala, 20 agosto
Un’antica chiesetta, la prima costruita in tutta la regione. L’avevo già visitata nel novembre del ’57, in compagnia di Stig Wikander3. Le tombe, lì nel cortile della chiesa, erano anche allora altrettanto curate, adorne di fiori, nonostante fossimo alla fine dell’autunno.
E di nuovo il rammarico di non avere annotato niente nel mio Diario durante queste due settimane passate a Uppsala. Ma quante cose mi ricordo ancora! Gli stormi di corvi che, specialmente dopo il tramonto, volteggiavano compatti attorno al campanile. Stig mi aveva trovato una camera in una pensione proprio lì di fronte. La stanza mi piaceva in particolar modo perché potevo seguire il volo instancabile dei corvi e udire il loro gracchiare.
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Pranziamo in una delle famose «case dello studente», che suscitano l’invidia di tutti gli studenti europei. Ma in quale altra città del mondo – così come ci rammentava, con orgoglio, la nostra guida sul pullman – gli studenti costituiscono la maggioranza della popolazione?
Poi, visita della cattedrale. Lascio Christinel con Alice e Chuck Long4 e me ne vado a fare due passi da solo, cercando di raccogliere le idee. Widengren5 mi ha pregato di dire alcune parole durante il ricevimento all’Università, in risposta al discorso di benvenuto del Rettore. Parlerò a titolo personale, come colui che ha tenuto dei corsi a Uppsala. Mentre passeggiavo per il parco, fermandomi di tanto in tanto davanti alle pietre coperte di iscrizioni runiche, cercando di tenere a bada il flusso dei ricordi, e dopo mentre mi riposavo su una delle panchine accanto alla cattedrale, in pieno sole, affascinato da questo inverosimile cielo azzurro, sgombro di nubi, mi sono reso conto una volta di più di come io non sia fatto per «discorsi» del genere. Quando non si tratta più di comunicare idee, fatti o metodi non possiedo il benché minimo talento.
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Ritornando dal caffè incontro Franklin Pease. La ragazza che lo accompagna ci scatta delle foto, sul marciapiede, non lontano dalla cattedrale: lui, in mano la borsa stracolma di libri, e io, col soprabito sul braccio, mentre sorrido imbarazzato perché, come gli dicevo, non mi ero ancora messo a leggere la Nueva Crónica, e mi scusavo egualmente di non avere tempo di soffermarmi a parlare con lui perché dovevo incontrare Widengren.
Riprendo la mia passeggiata nel parco. Decido di dare al mio «discorso» un tono ameno. Avrei iniziato così: Et in Arcadia ego! ricordando le lezioni che ho tenuto in questa università nel 1957; poi avrei parlato di Uppsala come di haut lieu degli studi di storia delle religioni, aggiungendo che un simile haut lieu è sempre legato a un culto e a una mitologia. Avrei quindi parlato del «culto degli antenati mitici» della Storia delle religioni – da Max Müller a Nathan Söderblom – e soprattutto delle loro rispettive «mitologie». Avrei ricordato certi «miti uppsaliani» di cui avevo sentito parlare nella mia giovinezza, ad esempio questo: nel vagone in cui viaggiava Nyberg in Asia Minore, verso il 1920, si trovavano stranieri di ogni nazionalità e vi si parlavano non so quante lingue. E il grande orientalista, che non si era presentato e che nessuno conosceva, le parlava tutte, dal persiano all’arabo, all’urdu al cipriota e al turco. Finché uno dei presenti gli disse: «Si vous n’êtes pas le diable, vous êtes certainement le professeur Nyberg!»6.
Avrei anche ricordato quel che mi raccontava una volta Wikander: Widengren, grande specialista di lingue semitiche, e non meno grande iranista, si era messo a imparare il sanscrito. Un bel giorno si lamenta con Wikander: «Sono due settimane che studio eppure ci sono testi che ancora non comprendo!».
E quanti altri «miti» concernenti la vita accademica di Uppsala! Ad esempio, i corvi che volteggiano attorno al campanile: sono le anime di coloro che, a cinquant’anni suonati, non hanno ancora conseguito il loro dottorato e che adesso sono inseguiti e perseguitati dai loro professori. Ma esiterei a menzionare ciò che mi è stato riferito da qualcuno, molto tempo fa, durante non so più quale congresso: che Uppsala è il solo posto al mondo dove si è mantenuta intatta la tradizione del sacrificio umano, e questo dall’epoca pre-cristiana (san Erik fu martirizzato qui nel 1160) fino ai giorni nostri, dove il sacrificio umano si pratica solo nelle cerchie accademiche. Avrei concluso esprimendo il desiderio e la speranza che tali mitologie non vengano mai smitizzate…
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… E tuttavia non ho parlato che pochissimo di tutto quello che mi ero riproposto di dire. Alle cinque eravamo tutti riuniti nella prima sala del Rettorato, dove il Rettore ha pronunciato alcune parole, insistendo sullo spirito di tolleranza e di universalismo che governano oggi la nostra disciplina. Poi Widengren fa il mio nome. Per potere essere visto e sentito da tutti, sono obbligato a salire su una sedia. Parlo in francese, perché tutti gli interventi precedenti sono stati in tedesco e inglese. Ma per tutto il tempo ho avuto paura di cadere, e con la mano destra mi sono tenuto appoggiato al muro…
Stoccolma, 21 agosto
Dopo il nostro ritorno a Uppsala, ieri sera siamo andati da Hultkrantz7. Abita abbastanza lontano, fuori Stoccolma. Malgrado la stanchezza, non abbiamo rimpianto di aver accettato l’invito. Gli svedesi non sono troppo abituati a invitare stranieri a casa loro. I Parinder e Andrejs Johansons sono arrivati poco dopo di noi. Il ben noto cerimoniale di una «serata svedese»: all’inizio caffè e dolcetti, poi superalcolici.
Tra le altre cose, discussione animata su Strindberg. Senza sapere perché, mi sono ritrovato a fare una requisitoria contro i critici letterari svedesi: a tutt’oggi non esiste un’edizione critica completa della sua opera; non fanno che uscire libri, ma quasi tutti attinenti alla vita dello scrittore, alla sua famiglia e ai suoi amici; pochissimi gli studi sul valore artistico delle creazioni strindberghiane. Ho confessato di avere l’impressione che nemmeno adesso i critici letterari svedesi abbiano perdonato Strindberg. Non gli hanno perdonato d’essere stato ciò che è stato, di aver osato tanto, e in tanti ambiti. Evidentemente, la sua poliedricità e tutte le sue stravaganti incursioni in materia di occultismo, di alchimia e di misticismo infastidiscono e turbano. In fondo, chi può vantarsi di aver letto e compreso tutta la produzione non letteraria di Strindberg?
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Leggo, qua e là, a caso, la Nueva Crónica y Buen Gobierno. Pease aveva ragione: malgrado l’aridità e la difficoltà del testo, questo Guamán Poma de Ayala, nato verso il 1585, discendente dell’aristocrazia inca (sua madre era la figlia di Túpac Inca Yupanqui), divenuto alto funzionario ecclesiastico (ausiliario di Cristóbal de Albornoz, «estirpatore di idolatri»), ci ha lasciato il documento forse più interessante sulla religione andina. Quanto ci sarebbe da dire sui suoi sforzi per comprendere il mondo da buon cristiano e per scrivere in spagnolo, pur rimanendo un Inca autentico, ma anche per riuscire a trasmetterci la «versione dei vinti» quando è toccato a lui dire la sua sul dramma della colonizzazione. La sua stessa presentazione della mitologia e della cosmologia andine nella prospettiva della teologia cattolica tradisce la speranza di Guamán in una futura sintesi spirituale ibero-americana.
Ma la discussione di tali problemi è fuori luogo in questo quaderno. Vorrei solamente annotare alcune peculiari...