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Cambiare è possibile, anche in carcere

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Cambiare è possibile, anche in carcere

About this book

Più di venticinque anni trascorsi in carcere, per libera scelta, per incontrare le persone detenute in qualità di volontario della Comunità di Sant'Egidio.
In prigione, per eccellenza luogo di emarginazione, la visita rompe l'isolamento e questo è un grande dono. Chi è detenuto, anche chi ha commesso gravi reati – fa intuire con delicatezza l'Autore – non vuole che la sua vita si esaurisca con il suo reato, ma chiede di essere ascoltato.
In questo libro vengono descritte con profondità le giornate nelle carceri italiane, si smontano alcuni luoghi comuni, ci si imbatte in tante piccole e grandi contraddizioni, ci si appassiona a vicende che paiono quasi incredibili. La vita, le difficoltà, le speranze, la violenza, le delusioni, la rabbia, la gioia che queste vicende esprimono, mostrano quanta umanità sia racchiusa dietro gli spessi muri di una prigione.
"Il carcere è uno specchio. Racconta come siamo. È un sensore di civiltà. È un microcosmo, deformato, della nostra vita. Tutto è terribilmente umano, ma anche estremo. Come il rumore, assordante, permanente. Il contrario di quello che chi non vi è mai entrato potrebbe immaginare: nel rumore l'inattività, che spesso non aiuta a riflettere, ma addormenta quello che servirebbe per cambiare". (Mario Marazziti)

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​L’uomo che aspetta il “delfino”

L’ottava sezione

Oggi nello scorrere il preliminare esame delle domandine, la mia attenzione viene attirata subito da una richiesta che arriva da Petru, un romeno rinchiuso nella sezione speciale di isolamento.
Come in molti carceri, anche a Regina Coeli esiste una sezione del genere, denominata anche precauzionale. È un’area nella quale vengono isolati coloro che, se stessero in contatto con altri detenuti, rischierebbero per la loro incolumità e potrebbero essere oggetto di gravi episodi di violenza.
In questa sezione speciale vengono ristretti coloro che sono accusati di reati giudicati particolarmente infamanti dagli altri detenuti. Ci si ritrovano gli imputati di violenza sessuale, di pedofilia, i sexual offender, ma anche i pentiti o coloro che hanno contribuito con le loro confessioni a far arrestare qualcuno, i cosiddetti “cantanti”. Tutti quelli che, insomma, sono ritenuti “infami” dalla popolazione carceraria. Tra loro vanno anche annoverati gli ex rappresentanti delle forze dell’ordine detenuti, indipendentemente dal tipo di imputazione di cui sono accusati. E così, in ottava, al primo piano ci sono tutti coloro che un tempo erano ufficiali di pubblica sicurezza e, negli altri piani, i reclusi per gli altri reati.

A differenza di quanto succede a Rebibbia, dove c’è una sezione a loro destinata, in ottava si possono trovare anche degli omosessuali e dei “trans”. Vengono isolati per la loro particolare situazione: anagraficamente sono uomini, ma non possono stare in cella con detenuti di sesso maschile e pertanto vengono messi in isolamento.
In questa sezione di Regina Coeli le condizioni di detenzione sono particolarmente difficili: se un detenuto è povero e non riceve risorse dall’esterno, è esposto a un isolamento più duro che in qualsiasi altro braccio del carcere. Infatti, per “gli infami” si riducono notevolmente quei circuiti interni di solidarietà tra detenuti che normalmente si attivano nelle altre sezioni e che permettono di sopravvivere a tanti che sono privi di tutto.
Più volte ho constatato situazioni di estrema indigenza tra i detenuti di questa sezione. Inoltre, per loro sono interdette anche quelle poche attività che si svolgono negli spazi comuni della struttura carceraria.
Sia il cappellano che la direzione del carcere preferiscono che in questa sezione abbiano accesso solo volontari “collaudati”, categoria alla quale ormai appartengo. Solo dopo alcuni anni di servizio a Regina Coeli, una volta diventato conosciuto e apprezzato, ho potuto accedere a questa sezione. Forse è proprio per questo che la richiesta di Petru è stata lasciata nella mia cartella.
Sono consapevole di dover usare un’attenzione particolare e una certa cautela alle richieste di colloquio che mi giungono da questo settore.
Il nome Petru non mi dice nulla. Non lo conosco e non ho neanche mai sentito parlare di lui.
Do un’occhiata all’orologio e decido di iniziare il mio giro a Regina Colei proprio dalla sezione speciale. Consegno la domandina all’agente di turno e mi metto sulla porta della cella-ufficio ad aspettare.
Riesco a vedere le celle al pian terreno, intravedo detenuti sdraiati sul letto, altri che mi guardano attraverso lo spioncino, uno che cerca di affacciarsi ma il buco quadrato dello spioncino è più piccolo della testa e per questo è costretto a guardarmi di sbieco. In altre sezioni ho visto talvolta alcuni detenuti che, usando un piccolo specchio come un periscopio, riescono a vedere tutto il corridoio. Mi scrutano con attenzione e curiosità; sono pochi i volontari che entrano in questa sezione.
Uno di loro, nella cella più vicina alla porta d’ingresso del corridoio, mi chiama per sapere chi sono: “ Ahò, chi sei? Lo psicologo? L’assistente sociale? L’educatore?”. Interrompo il suo lungo elenco per dirgli che sono un volontario della Comunità di Sant’Egidio.
“Sant’Egidio?”, ripete quasi per essere sicuro di aver capito bene; poi, senza che io gli ponga alcuna domanda, urla verso di me: “Io non devo stare qui! Mi hanno appoggiato in questa cella al pian terreno perché le altre sezioni sono piene!”. Vuole, con quest’affermazione, differenziarsi dagli altri detenuti e togliersi subito lo stigma che questa sezione inevitabilmente imprime a tutti i “residenti”.
Mi avvicino alla sua cella e gli suggerisco di fare una richiesta di colloquio; lo rassicuro che qualcuno lo verrà a trovare. Ma è meglio che mi allontani subito: in genere gli agenti non gradiscono che si giri per il corridoio parlando con i detenuti dallo spioncino.
Torno alla mia postazione e vedo arrivare Petru. Lo saluto cordialmente e lo invito a sedersi. È un uomo di media statura, ha lineamenti delicati, il viso mite, capelli e occhi chiari, barba rada e molto lunga. Mi ricorda vagamente i volti spirituali raffigurati nelle icone russe. Iniziamo a parlare e mi racconta la sua vicenda.
Petru in effetti è un diacono della Chiesa ortodossa romena. Inizio a capire che l’associazione del suo viso a quelli delle icone è azzeccata; forse è anche una somiglianza da lui ricercata. Da giovane, proprio a causa della sua attività religiosa, è stato perseguitato e infine arrestato dal governo del dittatore romeno (1967-1989) Nicolae Ceausescu. Ha conosciuto un carcere duro e ingiusto. Una volta rilasciato, non può far altro che seguire la strada di tanti che emigrano nei Paesi ricchi dell’Europa, per praticare liberamente la sua fede e migliorare la sua condizione economica.
Nel 2008 arriva a Roma e inizia a lavorare nell’edilizia; poco dopo lo raggiungono la moglie e le sue tre amatissime figlie. Sembra che tutto vada nel migliore dei modi: casa, lavoro per lui e per la moglie, le bambine inserite nella scuola italiana. Tutto in effetti va bene fintanto che la moglie non allaccia una relazione con un italiano, un agente di polizia.
Quando scopre il tradimento della moglie, Petru vive un profondo dolore per la rovina che colpisce la sua famiglia, che è la cosa a cui tiene di più. Fa qualche tentativo per recuperare un rapporto normale con la moglie ma senza alcun successo. Decide quindi che la sua avventura in Italia può anche terminare. Vorrebbe lasciare la moglie qui e ritornare in Romania con le figlie, ma lei, non volendo perdere le bambine, architetta un’accusa di violenza sessuale da parte del marito, che viene arrestato, processato e condannato.
Petru vive un difficile travaglio e cerca in tutti i modi di dimostrare la sua innocenza. Le accuse sono state confezionate molto bene e non riesce a trovare la prova che smonti il castello di incriminazioni, costruito ad arte dalla donna.
La ferita maggiore per Petru, oltre al tradimento della moglie, è la sospensione della patria potestà, che gli vieta di avere qualsiasi tipo di contatto con le sue adorate bambine.
Passa gran parte della giornata in cella pregando e scrivendo memoriali. È in cerca di contatti con l’esterno; ha sentito parlare di me da altri detenuti e quindi mi ha scritto la domandina per richiedere un colloquio.
Tra noi si instaura quasi subito un rapporto singolare, fondato su una profonda sintonia. È molto grato della visita e della possibilità di incontrarci per il futuro. La sua sensibilità religiosa gli fa capire in modo immediato e con più profondità il senso del nostro servizio in carcere per incontrare i detenuti. Nonostante tutti i tentativi fatti, anche a causa di avvocati che non lo hanno saputo difendere adeguatamente, ma anche di errori commessi da lui nel rapporto con i suoi legali, arriva l’ultimo grado di giudizio, purtroppo con la conferma della condanna a sei anni di detenzione per violenza sessuale.

Per i primi due anni lo vado a trovare con regolarità. Nel dicembre del 2012 la pena diviene definitiva e viene trasferito nel carcere di Viterbo, dove riesco visitarlo con minore frequenza; sono allora le lettere che riempiono gli spazi tra un incontro e l’altro. Ricordo come fosse ora quando, nella visita di luglio 2013, lui che non aveva niente da darmi, mi accoglie con un regalo preziosissimo: venticinque pagine di quaderno scritte fitte fitte, nelle quali racconta la storia della nostra amicizia. La scrive come se la raccontasse a un vecchio amico, Daniele. Il titolo della sua opera: Il mio delfino.
Ricevo questo regalo, ma non sono ancora consapevole di cosa significhi e del contenuto di tutte quelle pagine scritte in un periodo difficilissimo della sua lunga detenzione. È un testo piuttosto esteso, il frutto dei cinque mesi di isolamento a cui è stato sottoposto, quando da Regina Coeli è stato trasferito al carcere di Viterbo . È rimasto praticamente sempre chiuso in cella, senza usufruire neanche dell’ora d’aria, pur non essendo oggetto di alcun provvedimento disciplinare. Gli hanno giustificato questo regime con l’unica motivazione che, non avendo più posto nel braccio, lo hanno appoggiato nelle celle di punizione.
Sono pagine che esprimono molto bene il senso di desolazione vissuto da quest’uomo, che si sente accusato ingiustamente, a cui sta franando addosso tutta la vita, costruita con sacrificio e dedizione alla famiglia. È solo, straniero in un Paese che poco conosce, senza l’appoggio di nessuno, con la moglie che lo ha tradito e lo ha fatto condannare al carcere. Non può contare sui parenti lontani, né su alcun amico. I suoi sono tutti in Romania e in Italia non ha avuto il tempo di farsene di nuovi . Vorrebbe difendersi ma non sa da dove partire e i suoi avvocati non riescono a mettere in piedi una linea difensiva convincente. Si sente schiacciato da un sistema troppo grande per un piccolo uomo come lui. È in questo stato d’animo che Petru colloca nel racconto l’incontro con me che avviene quando, su consiglio di un altro detenuto che ho seguito per tanto tempo, un giovane filippino, si decide a fare la domandina per incontrarmi.
La sua è una cronaca abbastanza puntuale delle fasi del nostro lungo rapporto, nella quale non nasconde l’iniziale sua diffidenza: credeva che anch’io fossi inaffidabile, come tante persone con le quali dall’inizio di quella sua tragica esperienza era venuto in contatto. Temeva che, come altri avevano fatto, promettessi di aiutarlo senza poi saper mantenere gli impegni. Ma pian piano a convincerlo della mia sincerità, e soprattutto della mia affidabilità, era stato proprio il fatto di avergli spiegato con estrema chiarezza fin dall’inizio che lo sarei andato a trovare ancora dopo quel nostro primo colloquio, non tanto perché potevo risolvere chissà quali problemi, anche se avrei cercato certo di fare tutto quello che potevo per aiutarlo, ma soprattutto perché volevo essere suo amico. Insomma, si era sentito trattato come un uomo, come una persona.
Pian piano descrive come è effettivamente cresciuta tra noi la fiducia e l’intimità. Quando ho letto queste sue pagine, da una parte sono stato contento – e non poteva essere altrimenti – per l’apprezzamento e l’amicizia espressi nei miei confronti; ma, al tempo stesso, mi sono imbarazzato e intimorito. Ho capito quanto contino le mie parole, anche al di là della mia consapevolezza. Possono fare una grande differenza in una vita senza, o quasi senza, relazioni. Mi ha colpito, ad esempio, quando descrive l’impatto dirompente di alcune mie parole sul modo di pensarsi e di affrontare i suoi problemi. E qui penso che le sue parole possano essere più efficaci delle mie:
“Ricordo che io gli raccontavo, senza volerlo, dettagli del mio dramma, non riuscivo a gestire il trauma psicologico che stavo passando e quando piangevo lui vedeva la mia debolezza.
Io mi sentivo così! Debole, fragile e confuso!
Ma a un certo punto lui, Ezio, mi dice: ‘Il diavolo ha fatto una grande battaglia contro di te, lui ti vuole distruggere, ma non c’è riuscito!’.
Al momento non ho avuto coscienza del significato delle sue parole. Quando sono tornato in cella, tutta la notte nella mia mente risuonavano quelle parole: ‘Il diavolo ti ha voluto distruggere, ma non c’è riuscito…”.
Queste parole mi hanno aperto a una nuova dimensione. Una specie di rinascita, di riscoperta della mia anima, del mio angelo! Da quel momento ho cominciato a vedere quanto forte e morbosa fosse la rabbia che s’era impossessata di me, inclusa l’anima (anche se giustificata). Lui, Ezio, con queste parole mi ha ridato l’orizzonte. Ero disorientato! Ma da quel momento in poi ho cominciato a vedere, a osservare, a difendermi, a spiegarmi il senso di questa galera, di questa mia situazione.”

Insomma, le parole di Petru illuminano il senso di tutto quello che faccio in carcere ormai da molti anni e mi dicono, in modo inequivocabile, come per lui io sia l’unica speranza, l’ancora di salvezza in un mare di disperazione. Raramente nei rapporti con gli altri mi sono sentito tanto rilevante. È così attento e sensibile a qualunque cosa io dica che anche il più piccolo malinteso può diventare per lui un grande problema. Lo capisco in maniera molto chiara leggendo il racconto che fa di una nostra piccola incomprensione. Ricordo come allora si fosse convinto, anche su consiglio dell’avvocato, di dover rintracciare un suo ex datore di lavoro, con il quale aveva stretto amicizia e al quale forse avrebbe potuto chiedere ospitalità per ottenere gli arresti domiciliari. Ma di questo signore non aveva alcun recapito e chiedeva a me di avviare una ricerca, abbastanza complicata e dall’esito assai incerto. L’uomo a un certo punto si era trasferito e, a parte un soprannome della mamma, che si era legata a Petru e gli aveva più volte espresso il suo apprezzamento, di concreto su di lui il mio amico non sapeva darmi nessuna indicazione. Cercando un po’ su internet non era uscito niente che potesse aiutarci a rintracciarlo. Ma quando lo avevo fatto presente, mi aveva investito rinfacciandomi di non essere una persona affidabile e sincera; insomma, in parole povere, di averlo preso in giro. Il chiarimento che ne seguì fu un momento importante nel nostro rapporto, come trovo ben espresso nelle righe che ha scritto:
“Ho avuto una grande botta, una grossa tristezza, non perché Ezio non ha risolto, ma perché mi aveva dato l’impressione che potesse fare qualcosa ... perché non mi ha detto dall’inizio: ‘Non posso; non si può, etc.!’.
Questo episodio mi ha fatto soffrire di nuovo. La settimana successiva ho deciso di esprimere tutto il mio pensiero, avevo bisogno di essere sincero con lui, anche per essere corretto verso i sentimenti del mio amico. Ma non volevo rimproverarlo e farlo sentire responsabile di qualcosa, e per non turbare i nostri forti sentimenti radicati nella fede ho scelto di parlargli sotto forma di una metafora:
‘Un naufrago (che ero io) sta su un’isola (la galera) in mezzo all’Oceano (la libertà), dove è riuscito a entrare in confidenza con un delfino (Ezio). Dopo che hanno trovato un modo di comunicare (la fede in Dio), il naufrago riesce a comunicare con il mondo intorno. Il naufrago era dipendente dal delfino in quanto il suo mondo era così piccolo; al contrario, il delfino poteva nuotare nell’immensità dell’Oceano! I suoni della loro lingua erano pieni di forza, verità e amore. Non erano parole false, senza senso ed efficacia come quelle diffuse dal sistema sociale.
Nessuna interferenza estranea poteva intromettersi. Ma, un giorno, il naufrago aveva aspettato invano il delfino, e quando poi era arrivato di nuovo non riusciva più a capire i suoni che emetteva. Il naufrago non riusciva a capire cosa fosse successo.
Intanto, un uccellino, piccolo e fragile (altri volontari), si avvicinava al naufrago e provava a capire. Ma l’uccellino lo delude, da un viaggio all’altro non si ricordava più quello di cui aveva bisogno il naufrago. Allora l’ultima speranza rimane ancora il delfino! Ma come il delfino può aver cambiato i suoi suoni, che non sono più comprensibili?’.
Ezio mi chiede l’interpretazione e io gliela spiego.
Capisce quello che gli volevo dire e subito, in maniera animata e categorica mi fa capire che la sua intenzione non era quella di ingannarmi. Io non potevo intervenire interrompendolo! Era una tempesta. Ho sentito in quella mezzoretta in lui un amore così grande. Forse io ho interpretato male la sua tacita reazione quando gli ho chiesto quel favore. Ma adesso il mio cuore e anche il suo sono pieni di serenità. Ci siamo abbracciati, io chiedendogli scusa per i miei pensieri! Alla fine mi chiede se era rimasto ancora il mio delfino! Non c’è bisogno delle parole, perché le nostre anime già conoscono la risposta. Ancor oggi lui suona per me!”.

Sono consapevole di essere un uomo semplice, come tanti, ma per Petru sono diventato una persona veramente speciale e sento che devo essere all’altezza di quello che lui vede in me, e di quello che sono diventato per lui. Nella sua povertà, tra le mura del carcere, non ha avuto altro che la mia presenza, le mie parole, i miei sentimenti per colmare il suo grande bisogno di conforto, di amicizia.
Leggo anche con piacere che tante delle parole che ci siamo detti lo hanno fatto partecipare alla vita esterna, hanno un po’ allargato le sbarre della sua cella e vi hanno fatto entrare mondi anche lontani, volti e storie che non avrebbe mai pensato familiari. L’Africa e la cura dell’Aids che la Comunità di Sant’Egidio, attraverso il Programma Dream, porta avanti dall’inizio degli anni 2000 e di cui in tante occasioni gli ho raccontato, parlandogli anche dell’impegno di mia moglie, infermiera e volontaria per questo progetto. Poi anche i miei amici senza fissa dimora o gli stranieri della Scuola di lingua e cultura italiana con la quale collaboro gli sono diventati familiari e, per finire, le sorelle dell’Eremo di Campello, sul Clitunno 1, dove ogni tanto mi reco per qualche giorno di raccoglimento, di riflessione, di preghiera, che attraverso i miei racconti sono diventate anche per lui un riferimento spirituale. A loro Petru si è rivolto chiedendo di pregare per sua sorella, quando ha ricevuto la tragica notizia che era affetta da un grave tumore.
In quello scritto che mi ha donato, insomma, ho ritrovato la complessità di essere amici, ma anche tutta la gioia di scherzare, di prendersi in giro, di essere anche felici, in un luogo dove il grigiore è imperante e la tristezza domina su tutto. L’amicizia diviene per Petru uno spazio di vera libertà e di serenità, sebbene sia recluso con un regime molto duro.
Le sue parole mi fanno capire ancora molto della sua vita e della sua vicenda, ma la storia tra di noi va avanti.


Condanna definitiva

Nei nostri successivi incontri, cerchiamo di capire come riuscire a dimostrare la sua innocenza, ma il processo è ormai andato avanti e la sentenza di primo grado conferma tutte le accuse a suo carico. Anche in appello l’avvocato non riesce a fare prendere in considerazione alcune prove che Petru porta a suo favore e viene confermata la condanna di primo grado.
Ma più che la condanna, quello che gli provoca dolore è scoprire che il reato per cui è condannato induce il tribunale a disporre la sospensione della patria potestà per le sue tre bambine. Cerca di avere loro notizie, di sapere come vanno a scuola, ma non ottiene alcuna risposta. Le lettere che invia, anche alle scuole dove presume studino le figlie, non hanno mai un riscontro.
La sfida quotidiana è non permettere che il “male”, che lo ha colpito così duramente, divenga padrone della sua vita e gli faccia vivere sentimenti di odio e di disperazione. La lettura delle sacre scritture e l...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Liberi dentro
  3. Indice dei contenuti
  4. ​Introduzione
  5. ​Premessa
  6. ​Varcare la soglia del carcere
  7. ​La prima visita
  8. ​La scoperta del carcere, un mondo a parte
  9. ​Una Bibbia per amico
  10. ​Le feste in carcere
  11. ​L’algerino che cerca la pace
  12. ​L’uomo che aspetta il “delfino”
  13. ​Il detenuto che chiama “mamma”
  14. ​L’adolescente “adottato”
  15. ​In conclusione
  16. ​Ringraziamenti
  17. ​Collana Grandangolo