K anita Fočak nasce Ita Brazević a Spalato, in Dalmazia. Arrivata all’età di tre anni a Sarajevo, se ne è perdutamente innamorata, diventandone in qualche modo l’anima oltre che la più profonda conoscitrice. Laureatasi in architettura, madre di due figli, ha vissuto l’intero assedio di Sarajevo e ha lavorato per oltre vent’anni come interprete per il contingente italiano di stanza in Bosnia Erzegovina in missione di pace e di stabilizzazione del Paese durante e dopo la guerra. Per i suoi servigi è stata decorata sia dall’Unione europea che dalla Repubblica italiana, da cui è anche stata nominata Cavaliere del lavoro.
«Sono nata a Spalato, praticamente dentro il palazzo dell’imperatore Diocleziano. Quando avevo tre anni i miei genitori si sono trasferiti a Sarajevo per motivi legati al lavoro di mio padre. Io, però, sono sempre rimasta dalmata nei modi, nell’anima, in tutto il mio essere, anche perché la mia famiglia era mista e non ho avuto solo parenti jugoslavi ma provenienti da diversi Paesi europei. Mio nonno, quando studiava Ingegneria civile a Praga aveva conosciuto una bella bionda, che poi è diventata la mia nonna materna. Nonno, a sua volta, aveva origini italiane, precisamente venete. Poiché i miei nonni durante la seconda guerra mondiale, per non essere deportati, hanno dovuto dare prova ai tedeschi di non essere ebrei a causa dei loro cognomi stranieri, possiedo i certificati di nascita dei miei ascendenti fino a tre generazioni prima dei miei nonni e, dai loro cognomi – Botteri, Brunetti, Galineo, Stalio – si vede chiaramente che erano italiani. Questi certificati di nascita sono un vero romanzo perché riportano tantissimi dati della mia famiglia anche per quanto riguarda lo stato sociale, rivelano chi sono i genitori, quando e dove si sono sposati, parlano dei bambini, di chi è stato il loro padrino, di chi è stata la levatrice che ha aiutato durante il parto… così ho potuto imparare la storia della mia famiglia. Da parte di una nonna un intero ramo della mia famiglia viveva a Praga ancora nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento. L’intervento sovietico per sopprimere la Primavera di Praga ci ha però, purtroppo, allontanati definitivamente. Dopo l’intervento sovietico dell’agosto del 1968, infatti, abbiamo dovuto ridurre drasticamente i contatti con i nostri parenti per evitare che potessero subire persecuzioni da parte delle autorità sovietiche e cecoslovacche. E così la mia bisnonna è morta quando io avevo quindici anni, prima che potessi conoscerla. Per me fu molto triste. Ecco le conseguenze tangibili delle decisioni politiche sulla vita delle persone.
Il nostro trasferimento a Sarajevo ci ha allontanati da ogni ramo della famiglia. Così, quando sono morti i miei nonni, si è persa traccia di tutto: documenti, ricordi, proprietà. È per questo che io, quando è cominciata la guerra in Bosnia, nei primi mesi del 1992, ho deciso di rimanere, di non costringere i miei figli a fare l’esperienza toccata in precedenza a me e a mia madre: di venire strappati dalle proprie radici. Io a Spalato non ho più nessuno vivo, posso solo recarmi in visita al cimitero; a Praga forse ho due cugine della mia età, ma non so né che mestiere facciano, né come si chiamino adesso: conosco solo i loro nomi di battesimo, ma ignoro come fare a rintracciarle. Per tacere del fatto che chiunque potrebbe insospettirsi se venisse contattato da una sconosciuta che scrive o arriva dalla Bosnia Erzegovina, che per molti è ancora sinonimo di guerra, pericolo, profughi, povertà…».
Una breve pausa ci permette di lanciare un sassolino nello stagno dei ricordi di Kanita Fočak. Sarà stato difficile, viene da pensare, l’impatto di una bambina di tre anni allontanata dal suo mare e messa repentinamente in relazione con un mondo di montagna e, soprattutto, caratterizzato dall’incontro e talvolta dallo scontro di così tanti gruppi nazionali.
«La Bosnia Erzegovina di oggi è scossa da tre decenni da tensioni e di conflitti legati ai rapporti tra gruppi nazionali, culturali e religiosi. Nella casa in cui sono nata si parlavano tre lingue e siccome tutti, tranne me, hanno studiato a Praga, tutti conoscevano il ceco, l’italiano e ovviamente il croato, che era la lingua ufficiale del Paese. Da bambina, inoltre, mi hanno cresciuta seguendo la tradizione culinaria italo-ceca. Solo ai tempi del liceo ho cominciato a essere immersa in una tradizione culinaria completamente diversa, che mi capitava di sperimentare quando andavo a pranzo a casa delle mie compagne di classe. Nell’assaggiare certi piatti bosniaci, che dopo sono diventati tra i miei preferiti, sono rimasta sorpresa. Sembrerà strano, ma talvolta non sapevo se una pietanza fosse salata o dolce; però ho assaggiato e mi è piaciuto. Mia nonna diceva sempre: “Non puoi dire che una cosa non ti piace se non l’hai provata”.
Non ho mai avuto problemi con le mie amiche. Alla scuola elementare il mio compagno di banco si chiamava Mario ed era ebreo. Io ero abituata agli amici ebrei di mio nonno, ingegneri come lui, così non l’ho trovato affatto strano. Al liceo in classe con me c’erano ragazze cristiane-ortodosse e musulmane, ma anche due cattoliche. Non ho mai distinto l’una dall’altra secondo la religione. Molti ragazzi erano il frutto di matrimoni misti, come me, solo che io ero la somma dell’unione tra italiani, cechi, slovacchi e croati; loro dei gruppi nazionali che vivevano da tempo immemore in Bosnia.
La prima volta che ho sentito di far parte del “gruppo sbagliato” è stato al primo anno di liceo: un ragazzo del quarto anno, un certo Ramis, musulmano, s’era innamorato di me e s’era confidato con la madre. Lei gli aveva dato uno schiaffo e gli aveva detto: “Perché lei? Anche le nostre ragazze sono belle, buone e brave”. Non ho capito chi fossero le “nostre” e le “loro”, però sua madre era una donna di montagna, proveniente da un piccolo villaggio; non sapeva né leggere né scrivere e io ai suoi occhi dovevo apparire come un’aliena.
A quel tempo non esistevano classi solo per i croati, solo per i musulmani o solo per gli ortodossi. Una classe nasceva mista e l’unica discriminante era rappresentata dalla lingua straniera che i ragazzi volevano studiare. Nella mia classe al liceo eravamo tutte ragazze e tutte studiavamo l’inglese, ma con noi c’era una ragazza slovena, un’altra d’origine ceca e altre ancora e chi, tra loro, è sopravvissuta alla guerra ancora oggi vive in buona parte l’esperienza del matrimonio misto. Le mie amiche non hanno certo divorziato solo perché il marito proviene da un gruppo nazionale diverso dal loro. Non so perché, ma io sono sempre piaciuta ai ragazzi musulmani: forse perché mi vedevano come un “animale esotico”, una cosa un po’ diversa dalle coetanee locali, nonostante le ragazze bosniaco-erzegovesi siano bellissime e ogni generazione sia sempre più bella.
Al terzo anno di liceo ho conosciuto il mio futuro marito, un musulmano. Non sentivo alcuna differenza, tra noi; solo in occasione delle feste si potevano percepire delle diversità. Però eravamo organizzati: avevamo un calendario che ci permetteva di non dimenticare mai di fare gli auguri agli altri; ci si scambiava i regali, si stava insieme, si mangiavano dolci tipici. Quando con mio marito ci trasferimmo a vivere nel comune di Novi Grad, a Sarajevo, nemmeno sul pianerottolo era possibile trovare una situazione “etnicamente pulita” (tra l’altro, odio profondamente questa parola): noi eravamo una coppia composta da una croata cattolica e un musulmano; di fianco a noi viveva un serbo-romeno trasferitosi a Sarajevo per lavorare come cantante lirico e sua moglie, croato-serba; nel terzo appartamento vi era una coppia di serbi ortodossi; nel quarto risiedeva una donna musulmana che conviveva con un suo figlio e la moglie, che era addirittura napoletana… meglio di così non poteva essere!
Oltre alle feste, alla domenica si beveva il caffè tutti insieme e si parlava. Io non ho mai pensato che qualcuno non fosse “idoneo”. Mio marito, musulmano, ha rispettato i miei genitori più di qualsiasi altro croato e non abbiamo mai guardato all’appartenenza nazionale per fare amicizia, ma solo all’educazione, alla bontà, all’onestà delle persone che incontravamo. Per questo tutti noi siamo rimasti increduli quando è scoppiata la guerra. Lo conferma la morte di due ragazze il 6 aprile 1992 sul ponte di Vrbanja, dove poi sarebbe stato ucciso, il 3 ottobre 1993, anche Gabriele Moreno Locatelli. Suada Dilberović e Olga Sučić erano due ragazze, una musulmana e l’altra croato-bosniaca, scese in piazza con decine di migliaia di altre persone per protestare contro la guerra e sono state uccise dai cecchini. Questo è stato un grave colpo per tutti noi, ma nonostante la loro morte i politici ci hanno ripetuto in continuazione che tutto sarebbe andato bene, che non avremmo dovuto preoccuparci, che era stato solo un disguido, un malinteso e che tutto si sarebbe rimesso a posto».
Rimane forte il dubbio, per chi non ha vissuto in quel periodo in Jugoslavia, che nella seconda metà degli anni Ottanta non si avvertisse che, mentre la crisi economica assumeva connotati sempre più drammatici, qualcosa si stava incrinando, che i messaggi della politica stavano diventando sempre più violenti, che i mezzi di comunicazione di massa spingevano verso una radicalizzazione dei rapporti e che dei muri stessero lentamente salendo e ispessendosi tra i gruppi nazionali.
«Eppure posso assicurare che è andata così. Aggiungo che proprio verso la metà degli anni Ottanta sembrava che l’economia si stesse rimettendo in moto. Ne eravamo felici perché si ricominciava a trovare lavoro ed era possibile fare progetti per il futuro. Noi, ad esempio, abbiamo comprato un terreno e abbiamo cominciato a costruire una casa. In Bosnia Erzegovina, insomma, le cose andavano abbastanza bene e purtroppo quando la tua pancia è piena non presti attenzione a cosa sta succedendo non lontano da te, come ad esempio in Kosovo. Quest’ultimo, poi, era sempre stato una polveriera che il solo Tito era riuscito a tenere sedata garantendo alla minoranza albanese kosovara la parità dei diritti, dandole la possibilità di avere le scuole, le università, la televisione, i giornali in lingua albanese e assicurandole anche un certo sviluppo economico, cosa che aveva ridotto di molto le tensioni. Quando però Slobodan Milošević ha preso il potere in Serbia, ha cancellato ogni privilegio delle minoranze e da allora la pentola balcanica ha cominciato a bollire. Ma la maggior parte di noi non se ne è preoccupata più di tanto, a eccezione di chi aveva un figlio negli anni della leva militare, perché nessuno era felice che il proprio ragazzo venisse mandato in Kosovo. Questa è l’unica paura che io ricordi di quel periodo. Poi nel 1990 abbiamo ascoltato i primi discorsi un po’ più focosi pronunciati nel parlamento jugoslavo, a Belgrado, in particolare quando i deputati sloveni hanno deciso per protesta di abbondonare quella seduta. Questo è stato il primo momento».
Si tratta degli avvenimenti del gennaio del 1990, con i quali precipita l’intera costruzione jugoslava. Il 20 viene convocato a Belgrado il XIV Congresso straordinario della Lega dei comunisti in presenza di uno scontro frontale tra delegati serbi e sloveni riguardo alla situazione in Kosovo e il ripristino della Costituzione del 1974, sulla politica economica e sulla proposta slovena di trasformare la federazione jugoslava in una confederazione. I delegati sloveni vengono fischiati e dileggiati. La Lega dei comunisti di Serbia, in mano a Milošević, si oppone al programma economico del primo ministro jugoslavo Marković, alla disperata ricerca di una ricetta per abbassare l’iperinflazione, soprattutto per la liberalizzazione delle importazioni e la riduzione del credito per le aziende in perdita. Il congresso è paralizzato dal dissenso tra i delegati serbi, sloveni e croati. Così nella notte del 23 gennaio la delegazione slovena abbandona Belgrado. Lo strappo è irreparabile, il disaccordo è totale. Dopo l’uscita della delegazione slovena il capo dei comunisti croati Račan, con l’appoggio dei bosniaci, assesta il colpo decisivo, facendo approvare la mozione secondo la quale senza la presenza degli sloveni il Congresso è delegittimato. Quel giorno muoiono formalmente la Lega dei comunisti di Jugoslavia e il Congresso, ovvero gli organismi che erano stati il motore della Federazione jugoslava. Il giorno dopo, 24 gennaio, scoppiano nuovi gravi disordini in Kosovo, dove già era stato proclamato lo stato d’assedio. La repressione brutale provoca almeno venticinque morti.
«Da quel momento, tutto è precipitato. Di lì a fine anno la Slovenia avrebbe proclamato la sua indipendenza, seguita pochi mesi dopo dalla Croazia e un anno dopo dalla Bosnia Erzegovina. Ed ecco che, improvvisamente, vedi in televisione il tuo soldato in trincea che punta il fucile verso il tuo ex concittadino sloveno… una cosa da non credere! Vi è ancora su Youtube il video dell’intervista a un soldato in trincea. Lui dice: “Non capisco nemmeno io cosa stia succedendo, sembra che loro si vogliano staccare e che noi dobbiamo impedirglielo”. Anche lui non capisce. Gli è stato semplicemente ordinato di mettersi in una trincea con il fucile…».
L’indipendenza slovena viene proclamata in seguito al referendum del 23 dicembre 1990, quella croata inseguito al referendum del 19 maggio 1991.
«In Croazia le cose sono molto più gravi che non in Slovenia e per la prima volta assistiamo al bombardamento di una città, che provoca una vera carneficina; a Vukovar vediamo orrori che ci rimandano con la memoria alla seconda guerra mondiale. A Vukovar agiscono militari dell’ex esercito jugoslavo; per la prima volta vediamo in azione sul campo anche le truppe paramilitari dei mercenari che uccidono la gente in mezzo alla strada, che tirano fuori i civili dalle case e li ammazzano così, senza alcuna motivazione. Ai tempi della strage di Vukovar, nel novembre del 1991, io e la mia famiglia vivevamo ancora nel centro storico di Sarajevo; mia suocera era viva ma non più autosufficiente e io mi ero assunta la responsabilità della sua assistenza. Quella sera avevamo degli amici a casa per una cena e in televisione hanno mostrato una casa di Vukovar bombardata che, guarda caso, era arredata con i nostri stessi mobili ottocenteschi asburgici. Quello è stato il primo momento in cui ho pensato: “Ma guarda… tutto questo un domani potrebbe succedere a noi…”, ma senza avere delle certezze per dirlo. Era un mio pensiero istintivo, di madre, di donna che si preoccupa per la famiglia. Forse non crederete a cosa ho fatto: non ho comprato scorte di viveri, ma mi sono preoccupata di acquistare abbastanza detersivo per la lavatrice e avevo uno scatolone pieno di insulina e di siringhe per mia suocera. Non ho mai pensato di procurarmi qualche cosa di più perché il mercato era di fianco a casa e non avevo fatto scorte in casa, nonostante mia suocera, buon’anima, avendo vissuto la prima e la seconda guerra mondiale, mi chiedesse con insistenza se avessimo in dispensa abbastanza zucchero, farina, olio e caffè, tutti generi di prima necessità. Ma io non credevo che un giorno sarebbe potuto capitare a me tutto quello che avevano vissuto lei, mia nonna, mia madre…
Il 6 aprile, dopo l’uccisione di quelle due povere ragazze, la guerra è entrata anche nelle nostre case. Mio marito era ancora vivo; io ero una casalinga disoccupata perché, nonostante la mia professione di architetto, avevo deciso di dedicarmi alla famiglia, convinta che, essendo ancora giovane, avrei avuto tempo più avanti per pensare alla carriera. Ci siamo ritrovati completamente scombussolati da tutto quello che stava succedendo intorno a noi. Mia suocera è deceduta il primo giorno di guerra; non so dire se sia stata una fortuna, ma almeno si è risparmiata tutti quegli orrori.
Un altro momento particolare per noi è stato quando hanno cominciato a bombardare la città. Era aprile, faceva già caldo. Avevamo il corpo della nonna in casa e non sapevamo come fare per seppellirla. A un certo punto con le mie cognate, le sorelle di mio marito, abbiamo deciso di darle sepoltura nel giardino dietro casa, però in quel momento nessuna di noi sapeva come eseguire correttamente il rito tradizionale del lavaggio, che prevede che il corpo venga lavato bene e poi avvolto in una serie di lenzuoli diversi, ma a questo segue un rituale, che include una preghiera, che nessuna di noi sapeva eseguire. Il giorno dopo, il 7 aprile, grazie a una piccola tregua, mio marito è potuto correre al cimitero, dove ha trovato una tomba per la madre, che è stata sepolta in tutta fretta. Così abbiamo scoperto che la preghiera tradizionale non può essere fatta in casa. Contemporaneamente all’inumazione, le mie cognate sono corse a prendere gli ultimi autobus che lasciavano Sarajevo, prima che la città fosse completamente circondata e cominciasse l’assedio più lungo della storia bellica europea del Novecento: ben 1.444 giorni. Questa è stata l’ultima volta che ci siamo viste. Io sono rimasta in città con mio marito – che solo un mese dopo è stato ucciso in casa – e con i miei due figli, Daniel di sedici anni e Faris di soli tre. Mio marito mi aveva proposto di andare via, ma io sono voluta rimanere per restare accanto a lui e ai miei due genitori anziani, ma anche perché credevo che tutto fosse un malinteso e che la guerra sarebbe durata molto poco. Chi ha mandato via le mogli e i figli li ha rivisti dopo quattro anni. Anche questa è stata una tragedia per le famiglie.
Quando mio marito è stato ucciso, mi sono ritrovata improvvisamente da sola con due figli piccoli, disoccupata e senza soldi, poiché avevo dovuto spendere gli ultimi risparmi per il funerale del mio Faruk. Quando mio marito fu inumato, nel cimitero Kovači, a Sarajevo, gli addetti preparavano altre quindici bare. Erano le prime settimane della guerra, nessuno di noi ancora aveva capito quali pericoli corressimo anche solo partecipando a un funerale, non eravamo consapevoli. Puoi anche guardare tutti i film esistenti sul conflitto del Vietman o sulla seconda guerra mondiale, ma non sai cosa ti aspetta in una guerra vera. E così ci siamo ritrovati soli, io e i miei due figli, senza scorte di viveri, a parte un po’ di riso, d’olio e di farina – lo stretto necessario per fare della pita in casa – e una scatola di biscottini portataci da una mia cognata prima di partire. I miei genitori vivevano a circa dieci chilometri di distanza da noi, che in guerra equivalgono a dieci anni luce. Io non potevo andare da loro e loro non potevano venire da me. Per fortuna, tuttavia, vivevamo in un antico quartiere, proprio di fronte alla famosa Biblioteca nazionale, e ci conoscevamo un po’ tutti. E le prime persone venute a chiedermi che cosa fosse successo sono state quelle più umili del quartiere. Ricordo un ragazzo amico di mio marito. E un imbianchino che tutti chiamavamo “Nero” perché aveva la carnagione scura, occhi neri e capelli neri; lui, povero come nemmeno si può immaginare, è stato tra i primi a correre in mio aiuto. Pensate che subito dopo il funerale di mio marito – al quale, per tradizione, non ho potuto partecipare – durante il coprifuoco, un amico di mio marito in partenza per la prima linea ha bussato alla nostra porta e ci ha donato della zuppa e le ultime bistecche impanate alla viennese che sua moglie aveva preparato con l’ultimo pezzettino di carne che avevano in casa. È stata una cosa veramente commovente.
Molto presto siamo rimasti senza corrente elettrica, senza acqua potabile, senza linee telefoniche: è cominciato un assoluto isolamento nel buio, senza notizie; poi, però, man mano che passavano i giorni ci siamo organizzati. Siccome era primavera, abbiamo recuperato un po’ di sementi e utilizzato tutte le superfici disponibili – anche i vasi per i fiori che avevamo sui balconi e sulle finestre – per piantare qualche cipolla e dei pomodori, così da avere un po’ di verdura. Poi abbiamo raccolto le erbacce, come l’ortica, e abbiamo inventato vari sistemi per preparare un pranzo senza avere alcun ingrediente giusto. Nel corso del primo anno di guerra i cittadini di Sarajevo hanno perso tutti una trentina di chili di peso, me inclusa, e sono arrivata a pesare 48 chili. Però lo spirito che abbiamo mantenuto in città stupiva tutti. All’inizio abbiamo tentato disperatamente di chiedere agli osservatori europei, quelli che giravano vestiti di bianco, che noi chiamavamo i “gelatai”, notizie su cosa stesse accadendo nel resto del Paese, e in particolare nella valle della Drina, a est. Arrivavano notizie terribili su bagni di sangue soprattutto a Bijelina e a Zvornik; si sentiva dire che da prima del 5 aprile in quelle zone erano penetrate le forze paramilitari delle Aquile bianche di Vojislav Šešelj e che venivano commesse vere e proprie carneficine. Ma dagli osservatori europei riuscivamo a sapere ben poco e noi, a causa della mancanza di energia elettrica, non potevamo informarci, se non grazie a qualcuno che era riuscito a recuperare una radiolina a transistor degli anni Settanta e ad approntare qualche batteria d’emergenza per alimentarla. Poiché, infatti, non c’era più carburante, abbiamo tolto le batterie dalle automobili e le abbiamo usate per alimentare la radio in modo di avere un po’ di notizie, che però di solito riguardavano solo Sarajevo. Noi non sapevamo cosa stesse succedendo a Srebrenica, a Travnik, a Banja Luka, a Prijedor, a Mostar… si trattava di luoghi per noi isolati e lontanissimi e spesso neppure i giornalisti riuscivano a ottenere notizie da fuori.
Così ci siamo attrezzati tutti per vivere in un microcosmo, nel nostro quartiere, avendo sempre come punto di riferimento la nostra casa; soprattutto nei primi tempi la gente è andata a vivere negli scantinati, ha organizzato rifugi, ma non puoi stare in posti chiusi, umidi e maleodoranti per mesi interi. Un mio vicino ha provato a resistere in quelle condizioni per alcuni mesi, poi non ce l’ha fatta più e appena uscito è stato centrato da una scheggia. Alla fine, quindi, abbiamo abbracciato tutti un po’ quella filosofia musulmana che intende la vita come una fatalità, secondo cui il nostro destino è stato segnato fin dal momento del nostro concepimento. Una nostra amica, con cui ho praticamente partorito insieme il mio primo bambino – anche lei era in attesa e siamo state persino ricoverate nella stessa stanza in clinica –, appena è scoppiata la guerra ha mandato suo figlio in Sudafrica. Poco dopo essere arrivato, il ragazzo è morto in un incidente stradale. Altri sono andati a Zagabria, ma lì una delle poche granate cadute sulla città li ha uccisi. Così arriva il momento in cui dici: “Non me ne frega niente, io vado avanti e succeda quel che deve succedere”. Certo, questo non vuol dire che non si continui a essere prudenti. Non è che ti butti per la strada nel bel mezzo di un bombardamento, ma appena smettono di sparare ti affidi al destino e dici: “Adesso vado”. Io, per esempio, cantavo nel coro della cattedrale, andavo a vedere tutte le mostre, mi recavo ai concerti, gli spettacoli in teatro, e frequentavo la scuola di lingue straniere, perché nel bel mezzo dell’assedio mi è venuto in mente di andare a rinfrescare le lingue che conoscevo, in particolare il tedesco e l’italiano, per tenere la mente impegnata. Poi abbiamo letto e riletto tutti i libri, anche quelli scolastici, per tenerci impegnati e ci siamo dati tutti da fare per salvare quello spirito di Sarajevo, lo spirito della città, che ci permetteva di non fare distinzioni tra le persone, di cantare insieme, di amare la stessa musica, di frequentare gli stessi posti e mangiare gli stessi cibi nonostante le differenze tra noi. E abbiamo sperimentato l’arte della pazienza, che da noi può essere tradotta con la parola sabur. Per lunghi mesi. Per anni. Quattro anni pieni».
Il 28 giugno 1992 l’allora presidente francese François Mitterand volò a Sarajevo. Un’operazione mediatica e politica molto riuscita per la sua immagine e quella della Francia, ma che si trasformò in una cocente delusione per i cittadini assediati di Sarajevo. Mitterand non fece nulla per smentire l’orientamento apertamente filo-serbo dei governanti francesi e arrivò ...