“Il mare è tutto. Copre i sette decimi del globo terrestre.
Il suo respiro è puro e sano. È l’immenso deserto dove l’uomo non è mai solo,
poiché sente fremere la vita accanto a sé”
(Jules Verne)
Secondo i dati Eumofa, all’interno dei Paesi dell’Unione europea i prodotti ittici più consumati sono tonno (oltre quindici per cento), merluzzo nordico (quasi nove e mezzo per cento), salmone (poco più del nove per cento), pollack d’Alaska, noto anche come merluzzo d’Alaska (sei e mezzo per cento) e gamberi (oltre sei per cento).
Cinque prodotti soltanto coprono quasi il cinquanta per cento dei consumi complessivi. Non male, se si pensa che nel solo Mediterraneo, tra pesci, molluschi e crostacei sono presenti circa duecento specie commestibili, attorno alle quali le diverse tradizioni popolari si sono tramandate importanti ricette culinarie e alle quali si può accedere con una certa facilità.
Secondo l’Associazione nazionale Conservieri ittici e delle tonnare, il novantaquattro per cento della popolazione italiana consuma le classiche scatolette di tonno e quasi un italiano su due (il quarantatré per cento) mangia tonno ogni settimana. Il tonno, del resto, è pescato in più di ottanta Paesi e le Nazioni Unite gli hanno dedicato una giornata mondiale, che cade il 2 maggio.
Salvo eccezioni locali, ci si è concentrati esclusivamente su alcune specie considerate principali. Del resto, questo è successo anche per gli altri generi alimentari. Basti pensare che nel mondo esistono oltre trentamila specie vegetali potenzialmente commestibili ma, secondo la Fao, trenta piante coprono il novantacinque per cento del fabbisogno nutritivo mondiale e quattro specie soltanto – mais, grano, riso e patate – forniscono agli organismi umani oltre metà della loro energia di origine vegetale.
La diversità alimentare, di fatto, si è appiattita. Delle circa duemila varietà di mela esistenti in Italia (nel mondo c’è chi si azzarda a dire che ce ne siano più di settemila), in commercio, se si è fortunati, se ne riescono a trovare a malapena una ventina.
In materia di pesce questo significa che sono aumentate le pressioni su determinate specie, considerate più appetibili dal mercato e per questo, ora, in forte declino.
Il merluzzo nordico (o merluzzo bianco), da cui si ricavano il baccalà, se conservato sotto sale, e lo stoccafisso, se essiccato, di migliore qualità, vive nelle acque fredde dell’Oceano Atlantico settentrionale. Può raggiungere i due metri di lunghezza e superare i novanta chilogrammi di peso ma, normalmente, si attesta su dimensioni inferiori. Ama trattenersi in prossimità dei fondali, dove trova il proprio nutrimento, perlopiù fatto di molluschi, gamberi o pesci più piccoli. È piuttosto adattabile riguardo l’ambiente e, generalmente, forma banchi piuttosto numerosi.
Merluzzo nordico (Gadus morhua). (Fonte: Shutterstock)
Non va confuso con altre specie similari, quali il merluzzo del Pacifico, il merluzzo della Groenlandia, il merluzzo atlantico e tantomeno con il nasello, presente anche nel Mediterraneo. Complessivamente, sotto il nome merluzzo si possono trovare tredici specie, seppure la gran parte di esse appartiene a generi sistematici differenti.
La Iucn l’ha ufficialmente inserito nella lista rossa degli animali a rischio di estinzione, nella categoria “vulnerabile”.
Secondo il Millennium Ecosystem Assessment, nel Nord Atlantico, in prossimità dell’isola canadese di Terranova, nella zona dei Grandi Banchi (una delle aree più pescose al mondo, divenuta famosa già a inizio 1500), a fine anni Sessanta si pescavano circa ottocentomila tonnellate di merluzzo bianco. Nel 1992 questo numero era inferiore a dieci. La biomassa di questa specie era scesa del novantanove per cento in meno di trent’anni.
Fino gli anni Quaranta si pescava il merluzzo principalmente nei pressi delle coste, durante i mesi estivi e in modo artigianale. La zona gode infatti del fortunato “incrocio” tra la calda corrente del Golfo e la fredda corrente del Labrador, che sollevano dal fondale numerose sostanze nutrienti, ragione per cui non era necessario spingersi chissà quanto al largo.
Con l’inizio degli anni Sessanta, grazie anche agli aiuti finanziari concessi dal governo, funzionali a investire in nuove tecnologie, furono introdotti potenti pescherecci dotati di radar, sistemi di navigazione elettronici, sonar e grandi reti a strascico, che in poco tempo fecero crescere in modo quasi esponenziale le catture, tanto da raggiungere il cosiddetto “picco”. Si aumentò l’area, il periodo e la profondità di pesca, con risultati definiti “eccellenti”. Nuovi pescherecci arrivarono da altre parti del mondo. Qualcuno iniziò a pescare anche nelle zone di riproduzione.
Nelle reti, quali catture accessorie, restarono imprigionati anche altri pesci, tra cui il piccolo capelin, che è una delle principali prede del merluzzo.
Intorno agli anni Ottanta, alcuni pescatori si accorsero che qualche cosa stava cambiando; ma invece che fermarsi, ci si spinse ancora più al largo e si aumentarono gli attrezzi da pesca, intensificando gli sforzi. Fu il collasso. I risvolti, per le società di quelle terre, furono drammatici.
Nel 1992, il governo canadese, con grande ritardo, impose una moratoria che impedì la pesca del merluzzo bianco nella zona dei Grandi Banchi, sperando che la popolazione si potesse riprendere in breve tempo. Non fu così.
Un pescatore canadese di nome Dave Molloy, intervistato sull’argomento nel 1997, sembra avere detto: “Vuoi che ti dica qualche cosa sui merluzzi? D’accordo. Non ce ne sono più”. Un altro pescatore ricorda “i tempi in cui con otto reti si prendevano più di due tonnellate di pesce. Oggi ce ne vorrebbero forse ottanta. All’epoca, un merluzzo in primavera pesava in media dai dieci ai diciotto chili. Oggi pesa dai due ai tre chili e mezzo”.
Solo con gli anni Duemila, in quella zona, si poté assistere a una leggera ripresa. A inizio anni Duemila, il Wwf pubblicò un rapporto che indicò come le catture di merluzzo, a livello mondiale, rispetto al 1970 avevano subìto un calo del settanta per cento. Uno studio del 2010, poi, dimostrò che nell’area dei Grandi Banchi era stato recuperato solo un dieci percento dello stock originario di merluzzo bianco. Qualcuno ha ipotizzato che questo fosse dovuto alla contemporanea crescita delle popolazioni di aringhe e sgombri, prede abituali del merluzzo, con conseguente sbilanciamento dei rapporti di dominanza. Ovvero, chi prima veniva mangiato era aumentato in modo significativo nei numeri, andando a nutrirsi con maggiore insistenza delle uova e degli avannotti del merluzzo, impedendogli di poter “rialzare la testa”.
Questo significa che la ripresa ha dei tempi che possono essere lunghi, non è sempre scontata e può seguire strade differenti; ragione per cui, se si comprende di avere fatto un errore, non bisogna ricaderci non appena si vedono bagliori di luce.
Sempre per quanto riguarda il merluzzo bianco, in altre zone, come in prossimità delle isole Svalbard o della Norvegia, la situazione è sicuramente molto migliore; ma in altre zone ancora si evidenziano forti criticità, come nel Baltico orientale. Nell’autunno 2019, facendo riferimento al fatto che attorno a quell’area la biomassa di taglia commerciale di questa specie era al livello più basso osservato dagli anni Cinquanta, l’Unione europea ha deciso di adottare restrizioni di pesca senza precedenti, limitando le catture ammissibili. Per il 2020, nel Baltico orientale, i prelievi di merluzzo bianco sono stati ridotti del novantadue per cento, al fine di permettere solo le catture accessorie e sospendendone di fatto la pesca mirata.
Un altro pesce del Nord che ha visto tempi sicuramente migliori è l’halibut. Tutti noi lo vediamo in pescheria sotto forma di filetti già preparati, di colore bianco puro, ma nessuno, penso, lo ha mai osservato in natura. Racchiuse sotto questo nome, in verità, ci sono una quindicina di specie. Una delle più famose è probabilmente l’halibut atlantico, conosciuto anche come ipoglosso. Si tratta di un grande pesce piatto (come una platessa, ma meno schiacciato) che può superare i due metri e mezzo di lunghezza e i duecento chilogrammi di peso. Vive nei fondali sabbiosi, dai cinquanta ai duemila metri di profondità, nelle acque dell’Atlantico settentrionale. È presente anche nei mari artici e attorno alla Groenlandia. È un predatore e si nutre di merluzzi, scorfani, crostacei e razze. Si riproduce piuttosto lentamente.
Se si cerca in un qualsiasi motore di ricerca, lo si potrà vedere in fotografie che lo ritraggono a testa in giù lungo i moli in cui attraccano le imbarcazioni da pesca.
Le sue carni pregiate hanno fatto sì che venisse pescato sino ai limiti di sopportazione, tant’è che oggi è inserito nella lista rossa della Iucn alla voce “in pericolo”.
Un altro pesce di grandi dimensioni, ma che predilige acque con caratteristiche diverse, è il pesce spada. Può superare i quattro metri di lunghezza e i quattrocento chilogrammi di peso. Si distingue per possedere una lunga “spada” affusolata e tagliente, che altro non è che uno sviluppo particolare della mascella superiore, che gli serve quale strumento di caccia o di difesa. Si nutre principalmente di pesci, crostacei, calamari e totani. È un abile nuotatore ed è in grado di compiere lunghe migrazioni. Ha abitudini perlopiù solitarie, anche se in prossimità del periodo riproduttivo si possono osservare sporadici raggruppamenti.
Tra leggenda e verità, si dice che il pesce spada maschio, una volta incontrata la femmina, non la abbandoni più e nuoti sempre dinnanzi a lei. Se mai un pescatore dovesse catturare prima la femmina, il maschio cercherà di aiutarla disperatamente in tutti i modi possibili, fino alla fine delle proprie forze. Questo, tra i pescatori più esperti che usano un metodo artigianale, fa sì che, come in una struggente storia d’amore, venga catturata prima la femmina, riconoscibile per le dimensioni leggermente più grosse, in modo da riuscire ad avere un semplice doppio bottino.
Il pesce spada è diffuso nelle acque temperate e tropicali di tutti gli oceani ed è comune nel Mar Mediterraneo. Nelle acque italiane è presente, in modo particolare, in Sicilia e nello Stretto di Messina, che rappresentano importanti aree di riproduzione.
Già Polibio, storico greco, parlava nel secondo secolo a.C. della pesca di questa specie, descrivendo la lotta tra il pesce e il pescatore dotato di arpione. Le sue carni, di consistenza compatta, sono considerate di qualità eccellente; tanto da poter essere preparate secondo molteplici possibilità: marinate, cotte alla brace, quale condimento per primi piatti raffinati.
La popolazione sfruttata in maniera meno sostenibile è attualmente quella del Mediterraneo, tanto che, a differenza di quelle di altre zone, può essere considerata quasi a rischio di estinzione. Secondo l’Ong internazionale Oceana, il pesce spada, dagli anni Ottanta a oggi, in quest’area è diminuito del settanta per cento. Spesso si catturano diversi esemplari giovanili che non hanno ancora raggiunto la taglia di riproduzione (per legge, nel Mediterraneo, potrebbero essere pescati solo esemplari di cento centimetri, spada esclusa, o di 11,4 chilogrammi di peso; nell’Oceano Atlantico esemplari aventi una lunghezza di centoventicinque centimetri o un peso di venticinque chilogrammi). Secondo il Wwf, nel Mediterraneo, un settanta per cento dei pesci spada catturati possiede un’età inferiore ai tre anni.
A livello mondiale, secondo Unioncamere e Fao, dagli inizi degli anni Duemila, le catture si sono stabilizzate su standard molto alti, tre volte più elevati rispetto a quelli degli anni Settanta. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che in Italia si pescano attualmente meno tonnella...