La guerra a Roma
Giovanni Brizzi
Una breve rassegna delle forme di guerra adottate da Roma nel corso dei secoli, così come delle regole astratte, scritte e non, formulate via via a proposito. Non si presumerà peraltro alcunché circa la loro effettiva applicazione, da verificarsi ovviamente caso per caso.
Le regole della guerra e lo ius gentium
Di iura – piuttosto che di ius – belli parlano spesso le nostre fonti (Cicerone, Livio, Tacito tra le altre), che alludono dunque, per l’età delle origini, a un insieme sia pur omogeneo di norme piuttosto che a una branca ben definita del diritto. Tali principi sono parte del più vasto complesso dello ius gentium; un’espressione, questa, che prevede, per il termine gentes, un’accezione doppia. Adottata in seguito dal diritto internazionale, la parola indica dapprima non tanto i popoli e neppure le famiglie, quanto i clan su cui si struttura una realtà ancora preurbana. Ciò perché prima del tradizionale sistema di rapporti tra popoli e città, nella penisola, e forse soprattutto sul suo versante tirrenico, se ne instaura un altro. Esso – pur in forma non ufficiale e talvolta in contrasto con le nuove realtà che stanno nascendo – sopravvive addirittura alla genesi degli stati veri e propri, mostrandosi in grado di interagire con i loro rapporti e di superare spesso i limiti di questi ultimi, attraverso una rete trasversale di vincoli, personali e gentilizi, fitti e saldissimi, che continuano a lungo ad unire in modo non formale, oltre qualsiasi confine di stato, i membri di una medesima gens. Lo ius gentium – che conserva sostanzialmente, anche in piena età storica, i suoi caratteri aristocratici – nasce dunque come evoluzione di un rapporto tra clan e singoli individui.
La guerra in età arcaica
Al tempo delle origini la guerra è condotta per bande, appunto da quelle gentes che strutturano lo stato primitivo e ne innervano gli eserciti: un ricordo di questa prassi traspare dalla tarda epopea dei Fabii, che al Cremera affrontano in uno scontro eroico e sfortunato le forze di Veio. Al costituirsi delle città corrisponde una riorganizzazione dell’esercito, che va ora strutturandosi sulla principale assemblea cittadina, i comitia curiata.
Alla sua base stanno i raggruppamenti di gentes, chiamati curie, che fungono anche da circoscrizioni di leva. Da ogni curia sono inizialmente arruolati, per tradizione, 100 fanti e 10 cavalieri. Essendo le curie 30, il più antico esercito romano risulta costituito, in teoria, da 3 mila fanti e 300 cavalieri. Non si può escludere che, almeno all’inizio, la leva sia stata divisa in tre contingenti di pari consistenza, che avrebbero riprodotto la suddivisione della popolazione in tre tribù. A capo dell’esercito era il re, coadiuvato per ciascuno dei tre contingenti da un tribuno.
Nella sua forma eroica il modo di combattere, inoltre, è soprattutto individuale ed è fondato sul valore del singolo. Secondo una concezione che sembra appartenere a molte culture, il guerriero primitivo è votato alla singolar tenzone, e agisce spinto dal furor (o dalla ferocia) che si impadronisce di lui: un atteggiamento caratteristico anche di un mondo italico che ancora non conosce le aggregazioni statuali o le ha appena viste nascere. Anche per il Romano delle origini, dunque, l’azione bellica si sublima nel momento del duello che oppone il guerriero all’antagonista, un eroe come lui; un duello affrontato in stato di invasamento divino, in preda ad una sorta di ebbrezza che estrania il combattente da se stesso. Dono degli dei, che occupano lo spirito del combattente, questa mistica follia diviene la misura stessa del favore celeste: solo così si spiega perché lo scontro tra due eserciti possa essere sostituito da un duello giudiziale, come quello tra Orazi e Curiazi, un duello nel quale gli dei indicano la parte cui riconoscono la ragione. La vittoria nello scontro tra comandanti consente di dedicare a Giove Feretrio gli spolia opima, un alloro che rimane a lungo più prestigioso dello stesso trionfo.
Per i Romani, tuttavia, il favore degli dèi non è senza condizioni: presupposto essenziale per ottenerlo è il rispetto delle regole. Ogni tipo di rapporto è sottoposto a fides, una nozione che Cicerone definisce iustitia in rebus creditis.
Illuminante è l’episodio, notissimo, di Mucio Scevola. Durante l’assedio di Roma a opera di Porsenna, Mucio penetra nel campo etrusco celando un’arma sotto la veste, ma pugnala per errore il tesoriere del re; catturato e condotto davanti al sovrano per essere interrogato, lascia bruciare la mano destra su un braciere per dimostrare – secondo Livio – la sua insensibilità ai tormenti. Ovviamente leggendario, l’episodio va riletto in chiave simbolica soprattutto per quanto concerne il gesto che ne costituisce il punto saliente. Elemento dalla valenza universale, la mano destra è, nella cultura romana, consacrata alla Fides, della quale rappresenta il santuario corporeo; e la fides, il termine con cui i Romani designano soprattutto il corretto comportamento, viene divinizzata, secondo la tradizione, fino dall’età di Numa, a sottolinearne l’intrinseca forza divina. A essa i Flamines maggiori sacrificano con la mano fasciata di panno bianco e il gesto di Mucio, che espone al fuoco dell’altare la mano nuda, cela probabilmente il ricordo della punizione rituale inflitta a un sacrilego o a uno spergiuro.
Fides
Dal singolo episodio è possibile risalire alla valutazione di un aspetto particolare dell’etica arcaica. Sulla fides il Romano delle origini costruisce tutta la sua concezione del rapporto, prima individuale e poi tra i popoli; e anche la guerra, che di questo rapporto rappresenta una fase, sia pure anomala, va soggetta alle stesse regole.
La fides è prerogativa in primo luogo del magistrato che guida gli eserciti della repubblica: partecipe di precisi caratteri sacrali, questi deve possedere in sommo grado un requisito dal quale promana il suo stesso imperium, la facoltà di condurre i concittadini contro il nemico. Alla luce di queste considerazioni il significato dell’episodio appare chiaro: con una forma primitiva di purificazione si brucia la mano destra di un capo che ha infranto la fides, dovuta anche al nemico. I Romani reputano, dunque, disonorevole condurre la guerra latronum modo: cum iusto enim et legitimo hoste l’etica impone di combattere faccia a faccia, senza ricorrere ad insidie, imboscate, tradimenti, attacchi notturni, inganni o espedienti di qualunque genere.
Originale e antichissimo è certamente il principio da cui trae origine questo sistema di valori: la fides si ancora infatti a riti arcaici quali il sacrificio dei Flamines maggiori e le cerimonie feziali. Del pari autentico (ed esso pure molto antico) è dunque anche il rapporto instaurato con il nemico. Anche se probabilmente origine, natura e funzioni primitive di questa astrazione non potranno mai essere definite con certezza, il valore di fides, oggetto di culto presso le più antiche popolazioni non solo latine, possiede una indubbia validità e una straordinaria fecondità potenziale. Per i Romani il rispetto ad essa dovuto condiziona ogni tipo di rapporto; e la gestualità della mano aperta prevede sia l’imposizione della destra ad esprimere la volontà di accogliere in fidem (anche tramite atto di deditio) il protetto, il vinto, l’inferiore, sia la stretta che, unendo le mani di interlocutori di pari livello, sottolinea la loro volontà di impegnare reciprocamente il rispettivo potere, facendo uso di una prerogativa autonoma e sovrana per entrambi. Esiste infatti ab origine, nella sfera privata, una realtà, che non può essere ignorata e si deve pertanto ipotizzare che, nell’età arcaica, alla base dei rapporti politici, fondati essi pure – come le relazioni personali tra individui della stessa classe sociale – sulla fides, stia la nozione di amicitia.
All’interno del sistema che possiamo in senso lato definire "romano" si coglie la traccia di un concetto antichissimo ed istintivo. Prima che esistano leggi e trattati, prima persino che la sacralità abbandoni il suo stadio primordiale, l’idea di fides si afferma come fondamento essenziale di una certa società italica. Nel momento stesso in cui due uomini si porgono la destra in segno di intesa nasce il primo sodalizio civile: koinonia tra individui, dapprima, non tra stati, e istintivamente aristocratica, perché aperta ai migliori. Fides, il corretto e leale comportamento, costituisce dunque la base stessa del codice etico che regola il rapporto tra aristocratici e da quest’ambito passa, in seguito, ad informare di sé il piu antico diritto internazionale.
Da simili considerazioni sembra di poter concludere che le relazioni tra stati mutuano da quelle interpersonali ogni loro carattere: i presupposti, gli strumenti, persino i limiti. Questi ultimi, in particolare, sono gli stessi per entrambi i piani e sono determinati dalla natura aristocratica della società romana. Il rapporto, amichevole od ostile che sia, è regolato dalla fides. “Non c’è tra noi e i Falisci quel vincolo che nasce dai patti umani, ma quello che la natura ha ingenerato in entrambi è presente e rimarrà” (Livio V, 27.6): così Camillo ammonisce il maestro di Falerii, rinviandolo nella città assediata prigioniero di quegli stessi fanciulli di nobile stirpe che egli intendeva consegnare ai Romani.
Proprio il senso di questa communitas societatis humana...