L'anno della morte di Luigi Crocetti
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L'anno della morte di Luigi Crocetti

Un racconto di biblioteconomia

Alberto Cheti

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L'anno della morte di Luigi Crocetti

Un racconto di biblioteconomia

Alberto Cheti

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Il racconto evoca i dialoghi immaginari tra un allievo e il maestro avvenuti dopo la morte di quest'ultimo. Il maestro è Luigi Crocetti, una figura ben nota e indimenticabile nel mondo delle biblioteche: bibliotecario della Biblioteca nazionale di Firenze, studioso e insegnante di biblioteconomia, presidente negli anni '80 dell'Associazione italiana biblioteche. La morte del maestro suscita nell'allievo il desiderio di conversare con lui su alcuni temi legati all'attività delle biblioteche, relativi in particolare alla catalogazione semantica. Nei colloqui, complice l'emozione per la scomparsa del maestro, si insinuano quasi inevitabilmente sentimenti, ricordi, descrizioni di paesaggi, semplici e un po' ingenue riflessioni su alcuni temi della vita. Entrambi questi motivi sono accomunati dall'intenzione di disporre il protagonista del racconto e il lettore ad ascoltare di nuovo la lezione del maestro. Seppure in forma narrativa, il testo ripercorre alcuni passaggi chiave degli scritti di Crocetti e intende anche contribuire alla ricostruzione della sua biografia intellettuale. In appendice, sono riprodotti due saggi dell'autore sul pensiero e l'opera di Luigi Crocetti.

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Chiarìe del bosco
La stretta strada bianca che sale verso il passo, attraverso ombrose faggete e qualche scorcio su pareti rocciose, a un certo punto fa una curva a gomito verso destra. Girando lo sguardo dalla parte opposta, s’intravede il chiarore verde del prato, a cui invita un sentiero anonimo, quasi invisibile. Si entra. Camminando sul terreno pianeggiante ai margini del bosco, s’incontra un prato e poi un altro e un altro ancora. Le radure erbose sono appena nascoste da quinte di faggi ora più fitti ora più distanziati; una di queste radure, in discesa, si raggiunge solo dopo esserci inoltrati di nuovo nel folto del bosco, appena annunciata dalla luce che all’improvviso vi apre un varco. Non è possibile da lì disegnarne il profilo. Occorrerebbe salire più in alto e allora apparirebbero come ampi intagli nella vegetazione. Il manto erboso, in certi punti così spesso da infilarci mezza gamba, solcato da rivoli d’acqua nascosti, a tratti ricoperto da piante di mirtilli e di lamponi, impreziosito da arbusti di ginepro e in primavera da fiori di colore giallo e porpora, incute rispetto per quei luoghi e fa sentire il visitatore quasi un intruso. L’erba alta e le acque abbondanti che vi s’insinuano non facilitano la sosta. Invece, è frequente incontrarvi d’estate qualche mucca al pascolo, più raramente, un cervo o un capriolo. E il silenzio.
Attraversando quelle radure, tornano in mente, seppure con una certa vaghezza, le parole ispirate di una scrittrice, che a rileggerle suonano così: «Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. [...] Qualche uccello richiama l’attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà ascolto. Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell’istante e che mai più si darà così. Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. È la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. […] E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si cerca. Mentre se non si cerca nulla, l’offerta sarà imprevedibile, illimitata».
In quell’alternanza dell’oscuro del bosco e del chiaro della radura, in quella luce riflessa, obliqua, tremolante, in quel luogo simbolico che allude alla dialettica tra l’ascolto e la domanda, tra il timore dell’estasi e il desiderio di sapere, è possibile riconoscere i segni della presenza del maestro, della guida. Del resto, l’attraversamento dei chiari del bosco richiama il nostro apprendimento dietro a lui, l’ascolto delle sue parole, di lezione in lezione; ma anche la parola perduta, la parola rimasta in sospeso, la parola che invano si cerca di rammentare o di rintracciare tra gli appunti di lezioni passate. Ancora lei: «Come i chiari, le aule sono spazi vuoti pronti a venirsi riempiendo uno alla volta, spazi della voce nei quali si apprenderà con l’udito, ossia in modo più immediato che dalla parola scritta, alla quale bisogna per forza restituire accento e voce per sentire che ci viene diretta».
È quello che, nell’estate del Duemilasette, è capitato a Giovanni C., attraversando quei prati: ascoltare e poi restituire accento e voce alle parole di Luigi, soprattutto a quella sua lezione che aveva udito molti anni prima e che desiderava ci venisse nuovamente diretta.
È partito una mattina, nei giorni prima di Ferragosto, alla volta di Corfino, nell’alta Garfagnana. Ha prenotato una camera all’albergo La Baita, una piccola pensione a conduzione familiare, in cima al paese. La finestra della camera in cui si è sistemato dà sul crinale sud del massiccio roccioso della Pania, che la sera s’indora. Di là dal costone ripido della montagna si scopre appena il tetto di una casa del vicino borgo di Sassorosso, che da quella vista s’immagina – cosa non distante dal vero – costruito sullo scosceso. Al piano terra della pensione, c’è un salottino, con un tavolo e alcune poltrone, che nessuno degli ospiti frequenta, preferendo i tavolini fuori, nel piccolo giardino sormontato da due tassi, o la sala della televisione. Al di là del giardino, oltre un muro che fa da riparo, si apre un ampio prato, dove i gestori della pensione stendono i panni ad asciugare. Insomma, c’è più di un luogo appartato, dove Giovanni C. potrà rifugiarsi a leggere e scrivere, ogni giorno, una volta ridisceso in paese.
Esauriti i preamboli, è ora di seguirlo mentre conversa con Luigi. Quello che ci è stato possibile ascoltare – non si sa se il tutto o solo una parte dei loro colloqui – inizia con Giovanni C. che informa Luigi su un lavoro che ha appena intrapreso.
Quadro I
La scena è un’ampia radura in mezzo a una faggeta, in una giornata di sole. Grosse piante si ergono qua e là sul prato pianeggiante, che va a lambire i margini della foresta accompagnato, tra luci e ombre, da alberelli di maggiociondolo e sorbo montano. Giovanni C. e Luigi camminano conversando. Ogni tanto si siedono sotto un faggio per riposare.
Giovanni C.
(con enfasi) Sto cercando degli spunti per scrivere il primo capitolo, la premessa storica, di un saggio sull’analisi concettuale dei documenti. Mi sono chiesto quale fosse l’origine di quella riflessione che si è andata sviluppando in Italia negli ultimi decenni. Quando è avvenuta la semina, da cui è germogliata la mèsse? Qual è la tradizione, se c’è, alla quale si rifanno i modelli che informano i nostri strumenti di indicizzazione? Rispondendo a queste domande, vorrei anche saldare un debito che ho con te, onorare una promessa non ancora mantenuta.
Luigi
(con una sottile, provocatoria, quanto benevola ironia) Caro Giovanni, il tuo male è l’indugio. Quando sopraggiunge un’idea, ci rimugini sopra a lungo, troppo a lungo; ti lasci trascinare nel suo vortice, finché non viene in soccorso la parola giusta, la parola che rende l’idea, quell’unica parola che l’esprimerà, la parola liberatoria, a far posto a un’altra idea. E il vortice ricomincia. Forse, hai preso troppo sul serio il tuo filosofo: quando l’idea gli fissa un appuntamento, aspetta per giorni e notti, digiunando; quando lo chiama, lui si alza, lascia tutto e la segue; quando torna da questi incontri, non ha da rendere conto a nessuno, nessuno gli chiede spiegazioni né del resto saprebbe darne.
(sorridendo) Figurarsi! Neppure ai filosofi oggi sarebbe concesso di tornare dai loro incontri con le idee senza un’idea utile. Qualcuno potrebbe aggiungere: un’idea che viene alle nove del mattino, se a mezzogiorno non si è realizzata, non è una buona idea. In più, ora vuoi indugiare sul passato. A che serve?
Giovanni C.
(con una reazione apprensiva e un tono un po’ concitato) Non sei stato tu a raccomandare alle biblioteche la conoscenza della tradizione? Non è tua la domanda cruciale: le biblioteche italiane del nostro tempo stanno nella loro tradizione? Non ci hai più volte ammonito a non pensare di essere la prima tigre?
Luigi
(con pacata fermezza) Sì, ma non dobbiamo confondere la tradizione con il passato. Soltanto per i pigri intellettualmente, per i conformisti, tradizione e passato sono sinonimi. Né dobbiamo confondere la tradizione culturale con la tradizione biblioteconomica. Quest’ultima da noi è come se non esistesse. La biblioteconomia italiana è ricca di passato e povera di tradizione. Ma questo passato non ci suggerisce nulla, per i nostri bisogni d’oggi. Mentre la biblioteconomia, in quanto disciplina tecnica, deve tenere conto dei cambiamenti culturali e delle necessità del pubblico.
Giovanni C.
È un giudizio severo. Ma forse ho capito quello che vuoi dire: la tradizione è ciò che del passato serve al presente e, dunque, non c’è tradizione senza contemporaneità, così come la contemporaneità deve misurarsi sulla conoscenza della tradizione, fosse anche una tradizione contemporanea, se non si vuole ogni volta reinventare l’ombrello.
(dopo una breve pausa) Volendo aggiungere una considerazione più generale, direi: al passato corrisponde la reminiscenza, alla tradizione la riconoscenza. Se la prima è il ricordo di ciò che è stato, la seconda è il riconoscimento che ciò che è (presente) è stato. Conoscere il passato, riconoscere un’eredità. E la ripresa? Forse, per ottenere la ripresa, dovremmo aggiungere, alla reminiscenza e alla riconoscenza, l’invenzione, compresa quella parte di invenzione necessaria perché del mondo passato possa rimanere anche un volto, uno sguardo, un sorriso, un’agonia.
Luigi
(all’inizio con un sorriso, poi in tono più serio) Non so dove tu voglia andare a parare. Forse, nel nostro campo, ciò che dici significa che non basta conservare il mondo passato, occorre saperlo valorizzare. Così, ciò che ci lasciano i poeti, i gentiluomini e i pirati – ciò che lasciano materialmente, intendo – ci interessa, perché è opera loro, costruita da loro: e questa loro costruzione ci aiuta a costruire ciò che essi erano, le loro menti e il loro cuore.
Hai parlato poc’anzi di eredità. Spesso, un’eredità, come il tesoro dei pirati, è nascosta sottoterra e per trovarla occorre scavare. Prima, però, serve una mappa, una mappa del sottosuolo... Ma ora, Giovanni, sarà meglio ritornare al compito di cui mi hai parlato, per il quale sono disposto a darti una mano.
Per incominciare, hai portato con te la lezione di Casamassima sulla soggettazione?
Giovanni C.
(un po’ sorpreso) Conosco bene quella lontana lezione. L’ho letta e ne ho consigliato la lettura tante volte. Qualcuno l’ha definita il compendio maturo della prassi e della teoria delle quali Casamassima è stato interprete alla Nazionale di Firenze. Si tratta, infatti, dell’esposizione più chiara e organica dei principi e delle regole della soggettazione.
(dopo un istante, con esitazione) Ma in che cosa può essermi di aiuto riguardo al compito che mi sono proposto?
Luigi
Ti fornisco un indizio. Leggi con attenzione le due pagine introduttive sui rapporti tra classificazione e soggettazione. Poi, dimmi cosa ne pensi. Ora vai, ché il tempo stringe. A domani.
Giovanni C.
Grazie, Luigi. A domani.
Quadro II
Giovanni C. e Luigi, usciti dal bosco, discendono per un prato scosceso, in fondo al quale c’è un piccolo spiazzo ameno. Tutto intorno piante di lamponi e ginepri. Appena oltre, un largo sentiero conduce di nuovo nel folto del bosco. Da lì si vedono le cime dell’Appennino. È un posto appartato e accogliente, ideale per fermarsi a conversare.
Giovanni C.
(con un tono di soddisfazione) Avevi ragione, Luigi. L’introduzione della lezione di Casamassima esprime una posizione molto forte e chiara. Infatti, il rapporto tra classificazione e soggettazione vi è declinato in un modo completamente nuovo: non un confronto tra le due tecniche, che ne mostri vantaggi e svantaggi, non una discussione sulla coesistenza o meno dei due tipi di catalogo, classificato e per soggetti, ma una loro stretta correlazione, sia al livello teorico che pratico. Una correlazione che si manifesta su diversi piani. Innanzitutto, entrambe le tecniche si applicano a un oggetto comune, l’enunciato di soggetto, che è risultato dell’analisi concettuale, operazione fondamentale tanto nella soggettazione che nella classificazione. Inoltre, ciò che ognuna ha di peculiare – la struttura classificatoria razionale dei sistemi di classificazione, la ricchezza lessicale dei soggettari – può essere di aiuto all’altra. Talvolta, le due tecniche possono trovarsi integrate nella struttura del catalogo, come accade in un catalogo classificato. Ma il legame più stretto, la relazione più intima si manifesta nella necessità di riferirsi ai principi classificatori, quando si vogliano stabilire rapporti coerenti e organici tra soggetti affini. Insomma, non è possibile dare coerenza e completezza al sistema dei richiami e dei rinvii – avverte Casamassima – senza ricorrere a una struttura governata dai principi classificatori.
Luigi
Come avrai notato, tutto questo è preceduto, nella lezione di Casamassima, da due affermazioni complementari molto impegnative. La prima affermazione recita: il tema dei rapporti tra classif...

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